Saperi

E’ un Paese ben coltivato

Non semplicemente un romanzo o un saggio socio-antropologico, né solamente un’inchiesta giornalistica, ma una guida o, meglio, un manuale di autoapprendimento di come siamo fatti noi italiani. Mentre in libreria c’è la nuova opera di Giorgio Boatti, Portami oltre il buio. Viaggio nell’Italia che non ha paura, noi abbiamo voluto ritornare sul precedente lavoro, che abbiamo letto per voi, invitando a fare altrettanto. Arrivando a chiederci se sia possibile pensare a una moderna ruralità, reinventata sulle ceneri della società industriale fordista?

Alfonso Pascale

E’ un Paese ben coltivato

Avventuratevi senza remore nella piacevole lettura del libro di Giorgio Boatti Un paese ben coltivato. Viaggio nell’Italia che torna alla terra e, forse, a se stessa (Editori Laterza, 2014). Ma poi non abbiate fretta di giungere alla fine. Godetevi il percorso lentamente, indugiate sulle pagine che maggiormente vi suggestionano, tornate indietro, seguite i rimandi ad altri testi, approfondite argomenti solo accennati, segnate altre piste suggerite da ricordi che riaffiorano alla mente, guardatevi dentro e ascoltate le voci che risuonano nel vostro animo.

Quando vi spostate, portate il libro con voi e leggetelo dove capita: in treno, in autobus, su una panchina o in un angolo di bar. È un modo per condividerne il dinamismo, il gusto dell’imprevisto e l’attesa della novità. Un paese ben coltivato non è semplicemente un romanzo o un saggio socio-antropologico. Né solamente un’inchiesta giornalistica. Ma una guida o, meglio, un manuale di autoapprendimento di come siamo fatti noi italiani, in quanto individui o gruppi che coabitano i territori della penisola. Il genere letterario che più si avvicina a questo libro sembra, tuttavia, essere il romanzo di formazione per la particolare scrittura adottata, l’accuratezza delle storie di vita raccontate, la penetrazione interiore dei personaggi e la profondità riflessiva dell’io narrante. Ne vien fuori un affresco suggestivo dell’Italia contemporanea che spesso incrociamo ma non sappiamo riconoscere perché siamo distratti, sordi, smemorati, deprivati del senso del luogo, ossessionati dal nostro tornaconto immediato e, soprattutto, abbiamo perduto la capacità di connettere i vari aspetti di un mondo diventato più complesso.

