Agostino Gallo e la prosperità agricola della Rinascenza
I grandi agronomi della storia. Patrizio bresciano che abbandona la città, dove ha svolto attività commerciali, per assumere in prima persona la direzione dell'azienda agricola a Borgo Poncarale, e che dell'esperienza nata dalla decisione riferisce, con estrema penetrazione, nelle Vinti giornate dell'agricoltura et de' piaceri della villa, l'opera che dopo un'edizione minore nel 1564, quando le Giornate sono soltanto dieci, conosce la forma definitiva nell'edizione veneziana del 1569
Arte, economia, agricoltura
Una parola impone all’immaginazione i tratti di una stagione irripetibile dell’arte. Singolarmente, la stessa parola quasi nulla suggerisce alla nostra fantasia nella sfera dell’economia e della tecnica: per la percezione comune il Rinascimento è stagione d’arte, al cui splendore le tecniche produttive ed i commerci non avrebbero prestato che un contributo minore. L’abbaglio della percezione comune è palese: non occorre, infatti, essere cultori insigni della storia delle civiltà per comprendere che una società che si esprime mediante grandi opere d’arte non può che essere una società ricca: mantenere al lavoro pittori e scultori, fornire marmo e mattoni agli architetti ha un costo ingente, che solo una società opulenta può permettersi. Per essere ricca una società deve possedere un’economia florida, quindi industrie e commerci. Salvo, peraltro, casi singolarissimi, pensiamo a Venezia e ad Amsterdam, nessuna società antica poté vantare un’economia florida senza un’agricoltura efficiente e produttiva.
Se il sillogismo è coerente, il Rinascimento italiano non avrebbe potuto celebrare i propri fasti se non si fosse fondato su un’agricoltura funzionale: la supposizione trova l’avallo più sicuro nella storia dell’economia di quell’epoca eccezionale, che dimostra che la ricchezza delle campagne italiane sarebbe stata tale da convertirsi in causa della rovina d’Italia, siccome avrebbe attratto nella Penisola tutti gli eserciti d’Europa, immense bande da preda che avrebbero distrutto, per appropriarsene, la prosperità italiana.
Testimoniano la floridezza delle campagne italiane, in special modo quelle padane, nel Cinquecento, prove eloquenti: la prima è costituita dal numero degli abitanti della Penisola, secondo alcuni storici oltre dieci milioni, il doppio di quelli che lo stesso territorio alimentava nell’Alto Medioevo. La seconda ci è fornita dal numero di quegli abitanti che risiedeva in città. L’Italia rinascimentale conosce un urbanesimo per quell’epoca intensissimo: seppure molti abitanti di Firenze e Siena escano ancora, nel Cinquecento, ogni mattina da una porta cittadina per andare a coltivare il proprio campo, siano, cioè, contadini di città, un’agricoltura che riesce ad alimentare le cento città d’Italia non può che essere un’agricoltura evoluta, che ha superato di molti secoli lo stadio di produttività dell’agricoltura medievale, capace di alimentare la piccola comunità vivente attorno al castello, e di dirigere al mercato cittadino una quantità di derrate che non può alimentare che una popolazione esigua. Per mantenere un artigiano della città nell’Alto Medioevo occorre, probabilmente, l’opera di due o tre contadini, nel Rinascimento basta, in base ad un calcolo approssimativo, quella di uno.
Entità della popolazione complessiva e quota della popolazione urbana sono, peraltro, prove indirette della floridezza agricola, della quale abbiamo anche prove dirette, le più significative costituite dai libri che descrivono le campagne italiane. L’Italia appare un immenso giardino, ad esempio, nella famosa Descrittione di tutta iItalia di Leandro Alberti, che disegna uno scenario che trova perfetta conferma negli appunti dei viaggiatori che visitano la Penisola attratti dallo splendore delle sue città, tra i più illustri Michel de Montaigne. I testimoni più autorevoli della ricchezza dell’agricoltura italiana sono, tuttavia, i veri specialisti delle conoscenze agrarie, gli agronomi, e tra gli agronomi italiani del Cinquecento un nome campeggia al di sopra di tutti gli altri, quello di Agostino Gallo.
