Saperi

Agricoltura sociale

Dieci anni fa il primo convegno a Roma, poi il resto è storia nota. Una iniziativa coraggiosa e socialmente responsabile, anche perché all'epoca nessuno immaginava cosa fosse. E' stato, nel corso degli anni da allora, un percorso virtuoso di cui essere orgogliosi. Un motivo in più per ricordare da dove eravamo partiti

Alfonso Pascale

Agricoltura sociale

Il 7 marzo 2005 si svolse a Roma la prima iniziativa pubblica sull’agricoltura sociale. Fu merito di Tiziana Biolghini, all’epoca consigliera delegata alle Politiche dell’Handicap della Provincia di Roma, indire nell’Aula Magna del CNR il Convegno sul tema “Fattorie sociali: nuova frontiera di un’agricoltura responsabile”.Io svolsi la relazione introduttiva in qualità di dirigente della Confederazione italiana agricoltori (CIA) che qui ripropongo. E’ stata un’iniziativa coraggiosa, perché nessuno sapeva ancora cosa fosse l’agricoltura sociale. Le poche esperienze esistenti non avevano consapevolezza dell’importanza della loro attività. Da allora abbiamo fatto tanta strada. Ma è bene ricordare da dove siamo partiti.

Con il Convegno di oggi intendiamo proporre un nuovo approccio progettuale allo sviluppo sociale nelle aree rurali. E in tale quadro vorremmo dare il senso di una collaborazione che, per iniziativa della Cia, sta per avviarsi tra il mondo agricolo organizzato, la vasta galassia del terzo settore e la Provincia di Roma, per realizzare percorsi terapeutici, riabilitativi e di integrazione sociale di persone svantaggiate mediante la valorizzazione delle risorse agricole e ambientali.

La società contemporanea richiede all’agricoltura di svolgere, ancor più di ieri, una molteplicità di funzioni. La principale resta sempre la stessa: produrre beni e servizi legati alla sfera alimentare. E tentiamo di svolgerla al meglio, non già in base al vecchio obiettivo di produrre quanto più possibile, ma in base all’esigenza di soddisfare una domanda di prodotti di qualità.

Il nostro impegno, pertanto, si è concentrato nell’accrescere l’offerta di prodotti tipici e biologici e nell’adottare strategie della qualità all’interno delle diverse filiere agroalimentari.

Oggi ci viene richiesto un ulteriore sforzo: produrre cibi che soddisfino anche valori etici.

Nel nostro Paese, il numero di questi consumatori – che potremmo definire “responsabili” – è stimato intorno al 14-15 per cento degli italiani. Essi sono disponibili a pagare un sovrapprezzo del 15-20 per cento del totale nell’acquisto di prodotti etici.

Per soddisfare tali esigenze, non si tratta solo di garantire che l’alimento provenga da un processo produttivo rispettoso della dignità dei lavoratori che contribuiscono a realizzarlo, del benessere degli animali coinvolti e dell’integrità dell’ambiente. Questo già lo dobbiamo fare, perché ci viene prescritto dalle norme di legge. Pensiamo, però, di dover andare oltre. Vorremmo far giungere sulle tavole delle famiglie e nei diversi centri di ristoro un cibo dall’alto valore etico: quello prodotto in aziende agricole che svolgono veri e propri servizi sociali a beneficio della collettività.

Di che si tratta? Tutti voi avrete visitato una fattoria didattica: un’azienda agricola a tutti gli effetti, dove i bambini e i ragazzi hanno l’opportunità di avvicinarsi, spesso per la prima volta, ai processi biologici che contraddistinguono le attività agricole. E’ l’agricoltrice o l’agricoltore in persona che mostra ad un bimbo come si coltiva un campo di grano o si cura un orto, come cresce e si raccoglie una mela, come si alleva un agnellino, come si fa il pane.

Si tratta di una fondamentale funzione culturale, a vantaggio di una società che ha perduto ogni contatto con il mondo rurale e non si accontenta dei surrogati offerti nei parchi cittadini. Ma vuole sperimentare il rapporto con una campagna vivida e un’agricoltura produttiva e redditizia. Le aie diventano così laboratori di ecologia all’aperto e gli orti si trasformano in percorsi dimostrativi. I magazzini si convertono in piccoli musei della civiltà contadina e stimolano la conoscenza del ciclo millenario dell’agricoltura. Esponendo le testimonianze degli oggetti, dei lavori e delle tradizioni del mondo rurale, aiutiamo le nuove generazioni a recuperare il senso delle radici su cui sono costruite le nostre identità collettive.

