Saperi

E se applicassimo per l’olio la catena del fresco?

Cosa accade quando un addetto ai lavori legge un libro come Libero Olio in libero Stato? Si apre a una serie di considerazioni. Occorre essere positivi e puntare all’unione, due elementi cardine per chi voglia valorizzare l’olio extra vergine di oliva. Anzi, no: il succo di oliva

Domenico Fazio

E se applicassimo per l’olio la catena del fresco?

Con Libero Olio in libero Stato mi sono fatto compagnia nel viaggio di domenica sera da Firenze a Copenhaghen, rendendolo così più breve e riflessivo. Appena arrivato in hotel ho buttato giù di getto alcune riflessioni, senza un ordine preciso.

Il libro è bello! Bello anche esteriormente. Lo stile di Zona Franca si addice perfettamente al mondo agricolo, dove non si può e non si deve sprecare nulla.

Concordo pienamente con Luigi Caricato: serve semplicità. Ulteriori regole volte a difendere quello che non è – e non può essere – chiaro ai consumatori, non possono fare altro che aggravare la situazione.

La classificazione merceologica di olio extra vergine di oliva, che già come tale contiene un non senso, classificando come extra qualche cosa che è o non è, non supporterebbe altre specifice, le quali confonderebbero ancora di più chi legge.

Un nuovo nome mi parrebbe auspicabile. Conosco solo due oli direttamente commestibili estratti dal mesocarpo, e non dal seme: l’olio da olive, e l’olio di avocado. Sbaglio?
Quindi l’espressione “succo di oliva”, come suggerisce l’autore, mi sembrerebbe anche tecnicamente corretta. Onde evitare che la gente poi lo beva, magari si possiamo dire liposucco di oliva? Pensiamoci.

Altro elemento evidenziato nel libro: la positività. La positività in tutto, anche nella comunicazione. Sì, perché non vorrei più vedere pubblicità che guardano a un passato che non esiste più, per fortuna!

Ulteriore elemento evidenziato: l’unione. Già, l’unione: il 90% dell’olio è prodotto intorno al Mediterraneo, in una striscia non più lontana di 200 km dalle spiagge. L’olio estratto dalle olive potrebbe essere consumato in tutto il mondo, se solo lo si promuovesse con la necessaria forza. Una organizzazione transnazionale (il Coi?) che promuovesse il comparto, finanziata da tutti i produttori, avrebbe ricadute importanti. In realtà, siamo qui in una guerra tra poveri: “il mio olio è superstupendo, il tuo è schifoso e sono sicuro che fa anche un po male”, e questo accade non solo tra i diversi Paesi produttori, ma anche tra stessi italiani!

Credo che alla corretta analisi Luigi Caricato potrà aggiungere nei suoi prossimi saggi alcune note tecniche:
la qualità, per esempio, è quella che arriva al consumatore, e non quella che si produce e si confeziona; e poi: è importante applicare per il succo d’oliva la catena del fresco. Fateci caso: si consumerebbe un formaggio, o un prosciutto, trasportato sotto al sole d’estate?

Spagna olearia. D’accordo, la Spagna ha fatto un grande lavoro nella specializzazione, nell’abbattimento dei costi e anche nel migliorare lo standard qualitativo, ma ha fatto nel contempo uno scempio ambientale, trasformando milioni di ettari in una monocultura. Tutto ciò grida vendetta. In questo caso, la non scelta dell’Italia ci ha forse aiutato. Un marketing attento valorizzerebbe la nostra specificità, consistente nella protezione ambientale, quindi nel minor consumo di suolo e di acqua, e, di conseguenza, nella tutela del paesaggio.

A mio avviso l’autore da’ troppo peso alle lobby, le quali se fossero tali farebbero gli interessi dei rappresentati. In questo mondo dell’olio delle vere lobby non esistono.

La tirata d’orecchi più sonora? La darei alla stampa, che ha dispensato falsità a piene mani…

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