Conversando nel pomario
La Rinascenza è anche stagione di rinascita della cultura agronomica: dopo i lunghi secoli in cui lo studio delle produzioni dei campi si è contratto, in tutto l’Occidente, alle affabulazioni di Pier de’ Crescenzi, nel crepuscolo del Quattrocento un umanista spagnolo, Gabriello d’Herrera, scrive un’opera agronomica con la quale ripropone lo spirito empirico della grande scienza dei campi latina. È il manifesto di una fioritura nuova di indagini: in Inghilterra, in Germania, in Francia e in Italia si riscopre lo spirito dei classici ma non ci si arresta ai classici, si penetrano le procedure di produzione che si sono imposte nei decenni recenti, procedure originali per la cui analisi gli strumenti concettuali dell’agronomia classica sarebbero insufficienti. Singolarmente, in tutti paesi che partecipano alla nuova fioritura, nella biblioteca agraria che prende forma nella cornice rinascimentale un’opera si impone sulle altre: in Inghilterra è il poema didascalico di Tusser, in Germania il trattato di Heresbach, in Francia quello di Olivier de Serres. In Italia il primato spetta ad Agostino Gallo, il patrizio bresciano che abbandona la città, dove ha svolto attività commerciali, per assumere in prima persona la direzione dell’azienda agricola a Borgo Poncarale, e che dell’esperienza nata dalla decisione riferisce, con estrema penetrazione, nelle Vinti giornate dell’agricoltura et de’ piaceri della villa, l’opera che dopo un’edizione minore nel 1564, quando le Giornate sono soltanto dieci, conosce la forma definitiva nell’edizione veneziana del 1569.
Il titolo rispecchia la forma dell’esposizione, che è quella del dialogo, la formula tradizionale della trattatistica scientifica dell’antichità: hanno esposto le proprie idee nel contrappunto del dialogo la maggioranza degli autori che hanno scritto di filosofia e di scienza tra Platone e Galileo. Durante venti giornate un possidente amante di agricoltura, messer Giovan Battista Avogadro, illustra ad un amico, messer Vincenzo Maggio, che viene a fargli visita nella villa di campagna, le procedure per la coltivazione di cerali, specie foraggere, piante tessili e tintorie, quelle per la coltura della vite e degli alberi fruttiferi, le tecniche per l’allevamento razionale dei bovini, degli ovini e dei suni, le metodologie per la manipolazione dell’uva per ricavarne il vino, del latte per ritrarne il formaggio, delle olive per ricavarne l’olio. Un capitolo di speciale interesse è dedicato agli agrumi, la prima coltura sotto serra della storia delle pratiche agrarie, fonte, sulla riviera del Garda, di una produzione che, rifornendo le tavole patrizie di tutto il Settentrione, assicura a chi la esercita guadagni ingenti, senza confronto in qualunque sfera diversa della produzione agraria.
La conversazione si svolge ogni giorno in un ambito diverso della villa, l’accorgimento che consente a Gallo di descrivere, ad ogni incontro, una parte nuova della villa di campagna che costituisce il suo orgoglio: il loggiato, il pomario, la pergola accanto alla peschiera, il giardino. Alla conversazione tra i protagonisti intervengono ospiti diversi dell’Avogadro, lo Scaltrito, il mandriano che d’inverno ricovera le vacche nelle stalle di Poncarale per ricondurle, in primavera, ai pascoli sulle Alpi, messer Ludovico Barignano, la cui esperienza militare ma ha fatto maestro sull’addestramento dei puledri per gli usi di guerra, Robino, il giardiniere di Maderno che illustra ai nobili amici i segreti della coltura degli agrumi nelle serre gardesane. Inquadrato nella cornice della villa rinascimentale, condotto con modi gentili da signori patrizi, e da popolani che la maestria tecnica eleva al grado di maestri d’arte, il dialogo di Gallo vanta un posto tra le opere emblematiche della letteratura cinquecentesca. La penetrazione delle cognizioni agronomiche che ci propone nelle belle forme della Rinascenza impongono le Giornate tra i capolavori della lunga parabola della letteratura agronomica dell’Occidente.
Densità demografica e irrigazione
Le Giornate pretendono un posto tra le espressioni più alte del pensiero agronomico perché illustrando pratiche di coltura e tecniche di manipolazione delle derrate Agostino Gallo mantiene fisso lo sguardo al problema capitale di un ordito agrario, il problema del numero di persone che esso è in grado di alimentare su una superficie data, il problema, cioè, della densità del popolamento di cui esso assicura il perdurare. L’autore bresciano affronta specificamente il complesso tema nel Proemio che premette, nelle ultime edizioni, alla diciottesima giornata, dove vanta la meravigliosa produttività di una terra che, nonostante l’entità dei colli e dei monti, assicura, su trecento miglia quadrate, la vita di settecentomila abitanti. Il computo sarebbe errato: studiando i dati delle relazioni dei governatori di Brescia al Senato della Serenissima gli storici reputano il popolamento del Bresciano inferiore a quello supposto da Gallo. Il più autorevole demografo dell’Italia antica, Julius Beloch, riconosce, peraltro, alla provincia di Brescia, nel Cinquecento, una popolazione di 100 abitanti per chilometro quadrato, a quell’epoca un autentico prodigio.