Giorgio Boatti ha conosciuto Emilio Sereni in una lezione che questi teneva in un’aula della scuola quadri dei giovani comunisti alle Frattocchie. Ne ha conservato un vago ricordo; tuttavia ha chiaro in mente il succo della “Storia del paesaggio agrario italiano” che l’intellettuale marxista aveva scritto violando i canoni accademici: aveva, infatti, corredato l’opera di materiale illustrativo e iconografico, tratto dall’espressione artistica prodottasi lungo i secoli, per dimostrare come natura e cultura, naturale e artificiale si fondessero nel caratterizzare i territori e come gran parte di quello che era stato osservato, dai campi ai boschi, dalle montagne ai fiumi, fossero opera del lavoro umano. E sono siffatte letture ad affiorare in testa a Boatti mentre va alla scoperta dei protagonisti di quel Paese ben coltivato che vede dai finestrini dell’aereo. Una scoperta che egli compie procedendo per tentativi, intuizioni e verifiche. Saltellando da un riquadro all’altro come nel “gioco del Mondo”. Incominciando e finendo a Oppido Mamertina, alle falde dell’Aspromonte, in un istituto comprensivo di scuola media superiore, dove i ragazzi curano un orto didattico, si organizzano per andare a visitare altri Paesi europei, animano coi loro insegnanti l’associazione culturale “Ricerca Alternativa”. Con loro l’autore parla dell’Italia che rischia il declino benché essa manifesti grandi potenzialità di sviluppo. Parla delle sfide che il lavoro e la conoscenza affrontano sul versante del coltivare il cibo che ci arriva in tavola. Rende partecipi gli allievi del suo viaggio che inizia con il solstizio d’inverno e che si conclude con quello d’estate; due momenti dell’anno che rappresentano il giorno più corto e quello più lungo, quello con il minor numero di ore di luce e quello più luminoso, il tempo della semina e quello della mietitura, il tempo delle lacrime e quello della gioia. Un ciclo armonioso nella vita degli uomini e delle comunità che oggi appare rotto come “quando – scrive Boatti con un’efficace metafora – dopo ogni terremoto arrivano i razziatori” e “si ha l’impressione che qualcuno dentro i nostri anni abbia operato per far sì che alla maggioranza spetti l’onere del portare i semi, del faticare, mentre altri, una minoranza di privilegiati, fanno man bassa del raccolto, si assegnano meriti e riconoscimenti”. E conclude: “Sarà nei campi, nel coltivare, che ci si opporrà con maggiore decisione, e non solo nel nostro Paese, a questo andazzo”. Ecco dunque il senso del libro: l’ordito di terrazzamenti e filari, di siepi ed alberi, di storie vissute e quelle in divenire che formano il Paese ben coltivato contiene un’Italia che esercita il diritto di resistenza a modi di vivere ed operare ritenuti lesivi della libertà delle persone. In altre parole, una moderna ruralità, reinventata sulle ceneri della società industriale fordista e che mette a frutto le opportunità rese disponibili dalla globalizzazione e dalla rivoluzione tecnologica in atto, sta indicando all’insieme della società – in profonda crisi – la strada per rimettere al suo posto, nella vita di ciascuno e delle comunità, il tempo della semina e quello della raccolta, come elementi inscindibili della “fioritura”, cioè dello scopo finale del lavoro umano.
Dalla Calabria del bergamotto l’autore ci accompagna in Veneto e in Trentino, nel distretto dei frutti di bosco, dove Ilario Ioriatti si dedica ai vivai e non vuole solo rifornire i mercati, italiani e internazionali, di piantine per orti e per l’hobbistica ma intende dare al consumatore l’occorrente per fare in modo che egli si produca da sé i lamponi sul balcone. Dalle rive dell’Adige percorriamo la Valle padana per raggiungere il Ponente ligure, dove regna sovrana, nelle aree olivetate, la cultivar taggiasca. Ad Albenga si producono 70 milioni di vasi di piante coltivate che vengono esportati ogni anno nel Nord Europa. Olio extra vergine d’oliva biologico, pesto di basilico e vasi di fiori sono le produzioni dell’azienda Sommariva. Ma tra Albenga e Ceriale c’è anche un ex libraio, Gerry Delfino, che ha realizzato il “giardino dei poeti”, dove arrivano continuamente scolaresche ad annusare il profumo delle tamerici, del mirto e dei vari tipi di pino che D’Annunzio descrive nella sua “Pioggia nel pineto”. E ci sono anche il girasole di Montale, l’albero mutilato che Ungaretti incontra sulla dolina del Carso, il rododendro di Goethe, le betulle di Pasternak.

“Coltivare i campi – riflette Boatti – e coltivare se stessi e aver cura del mondo costituiscono un’unica cosa e questa cosa comincia con le parole. Col dare il nome giusto alle cose”. Quelle parole che si ritrovano sulle pareti dell’Istituto Agrario dove un insegnante racconta l’origine delle trasformazioni socio-economiche nella piana di Albenga per iniziativa di ortolani che, a fine Ottocento, vivevano a ridosso di Genova e vennero espropriati per far posto alle fabbriche.

Dalla Liguria il viaggio prosegue nel distretto del riso tra Pavia, Novara e Vercelli e poi a Senigallia, nella terra dei mezzadri, la cui antica cultura ha dato vita al “modello adriatico”. Nel Museo della Mezzadria riviviamo un mondo che non c’è più ma che costituisce una componente fondamentale del DNA socio-economico del Paese. Risalendo la Subapenninica per Isola del Piano, arriviamo nella terra di un pioniere del biologico, Gino Girolomoni, una vita spesa per affermare un altro modo di produrre e di fare economia. Rievocandone la vicenda umana, professionale e culturale, l’autore ci offre uno spaccato significativo della storia dell’agricoltura degli ultimi cinquant’anni. A Chioggia andiamo a vedere di cosa è fatto il pregio del radicchio rosso, di questa cicoria selezionata sul campo dagli stessi agricoltori. Dal Veneto si scende di nuovo verso il Sud per una tappa in Molise e poi nella splendida Puglia, tra Turi, Conversano e Casamassima, nel distretto della ciliegia, a studiare l’organizzazione produttiva e commerciale di questa filiera cortissima perché da quando il frutto viene raccolto a quando arriva sullo scaffale del supermercato passano al massimo ventiquattr’ore. A Turi non può mancare la visita al carcere dove sono stati rinchiusi Antonio Gramsci e Sandro Pertini. Per passare poi all’azienda “Racemus” di Teresa Diomede a Rutigliano dove impera l’uva da tavola destinata al mercato estero e dove gli internauti, dalle loro case lontane, controllano l’evoluzione di ogni vigneto, la crescita dei grappoli sui tralci, le operazioni effettuate sulle piante e verificano le certificazioni ambientali di produzione integrata.