Ecco, queste aziende agricole sono fattorie sociali allo stato embrionale. Esse, infatti, svolgono una funzione sociale di grande rilevanza, non da sole perché non ne avrebbero le competenze e le professionalità, ma necessariamente in collaborazione con il mondo della scuola o con altre istituzioni culturali.

Queste esperienze incominciano ad essere significative anche nella Provincia di Roma. Su di esse stiamo tentando di innestare nuove attività che portino ad espandere la funzione sociale di queste aziende: in primo luogo, quelle attività che, utilizzando sia piante che animali a fini terapeutici e riabilitativi, favoriscono il benessere di diverse categorie di persone svantaggiate.

A Bracciano, l’azienda Formaggi ha predisposto un progetto di riconversione delle proprie attività in collaborazione con la Cooperativa sociale Athos Tech. A Tragliatella, alle porte di Roma, una giovane coppia di agricoltori, che conduce l’azienda Rinaldi, sta ampliando la propria fattoria didattica a nuove attività sociali. E analoghi progetti vanno realizzando l’azienda Pozzi a Tenuta dei Massimi e l’azienda biologica Montironi a Canale Monterano.

Il nostro Centro di istruzione professionale e assistenza tecnica (CIPAT) ha accumulato una discreta competenza progettuale nell’agricoltura etica. Ha realizzato in Toscana il progetto AGROLIBERI II e partecipa tuttora ai programmi Equal e ad altre iniziative comunitarie.

I precursori

Per imparare a fare queste cose ci siamo rivolti a coloro che hanno avviato già da anni esperienze di agricoltura sociale. Ed operano in modo discreto e spesso nella generale incomprensione o distrazione. Innanzitutto la Comunità di Capodarco, che ha dato vita a due cooperative sociali operanti nel settore agricolo. Ci sono poi altre imprese sociali, come la cooperativa “Agricoltura Nuova”, nata nel 1977 a seguito del movimento di lotta per lo sviluppo dell’occupazione giovanile in agricoltura, o la più recente “Lazzaria”, in cui operano i detenuti dell’istituto di pena di Velletri e i cui vini come Il Fuggiasco, Quarto di Luna e Sette Mandate sono esposti al Vinitaly. Esistono, infine, strutture associative, come “La Fattoria Verde Onlus” di Palidoro, che è un centro agricolo sperimentale con finalità sociali, e la cooperativa “Darwin” di Ceri, che è un centro di selezione di colombiformi.

Prendendo contatto con queste realtà, che non sono nate dall’agricoltura, abbiamo avvertito subito una spontanea e reciproca disponibilità a venirsi incontro. E’ un mondo affascinante di operatori sociali, che sta sperimentando positivamente l’attitudine di un oliveto o di un vigneto o di una serra ad integrare una persona con problemi psichici o comunque a procurarle un vantaggio. E’ un mondo che sta avvalendosi concretamente della predisposizione dell’agricoltura, per la flessibilità e la diversificazione delle sue attività, ad adattare i contesti di vita e di lavoro in modo tale che molte condizioni di disabilità – certamente quelle sensoriali e motorie – siano superate. E’ un mondo che sta verificando sul campo come la componente produttiva e commerciale di un’azienda agricola, considerata però senza finzioni, ma nella sua effettiva dimensione imprenditoriale, permetta più facilmente ad una persona con disturbi mentali di percepire il valore oggettivo del suo impegno lavorativo.

E’ dunque un mondo che ha intuito di essere andato oltre la soglia della “riabilitazione” e chiede alla società, alla politica e alla scienza di essere accompagnato in questa avventura straordinaria.

Questo mondo si è immediatamente posto in sintonia con il nostro.

E ciò è potuto avvenire perché nelle aree rurali, nascosti dalla cenere di una visione industrialista e produttivistica dell’agricoltura, covano valori antichi come la solidarietà, la reciprocità, il mutuo aiuto, quel capitale sociale che ha costituito in passato la forza di tante persone per uscire da una realtà di sfruttamento e vincere la sfida della modernità.