Con lucidità esemplare, Gallo attribuisce l’entità della popolazione bresciana all’intensività dello sfruttamento del suolo, uno sfruttamento che si fonda, dovunque è stato possibile diramare, con canali artificiali, la distribuzione dell’acqua, sulla più rapida successione di colture destinate all’alimentazione umana e di colture foraggere destinate ad alimentare il bestiame, producendo il latte che si trasforma nel più ricco di tutti i prodotti agricoli d’Italia, quel formaggio a pasta cotta che prenderà, nei secoli successivi, il nome di Parmigiano Reggiano o di Padano.
Gli storici dell’economia non hanno ancora percepito, né, quindi, posto nel risalto necessario, il ruolo dirompente che la maglia di canali realizzati nella Pianura padana fino dal Trecento esercita sul contesto dell’economia agraria. Siccome, infatti, gli ordinamenti medievali fanno pagare al proprietario l’acqua ogni anno, l’acqua rende impossibile all’agricoltore, anche non volesse, attardarsi nella pratica del maggese, il riposo cui è stato rimesso il ripristino della fertilità da tutte le agricolture primitive. Nello stesso campo non si può, peraltro, coltivare cereali tutti gli anni, ai cereali è giocoforza alternare i foraggi, la cui dilatazione impone l’incremento della dotazione di bestiame, che produce, a sua volta, l’aumento delle disponibilità di letame, che, riversate nei campi di grano, sospingono l’innalzamento delle rese.
È un meccanismo che, messo in moto, nessun agricoltore può fermare con la propria inerzia: l’inerte sarà inevitabilmente espulso dalla terra, siccome incapace di pagare gli affitti che, sfruttando l’acqua, saranno in grado di offrire ai proprietari i vicini più solerti. E’ un meccanismo che muta radicalmente lo scenario agrario: se prima della trasformazione dobbiamo immaginare, infatti, una campagna in cui metà dei campi è seminata a grano, metà viene pazientemente rivoltata, consumando immense energie umane e animali, senza produrre nulla, dopo la trasformazione alla metà dei campi coltivata a grano si affiancheranno prati stabili e campi di trifoglio e di lino, dopo il cui taglio, alquanto precoce, gli agricoltori più abili effettueranno, nella tarda estate, una coltura di sorgo o di mais, la pianta giunta dall’America di cui Gallo testimonia il travolgente trionfo nelle campagne irrigue della Lombardia, dove la maggiore produttività le consente di soverchiare rapidamente tutte le colture da cui i contadini ricavavano, tradizionalmente, la polenta quotidiana, il miglio, il panico e il sorgo.
I fasti del caseificio padano
Cereali e foraggi, frumento e latticini. Singolarmente, l’agricoltore bresciano più avveduto, il protagonista del dialogo è esempio emblematico, non è proprietario, nel Cinquecento, del bestiame che consuma i suoi foraggi, né è lui a provvedere alla trasformazione in formaggio del latte che se ne ricava. È un paradosso sorprendente, che si spiega, però, rilevando il ruolo ingente, nell’economia lombarda, delle malghe alpine, la cui prodigiosa disponibilità di foraggi pronti al pascolo costituisce la prima fonte dell’industria casearia. I fieni raccolti, a prezzo di ingenti fatiche, sui prati irrigui del piano, non sono che il complemento invernale delle risorse spontanee dell’estate, che i malghesi che scendono, in autunno, dagli alpeggi, pagano in moneta d’oro per sfruttare l’ultima produttività delle proprie bestie, e per conservare gli animali nelle condizioni migliori perché siano pronti, appena sarà possibile la nuova monticazione, a sfruttare tutto il potenziale dell’erba alpina.
