Saperi

C’è tanta filosofia nel cibo

Il libro del professor Franco Riva, fresco di stampa per le edizioni Castelvecchi, offre un punto di vista inedito sul cibo. In tempi in cui ogni aspetto legato al mangiare è al centro delle attenzioni fino all’inverosimile, entra in scena una pubblicazione che scardina molti luoghi comuni

Luigi Caricato

C’è tanta filosofia nel cibo

L’ultimo libro del professor Franco Riva, docente all’Università Cattolica di Milano, lo raccomando a tutti, ma soprattutto a coloro che in questo periodo in cui i fari sono perennemente accesi su Expo, trattano e parlano a vario titolo di alimentazione. E’ una pubblicazione che richiede il massimo impegno nel leggerla. Si intitola Filosofia del cibo, ed è in libreria da gennaio per i tipi di Castelvecchi.

Riva insegna etica sociale, antropologia filosofica e filosofia del dialogo e, vista la sua formazione, non si limita ad argomentare intorno al cibo in maniera epidermica ed emotiva come spesso accade nelle tante occasioni – troppe – in cui l’attenzione al tema si concentra solo sull’aspetto puramente celebrativo ed esaltatorio degli alimenti, o, peggio, sulla mera elencazione di una lista di ingredienti e di modalità di preparazione espressione di ricettari frettolosi e nemmeno corretti, visto che non sempre trovano una esecuzione efficace.

Filosofia del cibo è un libro che, oltre a far riflettere e arricchire il lettore di nuove conoscenze, getta nel contempo il caos nelle certezze ritenute a torto patrimonio comune fino a ieri ampiamente condiviso, proprio perché pensavamo fosse costituito da elementi dati per acquisiti. Il libro di Riva, bello da leggere perché scritto molto bene, spiazza di conseguenza il lettore distratto, colui che pensa di trovarvi l’ennesimo volume in cui il cibo il cibo è percepito come gioco e puro piacere, senza implicanze inattese e impreviste. Proprio per questo lo consiglio ai tanti che a vario titolo si ergono a conoscitori di gastronomia, o trattano in scienze dell’alimentazione o agricoltura. Leggendo questa preziosa opera, che non è solo di erudizione, si scopre che la realtà non è al solito come appare.

Il libro è suddiviso in tre parti. La prima ha per titolo “Mangiare è una gran cosa” e mette in evidenziano i tanti paradossi che accompagnano il cibo, nelle tante contraddizioni, a volte anche laceranti, tra obesità e anoressia, eccesso e rifiuto. Tutto si incentra sul concetto di fame, elemento che ci apparenta, anche se non vogliamo ammetterlo, al mondo animale inchiodato com’è alle sue necessita materiali e alla necessita di soddisfare i bisogni primari per garantire la sopravvivenza. Sta qui, nell’incontro tra necessità e libertà, il nostro, non sempre chiaro, rapporto con il cibo. Interessanti al riguardo sono due celebri affermazioni di Feuerbach (L’uomo è ciò che mangia) e di Sartre (L’uomo fa l’assoluto mangiando). Gli equivoci sul cibo e sull’atto del mangiare partono tutti da queste due frasi chiave. Alla fine l’uomo deve ammettere che mangiare non è affatto – al di là dell’attore fisico in sé dell’ingurgitare – qualcosa di pacifico come si crede. Mangiare implica un atto di violenza e ingiustizia. Mangiare è l’azione più egoistica e cinica che si possa immaginare, e tale atto lo si pratica senza nemmeno esserne del tutto consapevoli. Il cibo diventa dunque (seppur piacevole e godibilissimo per chi mangia e assimila, non per chi viene mangiato e assimilato) un duro banco di prova per il nostro umanesimo.
Diventa interessante, in tal senso, la lettura che fornisce l’autore rispetto a certe abitudini mai scalfite e rispetto alle ipocrisie di chi mangia senza nemmeno la consapevolezza di ciò che tale atto implica. “Di fronte al cibo – scrive Riva – l’umanesimo è bugiardo ogni volta che in suo nome si produce tanto l’eccesso e lo spreco, quanto la mancanza e la fame. Ogni volta che la quantità distrugge la qualità. Ogni volta che la promessa di cibo chiede il sacrificio della libertà e della responsabilità”.
Di fronte a noi vi è lo spauracchio dell’uomo-otre (“Mangia, mangia bambino mio”) con la promessa di cibo che coincide inevitabilmente con la perdita della libertà, ma anche con la certezza che la logica del digiuno non è alternativa, bensì fisiologica ala mentalità del consumo. Insomma, non è facile districarsi nelle tante contraddizioni, visto che da un lato vi è nella nostra mente l’immagine dei santi digiunatori, asceti, e, dall’altra, la modella anoressica con il mito del corpo snello.

