Saperi

Breve interludio

Narrazioni. Quel letto era per Lisetta una zattera. Un matrimoniale fuori da ogni standard. Il suo dito percorreva – come in un gioco ossessivo – quei rombi, quei quadrati, quei puntolini di tessuto operato. Le sembrava di vivere in un altro mondo, un mondo fuori dal tempo e dallo spazio, immobile, al di fuori della storia e di tutti quegli accidenti per i quali si affannano gli esseri umani

Mariapia Frigerio

Breve interludio

«Dio mio, già le undici. E lui continua a dormire». Lisetta si alzò dalla scrivania e, muovendosi nel suo abito leggero, andò verso la camera.
Sbirciò dalla porta socchiusa. Lo vide – come si era immaginata – ancora nel sonno. Era lì, steso sul letto matrimoniale, tra lenzuola di lino immacolate, nella grande stanza dalle pareti bianche. Dalle ampie finestre, tenui folate di vento tiepido facevano ondeggiare le tende di lino sottile.
Entrò furtiva e gli si sedette accanto. Gli sfiorò il volto. Poi, più decisa, gli carezzò la barba bianca: «Achab, lo sai che ore sono?».
Lui ebbe un piccolo sussulto. Poi la guardò con affetto: «Oh, Lisetta!» le disse in un sospiro.
Aveva un’espressione serena. Rara per lui.
«Lo sai che sono le undici? Che hai dormito fino alle undici?».
«Ho dormito tanto…».
«E magari hai sognato…».
Non era un uomo da sogni e Lisetta, che lo sapeva bene, si chiese il perché di quella sua sciocca domanda.
«Sì, ho fatto un sogno…».
«Tu un sogno? E cosa hai sognato?».
L’uomo cercò a fatica le parole, finché riuscì a dire: «Ero in viaggio…».
«In viaggio? E con chi?». La giovane donna non poté trattenersi dal ridere sapendo quanto lui odiasse i viaggi e si ritenesse un sedentario. Il “sedentario per eccellenza” – come lui stesso amava definirsi – da quando era in pensione.
«In viaggio con amici…».
Lisetta sapeva pure che non aveva amici. Tuttavia continuò: «Dove?».
«Non so… ero su una barca… su un veliero».
L’idea del vecchio Achab su un veliero – chissà perché – la commosse. Allora, con slancio improvviso, lo abbracciò e, stringendolo forte, gli bisbigliò all’orecchio: «O Captain! My Captain! rise up and hear the bells; rise up… O Capitano! Mio Capitano! alzati e ascolta le campane; alzati…».
«Sì, cara, sì».
Rimase, invece, nel letto.

Quel letto era per Lisetta una zattera. La zattera con cui naufragare felicemente in luoghi a lei ignoti. Così grande… Un matrimoniale fuori da ogni standard… Con quelle lenzuola e quelle federe rifinite con l’à jour. E il copriletto di piquet bianco! Con tutti quei motivi in rilievo…
Quando stava sul letto accanto a lui, il suo dito percorreva – come in un gioco ossessivo – quei rombi, quei quadrati, quei puntolini di tessuto operato. Morbido e fresco.
Le sembrava di vivere in un altro mondo, da quando viveva con lui. Un mondo che, finalmente, corrispondeva al suo più profondo sentire. Un mondo fuori dal tempo e dallo spazio. Un mondo immobile, al di fuori della storia e di tutti quegli accidenti per i quali si affannano gli esseri umani. Per i quali anche lei si affannava.
Poi quel candore che inondava, indistintamente, pareti, tende, lenzuola, copriletto e persino la barba dell’uomo le dava un senso di pace mai provato prima.

La casa dove aveva abitato con sua madre – prima di trasferirsi a Princeton – era, invece, quella della classica donna “liberata”. «Liberata da cosa?» si era sempre chiesta Lisetta. Dalle tradizioni, dalle convenzioni, dai padri-padroni… Sì, certo, questo era quanto lei le diceva. E, in effetti, nella loro di casa non c’era alcun senso né di tradizione né di passato. Nessuna tovaglia di fiandra su cui pranzare come da Achab… Tutto, in quella casa, era rigorosamente al presente. Tutto era etnico. Tutto ossessivamente colorato. Strisciate di gialli, aranci, rossi e bruni facevano da tende, da copriletti, da tappeti. Persino da tovaglie. Cuscini giganti avevano sostituito quelle comode poltrone che lei vedeva nelle case dei suoi amici e, ora, anche in quella di Achab.
«Quei reazionari dei tuoi amici» le diceva sempre la madre, con evidente disprezzo.
La casa di Achab… Lisetta la amava molto. Moltissimo. Come molto amava lui, il suo capitano. La casa di Achab… La sua bellezza…
Ripensò alla madre architetta. A quella madre che si era affrancata, con il suo lavoro, dal marito. Alla madre che, con tutta la sua presunta libertà, si era affrancata anche dalla bellezza…

Per lei era stato diverso. Il lavoro era stato una necessità (oltre che una passione). Non aveva nulla da rivendicare. Ugualmente si era fatta strada come docente di letterature comparate, dopo aver vinto un dottorato di ricerca a Princeton. E aveva vissuto in case occasionali, dove l’arredo non aveva nulla da dimostrare né, tantomeno, nulla da godere.
Fino a che la stessa università le aveva offerto un lavoro. E proprio per questo, dopo la proposta di Achab, aveva deciso di andare a vivere con lui. Il suo amore e la bellezza della grande casa sul mare erano quello che le ci volevano per lavorare al suo Dorothy Parker: la donna ebrea e l’antisemitismo.