Il cuore della produzione casearia è quella che il malghese realizza d’estate, quella del formaggio tradizionalmente denominato di “sorte maggenga”, mentre il formaggio prodotto al piano, la “sorte vernenga” è considerato produzione di seconda qualità. Se volesse sfruttare direttamente i suoi fieni, il proprietario del piano dovrebbe comprare bestie e mandarle, d’estate, all’alpeggio affidandole a un subordinato, che non ne ricaverebbe mai quanto ne ricava un malghese che cura le gli animali con la passione che si rivolge alla fonte essenziale del proprio reddito. La conversazione con lo Scaltrito, il malghese che acquista i fieni dell’Avogadro, ci rivela nel mandriano un autentico professionista, capace di calcolare il tornaconto dell’impiego di ogni input produttivo: sa valutare perfettamente, ad esempio, quale sia il prezzo del formaggio che rende conveniente abbondare, come integrazione foraggera, col panello di lino, siccome il latte prodotto in più assicurerà un margine sulla maggiore spesa.
In una pagina famosa Gallo mette sulla bocca dello Scaltrito l’illustrazione della procedura per ricavare il formaggio a pasta cotta tipico dell’allevamento padano: è la prima pagina sulla tecnologia del Parmigiano della storia della letteratura agraria, una pagina che Gallo arricchisce di significative annotazioni mercantili sottolineando l’entità delle esportazioni della preziosa derrata. Singolarmente, nel Parmigiano, che produce con una tecnica praticamente identica a quella attuale, lo Scaltrito mescola anche il latte delle proprie pecore, un’operazione da cui derivano, verosimilmente, formaggi che oggi apprezzerebbero solo gli amanti dei gusti prepotenti.
Il disgusto francese
Sono oltremodo numerosi, scorrendo le Giornate, i temi che attraggono il lettore moderno, invitandolo a soffermarsi per penetrare le sfere diverse di un mondo agricolo tanto evoluto sul piano agronomico, su quello tecnologico, su quello economico. Tra tutti, dovendo scegliere il più rilevante non si può non soffermarsi sulle pratiche di cantina, che Gallo illustra alla terza giornata. L’elemento di significato maggiore della trattazione è una notizia che Gallo fornisce come premessa, la rievocazione del disgusto che i cavalieri scesi in Lombardia sotto gli stendardi di Luigi XII manifestarono per i vini locali, un disgusto tale da indurli, per poter bere vini comparabili a quelli degli chateaux lontani, a costringere i vignaioli delle terre sottomesse a vinificare “al modo loro di Francia”. È notizia di interesse cospicuo, la testimonianza più esplicita della la letteratura agronomica della differenza sussistente, all’alba del Cinquecento, tra il vino francese e quello italiano. Mentre il primo è già, infatti, la bevanda limpida, alcoolica e profumata che pretende il gusto moderno, il vino padano è ancora la soluzione densamente colorata e pesantemente tannica del Medioevo, priva di ogni aroma e carica di acidità, in primo luogo quella acetica.
La ragione del divario, essenzialmente, la differenza dei tempi durante i quali viene protratta la fermentazione, che in Francia non viene prolungata oltre due-tre giorni, che in Italia si prolunga, non di rado, fino a venti. La testimonianza di Gallo prova, quindi, che a metà del Cinquecento esistono in Europa due culture del vino, quella francese, che è nata e si è sviluppata nelle valli dei grandi fiumi della Germania e della Francia, dove il basso contenuto zuccherino delle uve ha imposto una tecnologia di cantina efficiente e raffinata, quella dell’Italia, dove le caratteristiche intrinseche delle uve, più zuccherine, non hanno stimolato, per secoli, l’evoluzione enotecnica, così da indurre il protrarsi di un gusto del vino del tutto primitivo.
Seppure maestro di tecnologia, Gallo stesso mostra l’entità del travaglio imposto dal passaggio da una tecnologia all’altra dedicando lunghe pagine a pratiche enologiche irreparabilmente ancorate al gusto arcaico, prive di ogni relazione con quel gusto nuovo di cui pure testimonia la penetrazione. Conseguenza della conquista francese, quel travaglio è transitorio: nella decadenza del Seicento gli impulsi al progresso si affievoliranno, in tutta la Penisola le pratiche di cantina regrediranno alle primitive procedure del Medioevo, nel contesto di un’agricoltura arretrata l’enologia sarà la più arcaica tra tutte le procedure di manipolazione delle derrate praticate nelle campagne italiane. Perché il gusto moderno, quello francese, del vino, e le tecniche correlate si impongano in Italia dovrà trascorrere più di un secolo: la rinascita del vino italiano sarà fenomeno peculiare del Ventesimo secolo. Grazie alla qualità di uve troppo a lungo male utilizzate, quando quel fenomeno si realizzerà produrrà effetti dirompenti, trasformando un paese in cui i buongustai bevevano vino d’importazione nel primo esportatore mondiale dei prodotti del vigneto.
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