Gli ultimi paragrafi sono dedicati alla Basilicata e contengono pagine ammalianti che descrivono gli otto consigli di vita attribuiti da Porfirio a Pitagora e le varie fasi della riforma agraria nel Metapontino, dove i figli degli assegnatari dei poderi hanno investito in fragole per i mercati nazionali ed esteri. Boatti racconta la storia di una mia amica agricoltrice, Carmela Suriano, del marito Pasquale e del fratello Rocco, che coincide con la storia di un cultivar pregiato, la Cardonga di Basilicata e del suo successo strepitoso sui mercati interni e internazionali: un fatturato di 9 milioni e mezzo realizzato senza mai passare per la grande distribuzione, ma costruendo e incrociando un proprio mercato, pezzo per pezzo, con la passione e l’intelligenza delle relazioni. È la dimostrazione pratica che quando si persegue la strada dell’innovazione si possono evitare i vicoli ciechi delle “filiere sporche” del caporalato, dello sfruttamento e del taglieggiamento. Così come la storia di un altro cultivar, quello del pomodorino Juanita, è la storia di successo di un altro agricoltore, Antonio Della Spina, a San Nicola di Melfi. Nelle serre edificate accanto alla Fiat, nella zona industriale, dove si coltivano i pomodori senza spezzarsi la schiena perché le piante arrivano fino a tre metri d’altezza e le macchine fanno il lavoro pesante, Boatti ricava l’impressione di aver intravisto lo snodo tra passato e futuro e va a verificare la sua ipotesi da Michele Stanca, il genetista che opera nel centro sperimentale di Fiorenzuola, tra Piacenza e Parma. Lì comprende le grandi potenzialità dell’incontro tra ricerca scientifica e attività agricola, qualora tale rapporto fosse sostenuto e alimentato dalle politiche pubbliche.

Girando per la Basilicata, una domenica mattina l’autore visita Matera, ma si ripromette di tornarci, ammaliato dal chiaroscuro dei Sassi e dalla gentilezza delle persone. Dovrà poi un giorno salire a vedere Tricarico dove è vissuto il cantore della civiltà contadina, Rocco Scotellaro. Quel giorno mi piacerebbe andarci insieme per approfondire coi miei amici lucani le suggestioni e gli interrogativi di questo bel libro: proprio questo scorcio di Basilicata, tra Matera e Tricarico, è stato uno degli epicentri, dove, negli anni Cinquanta, si è consumata la frattura antropologica che ha provocato la crisi ecologica che tuttora viviamo. Frattura che in Italia ha avuto caratteristiche sue proprie in un contesto che vedeva le politiche pubbliche concentrarsi nel sostegno di un’industrializzazione forzata dall’alto e, nello stesso tempo, abbandonare l’approccio dello studio di comunità per gli interventi di sviluppo, emarginando le competenze nel campo sociologico, antropologico ed educativo. Un contesto, inoltre, nel quale la gran parte dei tecnici che uscivano dalle scuole e dalle facoltà di agraria veniva assunta non più dalla pubblica amministrazione ma dalle industrie produttrici di mezzi tecnici per essere adibita alle attività di assistenza tecnica e di divulgazione agli acquirenti. Un mutamento radicale che ebbe un esito deleterio: gli agricoltori diventarono, d’un tratto, destinatari passivi di tecnologie senza potersi giovare di strutture pubbliche, dotate di competenze tecnico-scientifiche adeguate, capaci di fare da filtro nel rapporto tra imprese agricole e industrie produttrici di mezzi tecnici. E così il venir meno di un impegno pubblico nella trasmissione del progresso tecnico e nelle politiche territoriali costituì la causa principale della rottura dell’equilibrio tra visione produttivistica dell’attività agricola e visione conservativa delle risorse ambientali. Una rottura originata dall’erosione progressiva delle relazioni interpersonali nelle campagne e dalla solitudine in cui fu lasciato l’agricoltore. La ruralità contemporanea che il libro di Giorgio Boatti racconta è il tentativo faticoso e spontaneo – perpetrato coraggiosamente da singoli agricoltori o da piccoli gruppi in diverse realtà del Paese – di una progressiva e non ancora matura ricomposizione di quella frattura antropologica. Una ricomposizione possibile a condizione che si assuma fino in fondo la visione globale dei problemi agricoli e ambientali e si coinvolga l’insieme dei cittadini, ridefinendo il rapporto tra scienza, tecnologie, economia, territori, società e comunità mediante una permanente educazione all’interazione dei saperi e alla cultura della responsabilità.

La foto di apertura è di Luigi Caricato

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