Nonostante il richiamo di Lisetta, Achab rimase nel letto. Rimase sulla zattera.
A naufragare tra i suoi pensieri.
… Le donne… le donne della sua vita. Della sua lunghissima vita.
Il primo di questi fu per la moglie. La bella Cristina. Ricordò gli anni in cui avevano condiviso il grande letto. Ricordò il loro amore. Un amore coniugale. Giulio Dovichi non era un uomo che avrebbe fatto con lei cose che non erano permesse. Che non erano “contemplate” per un rispettabile ammiraglio quale era.
Poi ci fu quello per la figlia. Una momentanea smorfia di sofferenza gli contrasse il volto. Perla… Era stata Cristina a volere quel nome che lui, nella sua cultura un po’ scolastica, accostava alla Perla di Labuan. Ai libri che gli avevano fatto compagnia nella prima adolescenza. A quei viaggi immaginati sulle pagine di Salgari molto più affascinanti di quelli che lui stesso, come ammiraglio, avrebbe in seguito intrapreso.
Per Cristina la scelta di quel nome era, invece, legata a significati allegorici: la purezza e la sfericità della perla simbolo di castità e perfezione.
Perla fu, al contrario, tutt’altro che casta e perfetta. Fu – in realtà – una sofferenza per entrambi. Una perla nera… Ribelle, incontentabile, incontenibile. Raggiunta la maggiore età se n’era, infatti, andata di casa. Era andata a vivere da sola. Sì, è vero, si era pagata col suo lavoro gli studi, ma non era anche quello un disonore per un padre vecchio stampo quale l’ammiraglio Giulio Dovichi?
Poi l’espressione gli si distese nuovamente quando ripensò alle altre donne. Quelle delle relazioni extra coniugali.
Ricordò la storia con Anna Laura, la torinese. Una storia di grande passione. Bella, elegante, disinibita… la signora. Nulla di coniugale con lei. Attrazione fisica allo stato puro. Non gli era mai successo – né prima né dopo – di incontrare tanta spregiudicatezza. Ma siccome aveva ben chiaro il potere di un certo tipo di rapporto, avendo capito di poter rischiare quello che succede a molti uomini, in altre parole di poter perdere la testa, aveva interrotto, dopo sei mesi di eccitazione alle stelle, quella relazione. Non senza rimpianto. Dove avrebbe più trovato una simile disponibilità? Senza contare che Anna Laura era ricca. Pronta quindi a raggiungerlo ovunque.
Al libertinaggio con la torinese seguì la tenera storia (tenera o un po’ scipita?) con la Clelia. La Clelietta era la sarta che riparava le divise dell’equipaggio.
Una donna gradevole. L’ammiraglio le aveva da tempo messo gli occhi addosso. Poi, conscio del fascino che un uomo della sua posizione poteva suscitare in una sarta, ci aveva provato. Era stato un altro caso comune a molti uomini: l’idea di esercitare un potere su chi potere non ne ha.
Clelia – come era da aspettarsi – non si era negata. Ma la modestia della donna, unita alla mentalità arcaica del Dovichi, aveva fatto sì che la loro relazione, durata i mesi giusti per non compromettere il matrimonio di entrambi, mancasse di quel brivido di cui Anna Laura era stata grande regista.
Il rapporto extra coniugale fu, a tutti gli effetti, molto coniugale, con tutti quei veti che un uomo della classe dell’ammiraglio si imponeva perché “non contemplati”.
Ritornò col pensiero alla figlia. A Perla. Ora che la sua vita volgeva al termine l’avrebbe voluta accanto a sé. Quasi un prolungamento degli anni condivisi con la moglie. Quasi un prolungamento della moglie stessa… Ricordava la tenerezza di Cristina e il dolore provato per la sua perdita. Quanti anni prima? Quindici? Venti? La memoria non lo aiutava. Cristina: la sua bellezza, la sua cultura, la sua devozione.
Chissà, si chiedeva, in questo strano dormiveglia, dove i pensieri erravano alla rinfusa nella sua mente, se anche lei sarebbe stata disponibile – e magari anche contenta – di condividere con lui la carnalità di Anna Laura.
Si diede una risposta affermativa. Ma restava dell’idea che certe cose con una moglie non fossero “contemplate”. Del resto lui le aveva praticate solo con amori mercenari e con la torinese.
Un uomo d’altri tempi…

