Atélier d’industria agricola
Lo sviluppo agricolo – secondo il compianto sociologo Achille Ardigò – non è un aspetto residuale del mero espandersi della città e della fabbrica. Se avessimo accolto il suo pensiero in passato, il boom economico e la modernizzazione dell’Italia sarebbero potuti avvenire in modo più equilibrato, senza i danni sociali e ambientali che si sono invece verificati

In questi giorni ho riletto alcuni scritti di Achille Ardigò, scomparso nel 2008. Egli è stato uno dei pochi sociologi che hanno studiato a fondo le trasformazioni della società italiana avvenute tra gli anni Cinquanta e Sessanta del secolo scorso. Particolare attenzione egli ha posto nei suoi studi alla difficile e sofferta transizione della cultura rurale nella modernità, largamente egemonizzata sia dalla cultura urbana che industriale.
Era nato in Friuli nel 1921 ma si era trasferito giovanissimo a Bologna dove aveva militato nel movimento dei cattolici democratici, partecipando attivamente alla Resistenza e collaborando a Cronache sociali, la rivista fondata da Giuseppe Dossetti.
Nei primi anni Sessanta venne attratto dallo spirito innovatore del Concilio Vaticano II che seguì da vicino assistendo, con Dossetti e Alberigo, il cardinal Lercaro nei lavori conciliari.
Alla metà degli anni Sessanta, fu tra i fondatori della Facoltà di scienze politiche dell’Università di Bologna (con Alberigo, Andreatta, Freddi e Matteucci), della quale fu preside tra il 1970 e il 1972. Presso la stessa Facoltà fu professore ordinario di sociologia. Tra il 1983 e il 1985 è stato presidente dell’Associazione italiana di sociologia.
Lo studioso scrisse alcuni saggi importanti come Intellettuali e contadini del Sud (1954), Meridione e Ricerca Sociale (1961), Fattori culturali e mobilità sociale nella formazione spontanea della proprietà contadina (1961), Innovazione e Comunità (1964), Emancipazione femminile e urbanesimo (1964).
Nel 1965 Ardigò contribuì con il saggio Gli aspetti sociali e culturali del mondo contadino al volume La trasformazione del mondo contadino a cura di Daniele Prinzi e Francesco Schino. Un’iniziativa editoriale della Collana del Veltro, promossa dalla Società Dante Alighieri, a cui parteciparono Bandini, Leone, Galizzi, Dell’Angelo, Ferro, Panattoni e Ciarrocca.
Ho trovato questa pubblicazione fuori catalogo in una libreria di Torpignattara, il quartiere di Roma dove abito. Un testo eccezionale, a carattere interdisciplinare, in cui si affronta il tema dal punto di vista economico, sociologico, agronomico e delle politiche pubbliche, non solo agricole, ma anche educative, sociali e culturali, in una dimensione nazionale, europea e mondiale.
Il saggio di Ardigò coglie l’essenza dell’atteggiamento prevalente della cultura italiana nei confronti del mondo contadino, la cui scomparsa, come forza sociale portatrice di una cultura non riducibile alla cultura urbana e industriale, viene percepita come un processo necessario e ineludibile della modernizzazione, senza alcuna possibilità di mediazione e adattamento. La stessa modernizzazione dell’agricoltura, laddove viene colta e considerata come elemento capace di contribuire allo sviluppo del Paese, deve necessariamente abbandonare – secondo l’opinione dominante – ogni rapporto con la tradizione e, soprattutto, con il bagaglio di valori comunitari e relazionali di cui la cultura contadina è portatrice.
In questo scritto, il sociologo afferma con coraggio e determinazione: “Noi non ci sentiamo di condividere tale prevalente ideologia”.
E continua: “Anche se in certe aree più economicamente avanzate si interromperà in sostanza la continuità degli insediamenti e delle tradizioni contadine, una ripresa agricola anche modernissima non potrà non comportare il confronto e il condizionamento di operatori agricoli con la natura vivente, entro ambienti non mai pienamente riducibili a condizionamenti artificiali”.
Anzi, per Ardigò, l’incontro fecondo tra la cultura urbana e industriale con quella rurale e, soprattutto, l’integrazione tra la conoscenza scientifica e tecnologica coi saperi esperienziali dovrebbero avvenire in forme innovative da progettare e realizzare collegandosi idealmente ad analoghe transizioni già avvenute nella storia. “Potranno essere – egli scrive – nuovi gruppi intellettuali a riaprire il rapporto tra la cultura e la natura vivente e nutrice, a ripetere – in ben mutati contesti storici e tecnologici – le imprese dei bonificatori benedettini e dei fondatori di Kibbutz”.
E precisa: “Sia attraverso la continuità delle moderne aziende familiari, sia attraverso atélier d’industria agricola, la peculiarità del rapporto dell’uomo con la natura feconda di messi e di armenti non potrà in agricoltura essere annullata”.
Nell’analisi dello studioso, non c’è la benché minima traccia di un qualche atteggiamento nostalgico o desiderio di tornare al passato, ma la consapevolezza che ogni progresso, ogni scossone in avanti debba accompagnarsi con un riassestamento, un riequilibrio da gestire con responsabilità e giudizio. Una consapevolezza che si esprime senza mezzi termini con queste parole: “Dalla stessa crescente e senza apparente rimedio, congestione dei centri urbani; dalla crescente disfunzionalità delle megalopoli, dal senso di oppressione e dal disagio delle famiglie urbane, emerge il bisogno dei cittadini di un migliore rapporto con la campagna, con ambienti e valori che sono ad un tempo vilipesi ed esaltati. In sintesi, lo stesso sviluppo urbano-industriale è, in ogni direzione, squilibrato ed equivoco se non si accompagna ad uno sviluppo rurale e agricolo che ha aspetti ed esigenze peculiari e che non si svolge come categoria residuale del mero espandersi della città e della fabbrica”.
A leggere queste pagine si resta sconvolti e amareggiati perchè, in modo inequivocabile, esse provano che il boom economico e la modernizzazione del nostro paese sarebbero potuti avvenire in modo più equilibrato, senza i danni sociali e ambientali che invece si sono verificati.
Sociologi come Ardigò, Ferrarotti, Barberis, Ceriani Sebregondi, Marselli; educatori come don Milani, Dolci, Angela Zucconi; economisti come Rossi-Doria, Medici, Orlando, Barbero avevano intuito per tempo che il cambiamento andava accompagnato con un’opera coraggiosa e di lunga lena volta a curare il capitale sociale, a creare individui e varietà, a ravvisare problemi e a trovare a ciascuno la sua diversa soluzione, a unire le persone ma lasciandole anche vivere ciascuna a suo modo. Essi erano convinti che solo l’intelligenza, la cultura, la libertà, la critica, oltre alla fraternità e al rispetto del legame civile, avrebbero potuto garantire uno sviluppo davvero umano.
Ma questi grandi animatori sociali e culturali vennero tacciati come reazionari, derisi e privati di ogni sostegno e prevalse l’idea di uno sviluppo economico inteso come distruzione cieca, quasi euforica, di tutti i valori del passato.
La foto di apertura è tratta dall’archivio storico del quotidiano L’Unità
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