Da sempre le campagne, coi suoi tempi meno ritmati, gli spazi più dilatati e il contatto diretto con la natura e con gli animali, hanno favorito il reintegro di persone svantaggiate.

Hanno espresso un elevato livello di responsabilità sociale, prima ancora che questo concetto diventasse appannaggio del settore industriale e di quello dei servizi. Tale responsabilità sociale era certificata dalle comunità stesse, anche attraverso meccanismi di sanzione morale e di controllo.

Ne è riprova la presenza attiva dei disabili che vivono in campagna. Fenomeno mai quantificato finora anche perché non ha costituito, in nessun periodo storico, un problema insormontabile. Le famiglie rurali hanno continuato a farsene carico, inserendoli nei diversi ambiti lavorativi, senza mai richiedere un riconoscimento alle istituzioni.

Ebbene, tra questi due mondi, è stato facile intendersi.

Abbiamo immediatamente convenuto che fosse un’opportunità rilevante quella di sperimentare insieme l’intreccio virtuoso che può nascere tra la dimensione competitiva di un’impresa e le relazioni interpersonali. Consideriamo, senza particolari difficoltà, la reciprocità gratuita e condivisa tra le persone come un fattore di sviluppo.

Percepiamo il capitale civile locale, che scaturisce spontaneamente e in modo copioso dalle relazioni interpersonali, come uno strumento capace di generare ricchezza.

Un patto tra agricoltura e terzo settore

Partendo da premesse etiche ed esperienze concrete di questo tipo, proponiamo un patto tra le organizzazioni agricole e il mondo dell’economia civile per realizzare una comune progettualità.

E questa collaborazione intendiamo avviarla nell’ambito del Forum per la promozione delle Fattorie Sociali in via di costituzione per iniziativa della Provincia di Roma e, in particolare, dell’Ufficio del Consigliere Delegato alle Politiche dell’Handicap, on. Tiziana Biolghini, che ringraziamo di cuore per la sua immediata ed entusiastica disponibilità.

Si tratta di ideare e realizzare con le istituzioni locali, culturali, scolastiche, sociosanitarie, assistenziali, carcerarie, ospedaliere, programmi e interventi finalizzati a promuovere l’agricoltura sociale in tutte le forme possibili: aziende agricole già esistenti che ampliano le proprie attività; cooperative sociali che, utilizzando terreni pubblici e privati, intendono espandere iniziative già operanti o dar vita a nuove esperienze.

L’obiettivo di fondo è concretizzare un nuovo welfare nei territori rurali, andando a rafforzare quelle reti di protezione sociale, le cui carenze sono la principale causa della fragilità di queste aree, soprattutto in montagna e dove lo svantaggio, la marginalità e l’isolamento sono più consistenti.

In tutti i paesi sviluppati è avviata una riflessione su come riscrivere il patto di cittadinanza che sta alla base dei diritti materiali. Il confronto è rivolto alla ricerca delle risposte più efficaci da dare alla pressante domanda di nuove tutele, di nuove opportunità e di una maggiore mobilità sociale.

Difficilmente le soluzioni saranno individuate affrontando solo i nodi teorici, senza partire dalle esperienze concrete.

L’agricoltura può offrirsi come laboratorio dove sperimentare nuove forme di welfare. Quello esistente ha un carattere riparativo degli squilibri prodotti dall’economia fordista ed è concepito esclusivamente per i contesti urbani in una logica di concentrazione dei servizi e degli interventi. Pertanto, esso si è rivelato inadatto alla realtà delle campagne, la cui peculiarità è il carattere diffuso degli insediamenti.

Si tratta allora di sperimentare un welfare che il Prof. Di Iacovo definisce rigenerativo, cioè capace di rivitalizzare l’autenticità delle risorse rurali per soddisfare i bisogni reciproci che legano città e campagne.

Le aree rurali non saranno competitive se si affidano solo alla tipicità, senza riprodurre i valori etici, culturali, umani, che la sottendono, e senza riattivare in forme moderne la peculiarità delle relazioni interpersonali.

Un’agricoltura socialmente responsabile

Si sta facendo strada l’idea che l’obiettivo delle politiche sociali non dovrebbe essere tanto quello di fornire certi beni, ma di porre le persone nella condizione di sviluppare le proprie facoltà, di espandere il menù delle opportunità a loro disposizione, di rimuovere le rendite di posizione che ostacolano la piena realizzazione dei progetti di emancipazione dei singoli.