Invece, inaspettatamente, da poco più di un anno si era trovato in casa Lisetta. E con lei aveva dovuto nuovamente fare i conti con la carnalità. Senza tanti moralismi.
Lisetta non era mai stata sposata. Se n’era andata dall’Italia – per via del dottorato a Princeton – per poi ritornarvi per lo studio sulla Parker. Ma, nonostante il suo successo in ambito lavorativo, non aveva nulla che facesse pensare né a una donna in carriera né a un’intellettuale impegnata. E neppure alla spregiudicatezza di Anna Laura. E tuttavia i suoi quarant’anni erano stati pieni. Di incontri e di uomini. Ma dalle sue storie trapelava un non so che di pulito, una strana forma di candore. E questo incantava il vecchio Giulio.
Nelle loro cene solitarie lui le ripeteva sovente: «Ma chi è questa Dorothy Parker?».
«Tutte le sere la stessa domanda!» sbuffava scherzando Lisetta. Poi si alzava per abbracciarlo.
«Lo so, lo so di essere smemorato. Smemorato e ignorante. Anzi “scolastico” come diceva la mia povera Cristina. Sì, diceva proprio così, che avevo una cultura scolastica. E che il liceo classico non mi era servito a niente. Aveva ragione… Ma tu non ribadirlo sempre, cara».
Lisetta rideva. Allora lui cambiava argomento e le chiedeva dei suoi amori. Con domande che avrebbero imbarazzato chiunque. Ma non lei che era consapevole della forza e della bellezza della carne. Forza e bellezza che si potenziavano se c’era di mezzo anche il sentimento.
Le prime volte l’ammiraglio restava un po’ stordito da tanta franchezza. Ma il candore di quei racconti levava ogni idea di peccato ai fatti narrati. Anche a un uomo come lui.
Soprattutto quando la donna lo rassicurava: «Tutti passati, tutti finiti. Da quando sto da te, ci sei solo tu. Il mio unico amore in corso…».
«Ma sei ancora giovane. Non devi buttarti via per me…».
Anche se si augurava, in cuor suo, che quella che lui definiva con tenerezza la sua “pazzerella” (chi mai avrebbe osato, del resto, cambiare il suo nome – Giulio – in Achab? Così, per puro divertimento, per giocare – come piaceva a Lisetta – con le parole e i personaggi dei grandi romanzi) restasse sempre con lui.
Sempre… Fino a che…
Anche questo faceva parte dei suoi pensieri… di quei pensieri randagi qui, sulla zattera di questo suo inaspettato naufragio mattutino…
Lisetta… Lisetta sarebbe stata la donna ideale. La donna giusta. Forse con lei non avrebbe più pensato al “non contemplato”. Forse lei sarebbe riuscita a fargli superare i suoi rigori, i suoi spartiacque tra ciò che si può fare e ciò che, per gente del suo stampo, non è lecito. Forse l’idea di carne e di spirito indivisibili, di passione e di cuore inscindibili avrebbe posseduto anche lui. Come la cosa più naturale del mondo.
Una donna a tutto tondo, la sua Lisetta. Non moglie da amare e ammirare, non amante tutta eros sfrenato, non avventura su cui esercitare il proprio dominio maschile, non figlia pronta – per affermarsi – a rinnegare la sua femminilità.

Era passato altro tempo… Sulla zattera, in quel breve interludio, nel dormiveglia, tra pensieri diversi…
Le undici erano diventate undici e mezzo.
Se ne era accorto guardando le lancette della grande sveglia, sul ripiano di marmo del comodino. Sentì, nel corridoio, il passo allegro di Lisetta. Forse stava tornando per sollecitare la sua levata.
Allora gli tornò alla mente – a lui che si riteneva incolto – quella rima dantesca che sembrava scritta apposta per la giovane donna: Per quella via che la bellezza corre/quando a svegliare Amor va ne la mente, /passa Lisetta baldanzosamente …
«E bravo, bravo Padre Dante!» non poté fare a meno di pensare «chi se non lui avrebbe potuto, con un semplice avverbio, descrivere il passo – e in quel passo tutto lo spirito – di Lisetta?».
Ripensò a Perla. A quella che lui aveva sempre considerato una figlia degenere. Al suo desiderio di poco prima di averla con sé, ora che si sentiva così debole. Così fragile.
Poi, di colpo, non provò più né nostalgia per lei né rancore per le antiche sofferenze provocategli. Perché tutto fu sostituito in lui da un immenso senso di gratitudine. Gratitudine per quella figlia così lontana dai suoi parametri mentali. Per quella figlia che, pur facendolo soffrire con le sue scelte, gli aveva fatto un grande dono.

Un sentimento immenso di gratitudine per lei che, nonostante tutto, gli aveva dato una nipote. Quella nipote. Quella sua Lisetta che, meglio – molto meglio – di lei, ma anche di una donna eccezionale come sua moglie Cristina e di tutte le donne del suo sogno (anche questo doveva essere il verso di qualcuno, pensò Achab, ma non lo seppe ritrovare nella sua mente stanca) adesso divideva le sue ore con lui.
Per questo con un gesto lento e rapido al tempo stesso si levò a sedere sul letto.
Per non farla ulteriormente aspettare.

Lucca, 12 luglio 2012

La foto di apertura è di Mariapia Frigerio

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