Saperi

Angelo Compagnoni, un maestro

Una figura centrale per l'agricoltura. Con la sua personalità, faceva emergere sempre gli aspetti umani delle vicende. E riportava, in modo simpatico, anche il linguaggio colorito che i contadini usavano per dare il senso preciso alle azioni compiute. Una testimonianza nel centenario della nascita del dirigente della Confcoltivatori

Alfonso Pascale

Angelo Compagnoni, un maestro

Cento anni fa nasceva Angelo Compagnoni. Ho lavorato con lui nella Confcoltivatori nazionale, dal 1984 al 1989. Lui era presidente del patronato INAC ed io, invece, dirigevo l’Associazione nazionale coltivatori a contratto agrario.

Due anni prima era stata approvata la riforma dei contratti agrari (legge 203 del 1982). Tardivo esito di lotte pluridecennali che avevano avuto protagonisti mezzadri e coloni e che vedevano finalmente riconosciuto un obiettivo storico del movimento contadino: la trasformazione dei contratti associativi in affitto. Ma quella legge, pretendendo l’affermazione di un principio giusto, conteneva alcune rigidità e oltrepassava il limite della reciproca convenienza. E così finì per intimorire i proprietari e bloccare la stipula di nuovi contratti. Soprattutto favorì l’espandersi a dismisura del contenzioso giudiziario tra concedenti e mezzadri. Un conflitto sociale diffuso che si poté estinguere solo con una paziente e capillare iniziativa sindacale, incoraggiando la stipula di accordi tra le parti.

Angelo era dotato di una ricca umanità e di una sensibilità profonda e m’incitava, come può fare un maestro, a proseguire nella ricerca di una mediazione sindacale ed evitare ogni irrigidimento. Egli era stato dapprima dirigente della Federterra e poi dell’Alleanza dei contadini, parlamentare per quattro legislature, aveva promosso la legge 607 del 1966 in materia di enfiteusi e prestazioni fondiarie perpetue. Tale provvedimento faceva seguito alla legge 327 del 1963, nota anch’essa come “legge Compagnoni”.

Con queste due leggi si stabilivano la perpetuità dei rapporti agrari e la riscattabilità della proprietà della terra condotta coi contratti miglioratari.

Con la prima legge, migliaia di contadini delle province laziali avevano richiesto il riscatto, ma la reazione dei concedenti aveva acceso un vasto contenzioso che la legge del 1966 servì ad eliminare. E così le nuove disposizioni, più favorevoli ai coltivatori, relative alla misura e all’affrancazione dei canoni enfiteutici, furono riferite tanto ai rapporti di miglioria laziali e a quelli analoghi di altre regioni, quanto ai contratti atipici con prevalente carattere enfiteutico. Più tardi, con la legge 1138 del 1970, esse furono estese pure ai contratti di colonia e di affitto con clausola migliorataria, nei quali il colono, l’affittuario, il concessionario avessero eseguito opere di trasformazione fondiaria e agraria di carattere sostanziale e permanente di qualunque tipo.

Nel raccontare quella vicenda, Angelo sottolineava sempre due aspetti.

Il primo riguardava la strategia di quella battaglia contadina: partendo dall’azione per esigere il rispetto delle nuove norme e per fronteggiare le interpretazioni restrittive o le resistenze alla loro applicazione, l’iniziativa sindacale mirava ad estendere i nuovi principi normativi a tutto il sistema dei contratti miglioratari meridionali. Dunque, una visione mai localistica ma nazionale poiché questo tipo di rapporti agrari era presente in diverse regioni del Paese.

L’altro aspetto era riferito all’impegno dell’Alleanza dei contadini nel tenere aperta la porta della trattativa sindacale con la controparte, ogniqualvolta se ne ravvisasse la possibilità. Per questo egli elencava puntigliosamente i numerosi convegni promossi per concordare con le altre organizzazioni dei coloni le modalità da seguire al fine di aprire il dialogo con la Confagricoltura. E così imparai una regola fondamentale nella contrattazione agraria: la litigiosità fine a sé stessa è sempre dannosa per il contraente più debole, mentre le transazioni e le soluzioni di compromesso permettono di conseguire risultati vantaggiosi per entrambi.

Era piacevole ascoltare i ricordi di Angelo perché faceva emergere sempre gli aspetti umani delle vicende. E riportava, in modo simpatico, anche il linguaggio colorito che i contadini usavano per dare il senso preciso alle azioni compiute.

Una volta, mi raccontò che un colono di Veroli, per rievocare il clima particolare delle lotte combattute contro i monaci cistercensi di Casamari – concedenti di circa 700 ettari a colonìa migliorataria -, aveva affermato in un’assemblea: “Se il bue conoscesse la forza che ha la frogetta, dall’uomo non se la farebbe mettere. Noi coloni non siamo come il bue: conosciamo la nostra forza e sappiamo che piegheremo la resistenza dei padroni”.