Se questa è la finalità, uno degli obiettivi intermedi è quello di allargare la responsabilità individuale, ampliando la lista dei doveri che si accendono per chiunque usufruisca di diritti che hanno un costo per la società. Ma anche di dispiegare la responsabilità collettiva delle istituzioni, che devono saper ridistribuire in maniera equa i diritti, tenendo conto che operiamo in un contesto di scarse risorse.

Ecco allora il senso nuovo di un’agricoltura socialmente responsabile: quella che si attrezza in forme moderne, con le proprie imprese e il proprio sistema di servizi, per rispondere ai nuovi bisogni sociali della collettività sia rurale che urbana, promuovendo con altri soggetti economici e sociali azioni di sviluppo nelle campagne.

Se poi provassimo a distinguere tra le funzioni dell’impresa agricola che vanno oltre quelle produttive – quelle private, che possono essere di tipo turistico, ricreativo e commerciale; quelle pubbliche, di carattere paesaggistico e ambientale; e quelle sociali, in cui rientrerebbero quelle didattiche e di inserimento lavorativo di persone svantaggiate – potremmo convenire più agevolmente su di una comune definizione di fattoria sociale.

Essa è un’impresa economicamente e finanziariamente sostenibile, condotta in forma singola o variamente associata, che svolge l’attività produttiva agricola e zootecnica proponendo i suoi prodotti sul mercato, in modo integrato con l’offerta di servizi culturali, educativi, assistenziali, formativi e occupazionali a vantaggio di soggetti deboli (portatori di handicap, tossicodipendenti, detenuti, anziani, bambini e adolescenti) e di aree fragili (montagna e centri isolati), in collaborazione con istituzioni pubbliche e con il vasto mondo del terzo settore.

Qui la valorizzazione commerciale dei prodotti potrà avvenire sia mediante la vendita diretta in azienda, sia rifornendo i gruppi di acquisto solidale che stanno nascendo soprattutto nelle città, sia mediante l’etichettatura etica. Cruciale è il contatto diretto dei consumatori con l’azienda. In questo occorre dare spazio alla creatività delle donne, già sperimentata in altre azioni, sia di diversificazione aziendale che di consumo critico, dal momento che la presenza di imprenditrici agricole e di consumatrici è prevalente nell’ambito dell’agricoltura etica.

Qualora, invece, si dovessero utilizzare i canali distributivi, sarebbe utile realizzare un sistema di garanzia con cui si informerà l’acquirente che il prodotto marchiato rappresenta il risultato finale di un processo che ha un impatto positivo sulla società.

Le attività assistenziali della fattoria sociale si potranno estendere alla cura degli anziani che non sono più autosufficienti, prevedendo soggiorni periodici che potrebbero coincidere con le visite scolastiche, e dar luogo a forme organizzate di trasmissione delle esperienze dalle generazioni più mature ai ragazzi.

Si potranno insediare asili nido, ludoteche, centri di produzione artistica. Si sperimenterà la possibilità di ospitare persone che per la degenza post-ospedaliera, invece di occupare posti letto utilizzabili da altri pazienti in lista di attesa, potrebbero riabilitarsi, in minor tempo ed a costi più contenuti, stando in campagna.

Si potranno installare servizi internet e postali, punti vendita di libri, giornali e materiale multimediale, sportelli di enti ed associazioni, soprattutto nei piccoli centri dispersi dove queste attività non sono economicamente sostenibili se svolte in via principale.

La fattoria sociale, in sostanza, dovrà essere intesa come centro di servizi sociali, ma anche di aggregazione delle aree rurali, dove la comunità si potrà ritrovare, con le persone che vi operano, nelle più svariate iniziative, da quelle culturali a quelle ricreative e turistiche.

E’ per questo motivo che nell’agricoltura la responsabilità sociale d’impresa non è un nobile orpello etico di un’attività che invece avrebbe nella realizzazione di valore economico la sua ragion d’essere.

Ma anche solo per rimanere sul piano economico, la responsabilità sociale in agricoltura è un investimento dal quale aspettarsi ritorni non solo per l’impresa agricola ma anche per tutta la società, verso la quale i suoi obiettivi sono finalizzati.