La seconda parte del volume, intitolata “Incomprensioni alimentari”, si muove intorno alle visioni espresse da Goethe e Italo Calvino, in apertura di capitolo, ed è oltremodo interessante notare come l’autore riesca a essere coinvolgente e stimolante quando evidenzia alcune possibili chiavi di lettura, nel tentativo di farci comprendere, quanto meno su un piano strettamente filosofico (come pure teologico), ciò che implica, a un’attenta analisi, l’atto stesso del mangiare. Entrano così in scena figure come Petronio ed Elias, Cervantes e Novalis, sant’Agostino e Simone Weil, e tante altre, ed è, così, tutto un susseguirsi inseguirsi di ragionamenti e citazioni Alla fine, ogni discorso apre a molteplici letture, ma ciò che resta è, da una parte, la percezione del cibo come “palla al piede per l’anima”, dall’altra del cibo riscattato dalla cultura. Ma non è mai un discorso chiuso, non ci sono mai risposte definitive; semmai di certo c’è che ogni essere vivente mangia ed è nel contempo mangiato e che tutto è cibo per tutto e per tutti. “Si inghiotte il mondo – si legge – mentre il mondo c’inghiotte”. Il cibo del dolore e il cibo del piacere. La miseria e l’abbondanza, ma, alla fine, “Tutti hanno un buco”, come afferma nel corso di una lussureggiante cena Trimalchione, nella avvincente narrazione che Petronio rappresenta nel suo Satyricon. La bocca, di conseguenza, è da considerare come la bocca-imbuto che tutto ingurgita o come la bocca-carta geografica aperta a ogni accesso e ogni viaggio?

La terza e ultima parte del libro di Franco Riva, “Corpi incerti”, affronta il tema da cui tutto parte, al contingenza dei nostri corpi, e si sofferma pertanto sui corpi – propri, impropri, incompiuti, ambigui, dissonanti, assottigliati, repressi, ingabbiati – concludendo che il corpo non può essere solo cosa o strumento. E le conclusioni – se di conclusioni possiamo parlare di fronte a un tema aperto a molteplici letture tra loro contraddittorie – le si trovano esplicitate alla perfezione nel richiamo riportato nella quarta di copertina, che ci sembrano ammonimenti pienamente condivisili da ogni possibile lettore, da qualsiasi angolazione legga e interpreti il concetto di corpo necessitato che si alimenta per essere: “Il cibo – si legge – non è solo mezzo e materia. È lavoro, parola, pensiero, gioco, umanità, libertà, esistenza, responsabilità,salute, giustizia. Un essere con gli altri da non confondere con un banchetto”.

In fondo, che piaccia o meno, noi siamo nella materia, siamo noi stessi materia viva, divisi tra corpo e spirito, tra necessita materiali e spirituali, e al cibo non possiamo certo rinunciare.

Filosofia del cibo è un libro da leggere e meditare. Non offre la risposta definitiva, ma apre a molteplici risposte, le quali andrebbero accolte senza chiusure né pregiudizi, né tanto meno con un approccio velleitariamente ideologico. È un libro che consiglierei volentieri ai tanti imbonitori in circolazione, che chiacchierano di cibo, e intorno al cibo, senza mai interrogarsi sull’inconsistenza di tante loro parole che affrontano il tema del cibo, come pure l’atto stesso del mangiare, in maniera volgare e sopratutto, quel che è peggio, banale. Anche il cibo ha una sua visione filosofica, non è solo materia alimentare da ingurgitare.

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