Saperi

Con grazia lieve

Narrazioni. Da nove anni durava il loro rapporto. Un rapporto fatto di condivisioni. Avevano condiviso tutto: l’amore per i cavalli, per i libri, per i film, per l’arte, per il nuoto. Anche per la montagna. Avevano condiviso i loro corpi. Belli e ancora piuttosto giovani. Avevano condiviso momenti d’amore e di esaltazione. Ma…

Mariapia Frigerio

Con grazia lieve

La coppia sedeva nella penombra della grande sala da pranzo. Solo dalle candele la tenue luce delle fiammelle si agitava sui tavoli.
Quello della coppia era accanto alla parete con le finestre.
Lunghe finestre da cui guardavano la valle innevata che univa Andermatt a Hospental. Un bagliore veniva, nel buio della sera, dalla chiesina illuminata, lassù, in cima alla collina, dove sembrava terminare quella distesa di neve.
Era il nono anno consecutivo che nel mese di febbraio l’uomo e la donna venivano visti da Herr Paul e da sua moglie.
Marito e moglie? Amanti? Nessuno lo sapeva.
Né, tantomeno, nessuno avrebbe osato chiedere.
Per correttezza li trattavano come tali, ma senza mai farne esplicitamente i nomi. Solo: «La signora è già sulla terrazza» o «Il signore l’aspetta da Heussi».
Erano entrambi molto belli. Entrambi molto distaccati. I profili aristocratici. Al naso sottile e quasi rettilineo di lei faceva riscontro quello aquilino di lui. Due nasi importanti. Nulla a che vedere con quei nasini all’insù alla francese. Eppure erano parigini.
La loro eleganza incuteva poi ulteriore rispetto tra gli ospiti dell’albergo.
Al Drei Könige erano, in effetti, unici.
Ci si sarebbe potuti chiedere perché, avendo a disposizione posti meravigliosi in Francia, avessero scelto quel paesino nel cantone di Uri, nel cuore della Svizzera tedesca. Per un eccesso di riservatezza? Per isolarsi dal mondo? Per fuggire da qualcuno?
Domande che sarebbero rimaste senza risposta. Il loro naturale riserbo creava un muro insormontabile per chiunque.
Anche quella sera gli altri ospiti li guardarono. Ammirando i loro capelli biondo miele, i loro profili aristocratici che si stagliavano sullo sfondo bianco, i maglioni neri che ne fasciavano i lunghi colli.
Anche quella sera, come già negli otto anni precedenti, l’uomo e la donna brindarono.
E le dita delle loro mani affusolate si cercarono sul candore della tovaglia e s’intrecciarono.
Ma Herr Paul, il padrone, si accorse che c’era qualcosa di diverso. E lo disse alla moglie.
Herr Paul tutte le sere prima della cena – che in Svizzera si consuma a partire dalle 18 – era solito cavalcare fino ad Hospental e al ritorno fermarsi a scambiare qualche parola con loro. Del resto avevano in comune sia l’amore per i cavalli sia quello per i libri. E poi… poi Herr Paul era lui stesso molto riservato!
Questa era stata la consuetudine fino all’anno prima. La consuetudine di ben otto anni.
Ma non quell’anno… Non nel nono anno.

Avevano prenotato una sola notte.
Di per sé un’anomalia. Negli anni precedenti si erano concessi non meno di una settimana. A volte erano riusciti ad arrivare a dieci giorni.
Cenarono in silenzio, brindando, con le mani che si cercavano e, intrecciandosi, si stringevano. Ma gli sguardi di entrambi si perdevano nel lenzuolo di neve della vallata.
Ed era, il loro guardare, un guardare distratto.
Herr Paul che, pur avendo del personale, voleva essere lui stesso a servire loro le portate, si era accorto che gli occhi della donna erano lucidi. E ne era rimasto turbato, soprattutto pensando che mai avrebbe potuto chiederne il motivo.
Dopo un ultimo brindisi la coppia sorrise agli altri ospiti in segno di saluto e salì in camera.

L’uomo fu il più rapido a entrare nel letto.
La donna si trattenne a lungo in bagno. Si guardava allo specchio e piangeva. Nessuno l’aveva – né mai l’avrebbe più – vista così. Nessuno avrebbe visto Béatrice col volto rigato dalle lacrime. Neppure Guillaume.
Per questo si ricompose, prima di uscire dal bagno, prima di distendersi, nel letto, accanto a lui.

«Vorrei… vorrei vederlo… toccarlo… ».
La richiesta di Guillaume lasciò Béatrice allibita.
Da nove anni durava il loro rapporto. Un rapporto fatto di condivisioni. Avevano condiviso tutto: l’amore per i cavalli, per i libri, per i film, per l’arte, per il nuoto. Anche per la montagna. In quell’angolo nascosto e per nulla mondano della Svizzera.
Avevano condiviso i loro corpi. Belli e ancora piuttosto giovani. Avevano condiviso momenti d’amore e di esaltazione.
Ma…
Ma anche tra di loro esisteva un codice segreto, mai reso esplicito. Condividere tutto, sì, ma rispettando il riserbo di ognuno.
E quel distacco che suscitava negli altri meraviglia era, per certi versi, anche la loro prerogativa di coppia.