In sostanza, investire in responsabilità sociale per un’azienda agricola significa non solo produrre consenso e reputazione, ma “beni pubblici”: più qualità, più tutela ambientale e paesaggistica, più utilizzo virtuoso ed efficiente delle risorse energetiche, più relazioni improntate al mutuo aiuto, più sviluppo che tenga conto dello spirito civico. E ciò giustifica e pretende la piena considerazione dell’agricoltura nelle politiche economiche e sociali ad ogni livello di governo, dal Municipio all’Unione europea.

Le opportunità della nuova Politica agricola comune

La nuova Pac, che si è appena avviata dal primo gennaio, va proprio nella direzione di allargare le opportunità alle imprese agricole che si muovono in una logica di responsabilità sociale. Ci sono più risorse per lo sviluppo rurale. Le aziende agricole sono considerate non solo per la funzione di assicurare beni, ma anche per quella di fornire servizi. Sono stati potenziati gli interventi per la qualità. Rafforzate le misure ambientali. Si è introdotto il sostegno dei partenariati locali.

E’ un salto di qualità che vorremmo gestire dando voce ai volenterosi e poco ascolto ai pigri.

Esiste, infatti, in tutta l’Europa un’area più o meno estesa di aziende agricole, condotte soprattutto da imprenditrici e da giovani, che già si muove in un’ottica di responsabilità sociale. Sono consapevoli di possedere conoscenze e professionalità che li obbligano – un po’ come avveniva una volta con le rendite fondiarie – a metterle parzialmente a disposizione della società, in una visione che non disconosce, ma esalta ed amplia la funzione primaria dell’impresa agricola di creare ricchezza.

Questa è l’agricoltura destinata a crescere nel prossimo futuro, se gli agricoltori europei saranno capaci di cogliere le opportunità che derivano da una più dilatata e diversificata domanda sociale.

Infatti, nei Paesi sviluppati, la dimensione esclusivamente produttivistica del settore primario ha esaurito la sua funzione e la sua ragion d’essere.

E le attese della società si sono spostate sulla sua dimensione territoriale, cioè sulla capacità dell’agricoltura di essere lievito di uno sviluppo integrato delle aree rurali, la cui competitività dipende sempre più dalla produzione diretta di ricchezza sociale e dall’attivazione di nuove forme di dialogo con le città.

Nel nuovo contesto, le dimensioni ridotte delle imprese, il peso significativo assunto dalle imprese al femminile, la loro prevalenza nelle attività di diversificazione aziendale, la diffusione del part-time e la sovrapposizione di attività non più strettamente agricole ma legate ad una più vasta economia rurale, che caratterizzano una parte rilevante delle campagne italiane, finalmente non sono più considerate anomalie negative, fattori di debolezza e di arretratezza, come una visione industrialista dell’agricoltura ha preteso in passato.

Ma diventano opportunità e punti di forza da giocare in una riorganizzazione moderna delle campagne, basata sulle economie di scopo, la valorizzazione del capitale umano e sociale, l’armonizzazione di risorse come il tempo e lo spazio, la sussidiarietà orizzontale e la responsabilità sociale d’impresa.

Da questo punto di vista, alcuni dati del Censimento agricolo del 2000, riferiti alla Provincia di Roma, sono particolarmente significativi. Su circa 60 mila aziende agricole, quelle con meno di un ettaro sono 34 mila (il 57 per cento del totale). Quelle condotte da donne sono il 32 per cento. Quelle che hanno aderito al regime biologico sono soltanto 242, ma su una superficie di 21.700 ettari, la più ampia tra le Province del Lazio, in virtù di una dimensione media aziendale di oltre 50 ettari. Le aziende insediate su proprietà pubbliche sono soltanto 155, ma rappresentano il 25 per cento della superficie agricola utilizzabile. Si tratta di 72.500 ettari, il 60 per cento dei quali appartiene ai Comuni.

Un altro dato di un certo rilievo è quello relativo alle abitazioni rurali. Su un totale di circa 23 mila abitazioni presenti nelle aziende agricole della Provincia, il 23 per cento non sono occupate. E le imprese che praticano l’agriturismo sono poco più di un centinaio.

