Saperi

Alle origini del debito pubblico

Lo Stato ha tre modi per sopperire alle sue spese: tassare i cittadini, svilire la moneta, ricorrere al credito. Una argomentata analisi storica per cercare di capire un meccanismo non a tutti ancora del tutto chiaro, a partire da chi ci governa

Alfonso Pascale

Alle origini del debito pubblico

L’antichità classica non conobbe il debito pubblico. Il debito pubblico fu un’invenzione dei Comuni medievali italiani. Lo storico Carlo M. Cipolla considera come primo esempio di debito pubblico un prestito forzoso imposto nel 1167 dalla Repubblica di Venezia ai suoi cittadini abbienti. Venezia, Genova e Firenze furono i centri che più precocemente svilupparono e affinarono le tecniche del debito pubblico. A Genova nel 1274 si decretò il consolidamento del debito pubblico che aveva raggiunto la somma di 305 mila lire genovesi del tempo. Sempre a Genova nel 1407 quando il debito pubblico che aveva raggiunto la somma di circa 3 milioni di lire genovesi i creditori dello Stato si consorziarono in un ente chiamato Casa di San Giorgio che divenne praticamente il padrone dello Stato.

A Firenze nel 1303 il debito pubblico ammontava a circa 50 mila fiorini d’oro: una cifra ragionevole. Ma a partire da quella data il Comune di Firenze si trovò impelagato in una serie di conflitti proprio nel momento in cui per l’introduzione dell’artiglieria e la sostituzione delle milizie civiche con le bande mercenarie le guerre si facevano tremendamente costose.

Lo Stato ha tre modi per sopperire alle sue spese: tassare i cittadini, svilire la moneta, ricorrere al credito. Firenze rispettò gelosamente l’integrità della sua moneta, andò cauta nell’imporre tasse e pertanto ricorse abbondantemente al credito. Il credito pubblico fiorentino che era come s’è detto di circa 50 mila fiorini d’oro nel 1303 passò a circa 600 mila fiorini nel 1343, a circa un milione cinquecentomila fiorini nel 1364, a circa 3 milioni di fiorini nel 1400. Il crescente bisogno di denaro da parte dello Stato spingeva al rialzo il tasso d’interesse.

D’altra parte vigeva in Firenze una disposizione emanata nel 1345 che fissava nel 5 per cento il tasso di interesse massimo da corrispondere ai creditori dello Stato. Per aggirare la difficoltà si arrivò nel 1358 ad autorizzare l’iscrizione dei prestiti sottoscritti per somme triple di quelle effettivamente versate. In altre parole se Tizio versava come prestito al Comune la somma di cento fiorini, sul gran libro del debito pubblico veniva indicato come creditore di trecento fiorini. Al tasso del 5 per cento Tizio veniva in effetti a percepire il 15 per cento (5 per cento per 3) sulla somma effettivamente versata (100 fiorini) ed inoltre faceva un eccezionale guadagno speculativo in conto capitale.

Non stupisce quindi apprendere dalla “Cronica” di Matteo Villani che in quel periodo molti uomini d’affari fiorentini cessarono di investire i loro capitali nella mercatura indirizzandoli invece sul debito pubblico. I privati con disponibilità liquide arricchivano mentre lo Stato si impoveriva.

Ma i dubbi avanzati sulla possibilità di redimere il debito e la determinazione di un tasso di interesse artificiosamente molto basso fecero però crollare il corso dei titoli da poco resi negoziabili. L’effetto fu quello di un crollo in borsa ai nostri giorni. Ne soffrirono un po’ tutti i gruppi sociali perché alle “prestanze” al Comune, volenti o nolenti, avevano concorso un po’ tutti, abbienti e meno abbienti. Ma soprattuto ne dovettero essere colpite le grandi famiglie dell’oligarchia finanziaria fiorentina, titolari delle grosse compagnie mercantil-bancarie. Tutto il Gotha della finanza fiorentina finì davanti ai giudici fallimentari. Fallirono gli Acciaiuoli, i Bonaccorsi, i Cocchi, gli Antellesi, i Corsini, i da Uzzano, i Perendoli. Il crollo delle banche travolse tutti coloro che vi tenevano depositi e che nei migliori dei casi riebbero soltanto la metà o un terzo o addirittura un quinto dei loro depositi. Una massa di ricchezza andò così distrutta. Una volta scoppiata la crisi si mise in moto un perverso meccanismo di moltiplicatore alla rovescia per cui la crisi alimentò se stessa e si estese a macchia d’olio.

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