Lo stupore per la richiesta del compagno lasciò posto, nella donna, a uno stato di profonda commozione. Il codice segreto era stato infranto. Ogni riserbo era ormai caduto.
Gli prese allora la mano – quella mano che spesso le aveva fatto bisbigliare, mentre lui la carezzava, i versi di Rilke: tu non sei più vicino a Dio di noi;/siamo lontani tutti./Ma tu hai stupende/ benedette le mani. – gli prese la mano, quella bellissima mano e le fece percorrere la sua schiena, lungo la spina dorsale, giù fino all’osso sacro. Poi gliela guidò ancora più giù, proprio lì, in quel luogo immondo, dove si era formata quell’anomala escrescenza carnosa.
Lui seguì tutto il percorso e quando lei pose un dito delle bellissime mani di lui su quella cosa abnorme lui la sfiorò. Poi la sfiorò nuovamente.
Con grazia lieve.

Dormirono abbracciati. Tutta la notte.
Non era la prima volta.
La prima volta, però, in quel modo.
Non si parlarono. Non si amarono. Pure sentendo di amarsi profondamente.
Ognuno preso dai suoi pensieri.
Béatrice dalle sue lezioni di letteratura alla Sorbonne che avrebbe dovuto interrompere.
Quell’anno il corso monografico che aveva scelto era Alighieri, le opere giovanili.
Pensò alla fatalità del numero nove che Dante identificava come la massima espressione dell’amore divino e a cui sempre aveva associato Beatrice.
Il numero nove: segno di assoluta perfezione.
Ma lei, Béatrice, dopo nove anni di amore si sentiva vittima, invece, di quella grande, invereconda, misteriosa imperfezione.

Guillaume pensava al suo studio sulla grazia in Canova. Un argomento che gli era stato molto a cuore, ma che ora non lo interessava più. Come se la grazia (la grazia della bellezza e dell’amore) non avesse avuto alcun riguardo per lui. In quanto non lo aveva avuto per Béatrice.

Dormirono stretti tutta la notte.
Al risveglio Guillaume le disse: «Sei ancora giovane. Ce la farai».
Poi, dopo un attimo: «Ce la faremo».
«Sì, ce la faremo. Dicono che a Zurigo siano molto bravi» annuì Béatrice.

Scesero nella grande sala da pranzo per la prima colazione. Nel frattempo Herr Paul, come richiesto, aveva fatto portare nella hall i loro bagagli.
Guillaume chiese il conto ripetendo quasi a se stesso, come in una litania: la cena di ieri, la notte, das Frühstück. E aspettò che il padrone del Drei Könige gli dicesse la cifra.

«Niente. Non ci deve niente».
«Come sarebbe?» chiese stupito Guillaume.
«Mia moglie ed io abbiamo deciso così. La prego di permetterci, dopo nove anni, di avervi – per una volta – nostri ospiti».
Herr Paul li accompagnò all’auto. Le valigie erano già state caricate.
«Vi aspettiamo un altr’anno. Buon viaggio per Zurigo».
Poi dopo un attimo di riflessione, titubante: «E… e andrà tutto bene».

L’auto si mise in moto. Béatrice domandò: «Gli hai detto tu qualcosa?».
«No. Semplicemente l’ho informato che eravamo diretti a Zurigo. Così, per giustificare la prenotazione di una sola notte».
«E come si spiega?».
«Cosa vuoi che ti dica? Le persone a volte sono imprevedibili. Più perspicaci di quanto non si creda».
«Hai ragione: anche tu ieri sera sei stato imprevedibile. Meravigliosamente imprevedibile» e dicendo quelle parole chinò la testa sulla spalla di lui.

Guillaume staccò una mano dal volante per carezzarle il volto. Con quella stessa grazia lieve con cui, la sera prima, si era spinto a esaminare giù, più giù del fondo della sua schiena.
Poi le bisbigliò all’orecchio: «Ti ricordi che ci conoscemmo alla Cinémathèque?».
«Come potrei dimenticarlo? Nove anni fa… Lavoravi a Bresson… ».
«Sì, al “Diario di un curato di campagna” e tu allo stesso romanzo di Bernanos».
«Allora… ».
«Allora… allora diciamo insieme le ultime parole del curato Ambricourt, le ultime parole del romanzo e del film. Ne abbiamo bisogno».

Avevano da poco imboccato l’autostrada per Zurigo. Di nuovo avevano intrecciato le loro dita sul cambio dell’auto.
Poi, quasi all’unisono, dalle loro bocche, come per miracolo, uscirono le parole, le ultime del libro e le ultime del film: «Che cosa importa? Tutto è grazia».

Lucca-Fiumetto, 10 luglio 2013

La foto di apertura è di Mariapia Frigerio

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