Da questi pochi numeri si comprendono le enormi potenzialità che l’agricoltura etica ha nel nostro territorio.

Il contributo della nuova ruralità per le funzioni strategiche di Roma e del Lazio

Il piano di sviluppo rurale della Regione Lazio è ancora impostato secondo logiche tradizionali e non ha colto le nuove opportunità di intervento, che consentirebbero di rafforzare il capitale sociale delle aree rurali. E dunque non è in grado in alcun modo di contribuire al superamento della crisi profonda, che ha investito l’agricoltura regionale, e che si è manifestata con un calo di competitività e una caduta degli occupati e dei redditi.

La nostra Regione, inoltre, è l’unica in Italia ad aver perduto i fondi della prima annualità del Leader Plus per ingiustificabili ritardi nella partenza del programma. E non ha ancora attivato l’Asse II del piano di sviluppo regionale relativo alla “cooperazione transnazionale e interterritoriale”, col rischio concreto che si possano perdere altri fondi comunitari.

Il Consiglio Regionale che sarà eletto il 3 e 4 aprile dovrà, pertanto, far compiere un salto di qualità a queste politiche. E ciò avverrà se lo sviluppo rurale sarà inteso come capacità delle campagne di rispondere ai più complessi bisogni della popolazione, sia quella presente in una metropoli come Roma, sia quella delle altre aree della Regione.

Inteso correttamente così, lo sviluppo rurale può contribuire alla realizzazione delle funzioni strategiche che la Capitale, la Provincia di Roma e le Regione Lazio sono chiamate a svolgere nello scenario globale.

Spesso diciamo che vogliamo diventare cerniera tra il nord e il sud del mondo. Per evitare che questa affermazione resti solo uno slogan, dovremmo essere in grado di sperimentare nuove modalità di sviluppo rurale, coinvolgendo forze produttive, risorse sociali e culturali, mondo della scienza e della ricerca, ed avviare processi di cooperazione allo sviluppo, agendo su aree di comune interesse.

Una di queste aree di reciproca convenienza è indubbiamente l’agricoltura, che ha un peso rilevante nei paesi del sud del mondo. E sbaglieremmo proprio noi che abbiamo già sperimentato percorsi di modernizzazione fortemente squilibrati a non ricercare insieme strade diverse, come appunto quella di una crescita fondata sulla valorizzazione del capitale sociale e civile del mondo rurale. Nel contempo, anche noi siamo interessati ad un nuovo sviluppo rurale, che rimetta al centro le risorse umane, culturali e ambientali dei diversi territori.

Le nostre proposte

Passando ora alle proposte concrete che intendiamo avanzare, riteniamo innanzitutto che l’agricoltura sociale debba trovare la giusta collocazione nel Piano regionale di sviluppo rurale da armonizzare con il Piano dei servizi socio-sanitari. Si tratta di inserire apposite misure di intervento, tra quelle destinate alla “diversificazione delle aziende” ed alla “formazione”, a sostegno delle attività svolte dalle fattorie sociali, oltre a quanto già previsto per l’ippoterapia.

Per quanto riguarda la misura relativa ai “servizi essenziali alla popolazione e all’economia rurale”, andrebbero contemplati anche quelli rivolti alle persone svantaggiate mediante l’utilizzo delle risorse agricole.

A proposito degli aiuti agli investimenti alle aziende, andrebbe inserita una priorità, a parità di punteggio, a favore delle imprese che svolgono funzioni sociali, attuando così il principio delle pari opportunità.

Alcune di queste misure potrebbero essere attuate utilizzando forme di collaborazione tra amministrazioni pubbliche e aziende agricole. Con le recenti normative in materia fiscale sono, infatti, a pieno regime le novità dei decreti attuativi della “legge di orientamento”, che considerano agricola per connessione la fornitura di beni o servizi mediante l’utilizzazione prevalente di attrezzature o risorse dell’azienda. Le strutture pubbliche potranno finalmente stabilire convenzioni e contratti con le imprese agricole anche per erogare servizi alle persone e alle famiglie.

Ma c’è anche un’ulteriore novità che dovremmo saper cogliere. Il Decreto Legislativo 99/2004 ha previsto la possibilità per una società di persone, di capitali o cooperativa, che abbia al suo interno la presenza di almeno un imprenditore agricolo professionale, di godere di tutti i benefici previsti per questa figura.

