Saperi

Come il giornalismo italiano affronta il tema agricoltura

Tre giornalisti, tre quotidiani. Claudio Cerasa su il Foglio, Carlo Petrini su La Stampa, e Michele Serra su la Repubblica. Sono pochissimi coloro che si prendono la briga di documentarsi e chiedere dati agli esperti, in modo da fornire informazioni corrette sui fenomeni sociali. Su temi complessi come l'agricoltura, i cittadini sono per lo più disorientati da una comunicazione superficiale, ideologizzata e priva di dati scientifici verificati

Alfonso Pascale

Come il giornalismo italiano affronta il tema agricoltura

Chi vuole farsi un’idea più precisa di come la comunicazione sia decisiva nel costruire la percezione dei fenomeni sociali del nostro tempo, legga, uno di seguito all’altro, l’editoriale di Claudio Cerasa sul Foglio di oggi, l’articolo di Carlo Petrini sulla Stampa sempre di stamane e l’Amaca di Michele Serra sulla Repubblica di ieri. I tre autori trattano, da angolature diverse, un tema di estremo interesse: nei mesi del lockdown tutto si è fermato; eppure il cibo, pur tra mille difficoltà, ha continuato ad arrivare sulle nostre tavole senza alcuna interruzione. Si è compiuto un vero e proprio miracolo, le cui ragioni andrebbero spiegate per bene ai cittadini-lettori.

Per farlo, il direttore del Foglio ha snocciolato una serie di dati. Citando l’Economist, ha riferito che la catena di approvvigionamento globale – la quale ha permesso a milioni di aziende di prendere decisioni efficienti alla velocità della luce – ha un valore di otto miliardi di dollari, produce circa il 10 per cento del pil mondiale e impiega nel mondo circa 1,5 miliardi di persone. Tra parentesi, ha opportunamente ricordato che si tratta di quella stessa potenza agroalimentare globalizzata, la quale, dal 1970 ad oggi, ha reso possibile che il numero di persone con poco cibo a disposizione passasse dal 36 per cento all’11 per cento della popolazione mondiale. Inoltre, riportando i dati dell’Agenzia delle Dogane tra gennaio 2019 e aprile 2020, ha informato i suoi lettori che le importazioni di prodotti agricoli e agroalimentari italiani verso i paesi extra Ue hanno retto più che bene. Ad eccezione, ovviamente, dei prodotti maggiormente colpiti dalle varie politiche di dazi in America, in Cina e in Russia, per molti altri si registra addirittura un aumento: panetteria e pasticceria (più 18,6 per cento), cereali (più 35,4 per cento), ortaggi (+ 4,8 per cento), frutta (più 23,2), olio d’oliva (più 29,5 per cento). Insomma, nonostante la pandemia, le importazioni verso i paesi extra Ue, sono passate da un valore di 1.264.410.084 euro a 1.438.736.248 euro. Infine, per dimostrare la stretta interdipendenza del nostro settore agroalimentare con quello di altri paesi, ha riferito un dato dell’Istat: le importazioni di prodotti agroalimentari da altri paesi verso l’Italia a marzo 2020 rispetto a marzo 2019 hanno fatto segnare un più 2,9 per cento, e nel periodo tra gennaio e marzo più 4,3 per cento rispetto allo scorso anno.

E dopo aver fornito questa serie di dati – citando puntigliosamente le fonti ufficiali – Cerasa trae questa conclusione del tutto condivisibile: “Se il mondo fosse dominato dai campioni del protezionismo, dai teorici della chiusura, dai professionisti dell’autarchia, dai fenomeni del piccolo è bello, un mondo già pieno di guai avrebbe altri guai di cui occuparsi e di cui per fortuna oggi non si deve occupare”. E questo grazie all’impegno di tantissimi produttori e operatori che lavorano in sistemi complessi di dimensioni globali e altamente tecnologizzati. E grazie ai successi della società aperta e delle politiche che hanno ampliato gli scambi.

Questa realtà che suscita, in qualsiasi persona di buon senso, vividi sentimenti di rassicurazione e speranza, è del tutto ignorata dall’articolo di Carlo Petrini. Anzi viene addirittura demonizzata. “Se parliamo di agricoltura e di produzione alimentare – scrive il gran patron di Slow Food internazionale – non c’è dubbio che il sistema attuale non funzioni e abbia bisogno di una profonda trasformazione nella direzione della prossimità, della stagionalità, della costruzione di reti locali di distribuzione che non dipendano dai colossi del web che vedono nella consegna del cibo a domicilio solo l’ennesima occasione di profitto e di accelerazione di un processo di turbo-globalizzazione che non ha rispetto per le comunità, né per l’ambiente”. A Petrini interessa solo dire, in modo manicheo e fuorviante, che “in questi giorni tempestosi la piccola agricoltura di qualità si sta facendo in quattro per svolgere una funzione che, oltre che vitale per il sostentamento, è anche e sempre di più uno strumento di inclusione sociale e di crescita culturale per tutti”. Insomma, una bugia ben infiocchettata. Almeno per due motivi. Il primo è che non dovremmo mai augurarci che il modello kilometro zero e non tecnologizzato delle reti locali sostituisca quello che fortunatamente e con buona pace di Petrini si è dimostrato essere, in questi giorni, ben funzionante. Qualora, infatti, malauguratamente dovesse accadere quello che egli scrive, condanneremmo molti poveri a morire di fame. L’altro motivo è che l’agricoltura sta sempre più svolgendo la sua funzione di inclusione sociale e di crescita culturale non solo nelle aziende di piccole dimensioni, ma anche nelle altre. E solo la visione nostalgica, pervicacemente conflittuale, sovranista, chiusa, protezionista, antimercatista e anticapitalista alla Petrini impedisce ai diversi modelli agricoli di collaborare per favorire le attività sociali e culturali in tutto il settore, orientandolo nel suo insieme – come già sta accadendo spontaneamente – verso la sostenibilità.

Infine, Michele Serra ignora anche lui l’esistenza dei sistemi globalizzati e tecnologizzati del cibo e si sofferma esclusivamente su un aspetto: “l’urgenza di braccia, mani, gambe, schiene, arnesi”. Un’urgenza che lo indurrebbe a riscoprire oggi il lavoro agricolo come “il contrario preciso dello smart working”. Dall’alto della sua amaca, Serra in tal modo avrà pensato di rivolgere agli agricoltori un elogio, ma non si è accorto di averli invece semplicemente insultati. L’agricoltura è indubbiamente un settore ancorato alle comunità locali e ai luoghi. Ma questo non significa che è fatta solo di nude braccia e di materialità. In essa operano sempre più professionisti e imprenditori colti e capaci di utilizzare le tecnologie più raffinate e di essere protagonisti sia nelle filiere corte che in quelle globalizzate. È questa agricoltura reale – in carne, ossa e intelligenza – e nel contempo fortemente interconnessa con il mondo, che permette a Serra di restare felicemente sdraiato sulla sua amaca a godersi un cibo abbondante, sano e di qualità, nonostante intorno infuri la pandemia.

Purtroppo sono pochissimi i giornalisti, come Claudio Cerasa, che si prendono la briga di documentarsi e di chiedere dati agli esperti, per poter fornire informazioni corrette sui fenomeni sociali. Su temi complessi, come l’agricoltura, i cittadini sono per lo più disorientati da una comunicazione superficiale, ideologizzata e priva di dati scientifici verificati.

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