La “frogetta” è una specie di pinza ad anello applicata alle narici dei bovini per trattenerli o guidarli. E l’aneddoto era rimasto memorabile perché l’espressione utilizzata dal colono esprimeva, con uno spiccato senso ironico, la valenza anche epica di quelle battaglie.

Come diversi dirigenti politici e sindacali della sua generazione, Compagnoni coltivò l’amore per la storia dei movimenti contadini. Si era formato nella scuola di partito e aveva allargato la sua cultura anche in campo letterario e storico.

Nel 1975 aveva concluso egregiamente il convegno “Il movimento contadino nella storia del Lazio. 1945-1975”, che si era svolto a Roma per iniziativa dell’Alleanza dei contadini del Lazio, nel quadro delle celebrazioni del ventesimo anniversario della fondazione.

Dirigeva l’organizzazione regionale Agostino Bagnato, futuro assessore regionale all’Agricoltura. E ambedue vollero che gli atti fossero pubblicati in un volume curato da due storici accademici, Silvana Casmirri e Antonio Parisella, allora giovani assistenti di Storia Contemporanea nell’Università “La Sapienza” di Roma.

Nel 1982 aveva pubblicato Diventare un uomo, una storia di vita che rivelò il suo talento letterario e servì a noi giovani per comprendere il particolare itinerario interiore di quei contadini che, nel fuoco delle lotte per la terra, si erano fatti dirigenti politici e sindacali. Si trattava, infatti, della costruzione della propria coscienza personale, del farsi uomo in una società democratica. Una coscienza che si alimentava inizialmente della volontà di sapere e capire. Una coscienza che progressivamente selezionava un proprio sistema di valori fondato sull’idea che l’identità dovesse riconoscersi nell’alterità e che l’individuo fosse attraversato dalla voce dell’altro.

Il termine “persona” deriva da “per-sonare”, che significa “suonare attraverso”. E, infatti, la coscienza di quei singoli contadini si faceva parola ed entrava in relazione con altre coscienze che si forgiavano allo stesso modo. E così tante coscienze individuali davano vita a coscienze collettive che producevano organizzazione, lotta, azione politica e sindacale, cambiamento e innovazione sociale.

Per questo pensai ad Angelo come relatore quando nel 1985 organizzammo a Tricarico, in Basilicata, il convegno nazionale sulla Riforma Agraria. Qualche anno prima era stata pubblicata la ricerca dell’Insor La riforma fondiaria: trent’anni dopo; nel 1983 l’Istituto Alcide Cervi aveva organizzato un convegno a Foggia sul pensiero e l’opera di Ruggero Grieco con Gerardo Chiaromonte e Francesco De Martino, ma senza il presidente della Confcoltivatori, Giuseppe Avolio. Era il periodo in cui comunisti e socialisti stavano ai ferri corti ed entrambi i partiti mostravano disinteresse verso la nostra organizzazione: basta leggere la lettera che il socialista Avolio aveva inviato il 14 febbraio 1984 al suo caro amico Chiaromonte, capogruppo dei senatori comunisti, sulla commemorazione di Grieco, per rendersene conto. Anche il nostro convegno a Tricarico risentì di quel clima: nessun comunista della giunta nazionale venne.

Chiaromonte si era impegnato a partecipare alla tavola rotonda con Avolio, Galasso e Zurlo. Ma alla fine dette forfait e si fece sostituire da Pietro Valenza. Per non esasperare gli animi, rinunciai a svolgere la relazione introduttiva e chiesi ad Angelo – la cui autorevolezza era indiscutibile – di introdurre lui i lavori. Volevamo fare un bilancio serio della riforma agraria, uscendo dalle letture ideologiche, apologetiche, da una parte, o denigratorie, dall’altra. E Compagnoni affrontò il tema con generosità, equilibrio e sensibilità politica, dando un contributo da tutti apprezzato.

Tredici anni fa, mi ritrovai con Angelo, Arcangelo Lobianco e Giglia Tedesco a presentare, nella Casa della Memoria e della Storia di Roma l’opera in due volumi Democrazia e contadini in Italia nel XX secolo. Il ruolo dei contadini nella formazione dell’Italia contemporanea, a cura di Attilio Esposto. In essa è compreso anche il saggio di Compagnoni “Il riscatto della colonia migliorataria”.

Nonostante la salute malferma, partecipò pure Attilio all’iniziativa. Fu un incontro piacevole in cui facemmo un bilancio storico dell’impegno della sinistra nelle campagne italiane. E ricordammo altri contadini e braccianti, come Angelo, divenuti dirigenti politici e sindacali fino all’elezione in Parlamento: Leda Colombini, Michele Mancino, Silvio Antonini. Un’esperienza che si era già verificata con Giuseppe Di Vittorio prima del fascismo.

Nei loro itinerari riaffiorava la vocazione pedagogica che i grandi partiti di massa seppero esercitare nei confronti della base contadina e operaia, consentendo a donne e uomini in fondo alla scala sociale di farsi classe dirigente e illuminare la strada alla generazione successiva.

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