Si tratta di un’opportunità dagli innumerevoli sviluppi: cooperative sociali che potrebbero assumere la nuova configurazione agricola aprendosi agli agricoltori; operatori sociali e imprenditori agricoli che potrebbero dar vita a società agricole; giovani e anziani, operanti in aziende agricole distinte, che potrebbero unirsi in una forma societaria per realizzare quelle attività che l’imprenditore anziano ha meno propensione a svolgere; comuni ed altri enti locali che potrebbero apportare terreni di proprietà pubblica in fattorie sociali, entrando direttamente nella compagine societaria e garantendo in questo modo le finalità dell’impresa a cui si dà vita; fattorie sociali che potrebbero mettersi in società con gestori di punti vendita o ristoro nei centri urbani o in una città come Roma, che attrae migliaia di turisti ogni giorno, e ricercare insieme le forme per valorizzare in modo adeguato i propri prodotti.

Ecco un modo concreto per integrare territori diversi, vincere distanze fisiche e culturali che ancora appaiono insuperabili, trovare nuove occasioni per l’accesso al capitale fondiario.

Ecco come favorire la collaborazione tra giovani che partono da una condizione di svantaggio e anziani a cui si apre la prospettiva di continuare a valorizzare non solo i terreni che possiedono, ma anche il proprio “saper fare”, come hanno proposto congiuntamente la nostra Associazione dei giovani (AGIA) e la nostra Associazione dei pensionati (ANP).

L’utilizzo produttivo dei terreni pubblici nell’ambito di programmi di sviluppo locale potrà trovare in tal modo nuove possibilità di realizzazione. A questo proposito sollecitiamo la Regione Lazio ad effettuare celermente il passaggio al Comune di Roma delle aziende di Castel di Guido e della Tenuta del Cavaliere, che appartenevano al Pio Istituto di Santo Spirito, e consentire una progettualità condivisa tra i diversi livelli istituzionali e le forze sociali.

Anche sul piano nazionale sono necessari interventi mirati. Strumenti come “Sviluppo Italia”, normative come quelle previste per l’imprenditoria giovanile e quella femminile e misure come il credito d’imposta andrebbero orientati a favorire nuove forme societarie e progetti che sappiano coniugare crescita ed equità nei processi di sviluppo rurale.

La Rete nazionale dei Programmi Leader, curata dall’INEA, potrebbe assumersi l’onere di monitorare l’espansione dell’agricoltura etica e di metterne a fuoco i problemi che si incontrano.

Un’attenzione particolare andrebbe rivolta alle normative che si stanno definendo in Parlamento sulla Pet Therapy, che costituisce una forma di aiuto alle persone, con disturbi fisici o che vivono nel disagio psichico, per mezzo di animali di compagnia.

I testi legislativi che circolano non considerano affatto la Pet Therapy come un’ulteriore attività che le fattorie sociali potrebbero sviluppare. Eppure, le aie sono da sempre luoghi di reciproche effusioni tra agricoltori e animali da cortile. Ed oggi che la società urbanizzata si sta liberando da paure ancestrali e pregiudizi negativi verso gli animali e riconosce a questi addirittura un vero e proprio carisma taumaturgico, le fattorie sociali potrebbero offrire ospitalità a chi desidera giovarsi di queste forme terapeutiche e riabilitative.

Anche gli enti locali sono chiamati ad uno sforzo straordinario per concretizzare queste nuove politiche.

Una via da perseguire è quella di garantire un mercato protetto ai prodotti provenienti dalle fattorie sociali, destinandoli a mense scolastiche, case di riposo e strutture sanitarie.

Si dovrebbero, peraltro, orientare le attività promozionali a sostegno di un’etichetta etica con cui contraddistinguere i prodotti delle fattorie sociali. La grande distribuzione alimentare ha attirato da tempo l’attenzione dei consumatori con scaffali destinati ai prodotti biologici e del commercio equo e solidale, contribuendo per gran parte alla crescita dei volumi di vendita di tali prodotti. Ad essi ora si potrebbero facilmente aggiungere i prodotti delle fattorie sociali.

