Cosa ci guadagniamo a leggere (o rileggere) Socrate nell’era dei social?
Non quello di Platone, ma quello di Senofonte, dove l’interrogante, nel momento in cui interroga l’interlocutore, si auto-interroga. Per il colosso del pensiero universale l’interlocutore non è un avversario. La sua lezione diventa il rimedio più efficace, e l’anticorpo decisivo, contro la malattia dell’infallibilismo
Per capire cos’è il dialogo propriamente umano, ossia lo scambio su un terreno di fondamentale parità fra esseri umani relativamente autonomi, bisogna rifarsi a Socrate.
Abitualmente siamo portati a soffermarci sul Socrate di Platone. Mentre andrebbe seguita l’indicazione di Franco Ferrarotti (in L’identità dialogica, Edizioni ETS, 2007, e ora in Opere. Scritti teorici, 2, Marietti, 2019) che ritiene più proficuo “cercare di comprendere fino in fondo, in tutte le sue implicanze, di metodo e di sostanza, il Socrate di Senofonte”.
Scrive il decano della sociologia italiana: “È un Socrate che ancora oggi considero il rimedio più efficace o, anzi, l’anticorpo decisivo contro la malattia, tipicamente professorale dei sapienti élitari, dell’infallibilismo”.
Per Nietzsche, Socrate è l’inventore del concetto, l’uomo teoretico per eccellenza, il capostipite e il punto di riferimento originario del razionalismo caratteristico della filosofia europea, al prezzo fatale di un irreversibile impoverimento dell’esperienza vitale. Ma se andiamo ad esaminare il Socrate di Senofonte, notiamo che il concetto non lo si trova bell’e fatto, formalmente compiuto, delineato e formulato per via deduttiva, come spesso accade nel Socrate platonico, in cui l’interrogante quasi perversamente gioca con l’interrogato spingendolo, domanda dopo domanda, fino alle corde, fino a metterlo, ridotto al silenzio, con le spalle al muro.
Nel Socrate senofonteo, l’interrogante, nel momento in cui interroga l’interlocutore, si auto-interroga. Socrate sa che in ogni ricerca, massimamente nella ricerca della verità, ogni ricercatore è anche in primo luogo, lo sappia o meno, un ricercato. Da dove parte, infatti, per trovare gli elementi del concetto e per enunciarli al più alto livello di astrazione? Parte dalla conversazione. E si tratta quasi sempre di una conversazione casuale con altri esseri umani, incontrati per strada, nell’agorà, al Pireo, al Ginnasio o a casa di amici, invitato con altri, per esempio, per una cena, come si dà conto nel Simposio.
Non è un rapporto èlitario, tanto meno utilitario. Socrate interroga chiunque gli capiti di incontrare per le vie di Atene, al modo, se non di un “flâneur”, di un “perditempo geniale”, come è stato mirabilmente definito da Nicola Siciliani de Cumis interrogando Eugenio Garin.
Socrate costruisce il concetto non attraverso la deduzione da principi primi, ma in base all’esame empirico di situazioni umane specifiche che emergono nello scambio dialogico.
Nelle conversazioni a Socrate non interessa vincere, ma convincere. E neppure gli sembra importante aver ragione. L’interlocutore non è un avversario. Quello che gli preme è porre domande, mirare alla crescita della consapevolezza interiore.
Insomma, nel Socrate senofonteo si possono trovare gli elementi essenziali per intendere la natura del dialogo come processo formativo dell’identità e come strumento o forma conoscitiva in cammino verso la verità come patrimonio comune. Approfondendo questo Socrate, si può comprendere come il linguaggio diventa un’impresa collettiva, intersoggettiva, presupposto essenziale per la formazione e l’attività di quella che Ferrarotti definisce “identità dialogica”.
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