Le amministrazioni locali potrebbero sostenere iniziative di informazione dei consumatori sui prodotti etici. Il Comune di Roma sta realizzando la “Città dell’altra economia”, sede di uno sportello, per sviluppare iniziative di imprenditoria etica, e di un centro commerciale, per acquistare e consumare prodotti e servizi etici. Sarebbe utile un collegamento con le diverse realtà produttive della nostra Provincia.

Un’ulteriore opportunità potrà derivare dalla piattaforma biologica che dovrà nascere all’interno del Centro Agroalimentare (CAR) di Guidonia, in stretto rapporto non solo coi produttori agricoli, ma con gli operatori dell’intera filiera, dalla ristorazione collettiva alla grande distribuzione.

Enormi potenzialità nascono anche dalla speciale vocazione florovivaistica della Provincia di Roma. Si tratta di un’attività sperimentata positivamente a fini terapeutici e riabilitativi, da valorizzare nell’ambito di un circuito da organizzare tra momento produttivo, manutenzione dei giardini storici, attivazione di centri commerciali naturali e rilancio del Mercato dei fiori nella sua nuova sede.

Vi sono poi da rendere operative in questo campo le politiche per l’occupazione, che dovrebbero sostenere la formazione e l’inserimento di persone svantaggiate nelle attività aziendali in collaborazione coi centri di formazione professionale delle organizzazioni agricole, con il personale specializzato delle aziende sanitarie e dei servizi sociali degli enti locali, con gli istituti di pena, con le associazioni di volontariato e con le stesse famiglie.

In definitiva, il concetto di Provincia Capitale trova qui un’ulteriore applicazione come esigenza di sviluppare una socialità di tipo “rur-bano”, in grado di considerare la ruralità non già come vestigia da conservare ma come risorsa da riprodurre.

Ma una spinta forte dovrebbe venire dagli enti locali verso la Regione Lazio e da questa nei confronti della Commissione europea, affinché nella programmazione 2007-2013, il nuovo regolamento sullo sviluppo rurale apra in modo deciso all’agricoltura sociale.

In particolare, la Provincia di Roma potrebbe farsi carico di promuovere un’azione coordinata delle realtà territoriali non solo nazionali ma anche europee, che hanno adottato strumenti pattizi per lo sviluppo sociale delle aree rurali, per fare in modo che si conoscano e si diffondano le “pratiche migliori” che già esistono e si sensibilizzi ulteriormente la Commissione europea intorno a questi temi.

Infine, è fondamentale il ruolo della ricerca e dell’alta formazione.

Università come quelle di Viterbo e di Pisa si stanno lodevolmente cimentando sia in attività di ricerca sul binomio agricoltura – soggetti svantaggiati che nella definizione di profili professionali che integrino conoscenze agronomiche e competenze medico-sanitarie.

L’Università della Tuscia, ad esempio, come ci illustrerà tra poco il Prof. Senni, ha presentato recentemente un progetto di ricerca sugli aspetti tecnico-economici delle imprese sociali operanti nel settore agricolo all’interno della Regione Lazio. Inoltre, sta avviando il Master di primo livello in agricoltura etico-sociale, con l’intento di sviluppare una cultura interdisciplinare che leghi professionalità e competenze di tipo diverso ma utili per integrare persone svantaggiate nei percorsi lavorativi in aziende agricole.

Decisiva è l’apertura di un dialogo con il mondo delle competenze scientifiche e delle professioni nel campo medico-sanitario. Il Forum delle fattorie sociali dovrà essere lo strumento per collegare mondi che faticano a collegarsi ed a collaborare.

Non sono cose semplici da farsi, perché si tratta di promuovere meccanismi di creazione e riproduzione di valori immateriali per accrescere la ricchezza. Un percorso innovativo che può realizzarsi se si presta la dovuta attenzione ad un aspetto fondamentale: coinvolgere realmente e chiamare a contribuire, nei diversi territori intorno agli enti locali, rappresentanze estese della società, dal sistema delle imprese alle istituzioni della ricerca fino al mondo variamente articolato dell’associazionismo e del volontariato.

“Partire dal territorio” diventa dunque l’imperativo categorico per ricostituire una rappresentanza reale, fatta di progettualità concreta e di adesione alla nuova domanda sociale espressa dai cittadini.

Come Cia, faremo la nostra parte con passione e umiltà.

La foto di apertura riprende una scena del film di Edoardo Winspeare, “In grazia di Dio

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