Fasti e nefasti delle “ammiraglie” dei despoti: la Moskva sulla scia della Vittorio Emanuele
Nello scontro di Capo Matapan, il 29 marzo 1941, la flotta britannica Royal Navy annientò quella italiana. La chiave di lettura di storici e studiosi, che hanno sempre narrato amareggiati l’esito a cui si andò incontro, non è così distante dall’affondamento dell’incrociatore nel Mar Nero, anzi è assolutamente identica: un tiranno non può fidarsi di nessuno. Tutti sono responsabili di ogni fallimento, a dimostrazione di queste parole la grande resistenza ucraina davanti a quella che fu la seconda potenza militare del Pianeta
Chi scrive è figlio adottivo della Reale Marina Militare.
Papà, giovane avvocato, quindi assolutamente ignaro di trigonometria, fu destinato, dalle incomprensibili regole dell’arruolamento fascista, a comandare, dopo il rapido corso per ufficiali, una batteria costiera in posizione strategica per il controllo dello Stretto di Messina, sul piccolo promontorio di Villa San Giovanni.
Secondo il regolamento della Marina, poté condurre alla base assegnatagli la giovane sposa.
Se il Capitano non conosceva la trigonometria, i giovani rampolli cui la Royal Air Force affidava i propri caccia sapevano perfettamente quale fosse la distanza di sicurezza dalle batterie costiere, cacciavano prede sullo stretto senza rischiare la vita e il prezioso velivolo che, tornato a Malta, avrebbe ritentato la caccia il giorno successivo.
Un giovane patrizio inglese sapeva perfettamente che non tutte le battute si concludono con la coda della volpe appesa alle redini: ciò a differenza dei piloti del nuovo Kzar russo, che ha preteso il sacrificio di decine e decine di piloti, e l’annientamento dei relativi velivoli, purché distruggessero un condominio seppellendo tra le macerie donne e bambini. Incapace di calcolare quanto sarebbe costato rimpiazzare gli areoplani perduti a un paese le cui risorse economiche sono state magnanimamente distribuite tra compari e tirapiedi, che le hanno convertite in assets nelle banche Stars and Stripes, dai cui forzieri saranno trasferiti, verosimilmente, al futuro fondo per la ricostruzione dell’Ucraina.
Data l’accortezza dei piloti di Sua Maestà, Papà e Mamma vissero, su uno degli scogli più suggestivi del Mediterraneo, la più felice luna di miele, interrotta, il 29 marzo 1941, dalla tragica visione dell’intera flotta italiana praticamente annientata dalla Royal Navy nello scontro di Capo Matapan, nelle cui acque era stata diretta dal più insensato piano tattico dell’intera storia delle battaglie navali.
Obiettivo della missione: intercettare e distruggere eventuali convogli inglesi.
Sottolineo il termine eventuali: non risulta che lo spionaggio italiano disponesse di notizie su transiti significativi.
Con la speranza che il caso fosse benevolo era, peraltro, stata mobilitata tutta la flotta, la grande ammiraglia, la corazzata Vittorio Veneto, decine di incrociatori e di caccia.
Tante navi che le disponibilità di combustibile non erano state sufficienti a ricolmare i serbatoi, così che l’intera forza marittima nazionale fu inviata nell’Egeo senza sapere chi avrebbe attaccato, ma nella speranza di affondare qualche natante in fretta per rientrare a Taranto prima di esaurire la nafta.
Il Duce aveva ribattezzato il Mediterraneo Mare nostrum con tanta passione da convincere sé medesimo che tale sarebbe stato anche in assenza di combustibile.
Oltre quel mare, ad Alessandria, era stanziata la flotta di Sua Maestà britannica, tre portaerei, corazzate e cacciatorpediniere, britanniche e neozelandesi.
La prima differenza tra le due squadre era costituita, appunto, dalle portaerei, che il Duce, nella propria suprema lucidità, aveva giudicato gingilli assolutamente superflui.
La seconda, la disponibilità, su più di un incrociatore britannico, del radar che, derivato dalle scoperte di un fisico italiano, assicurava la possibilità del combattimento notturno, anch’esso, per il Demiurgo dei destini italici, gadget inutile: i comandanti romani avevano sempre vinto, in mare, alla luce del sole: altrettanto avrebbero fatto i loro emuli e successori.
Ma la scriminante capitale consisteva nel “regolamento di battaglia”: mentre, a Londra, Sua eccellenza il Lord dell’Ammiragliato studiava accuratamente il curriculum di tutti gli ufficiali in servizio, e, quando nominava un ammiraglio, gli rimetteva pieni e totali poteri sulla conduzione di ogni scontro, sapendo che, in mare, la scelta se puntare sul nemico o distanziarsene deve essere assunta in pochi minuti, Mussolini aveva rimesso l’autentico potere di disporre della tattica di battaglia al supremo comando della Marina a Roma, cui dall’ammiraglia dovevano essere inviati, minuto per minuto, messaggi aggiornati, cui il Comando rispondeva, dopo il confronto tra i capi supremi, consultato, magari, il Duce, notoriamente infallibile.
Purtroppo informazioni dall’Egeo e risposte da Roma dovevano essere crittografate, un’operazione lunga e laboriosa, un vantaggio straordinario per l’Ammiraglio britannico, che disponeva di personale a perfetta conoscenza del codice della Marina italica, e persino più celere, verosimilmente, a decifrarne i messaggi.
A fronte della schiera di comandanti di squadre e sotto squadre italiche ad Alessandria ogni decisione era affidata ad un uomo solo, autentico erede di dell’aristocrazia di pirati che aveva proclamato, per secoli “Rule, Britannia, on the waves!”, Lord Andrew Cunningham.
Informato dei messaggi in codice con cui la Marina italiana aveva concertato la spedizione, sapendo Alessandria affollata di spie, la mattina del 28 marzo si fece condurre, nella tenuta conveniente, al campo di golf, dove si intrattenne, pubblicamente, in gradevoli partite, sapendo che l’intera flotta stava disponendosi a salpare nelle prime ore della notte.
Nella tarda serata un’auto con tendine lo condusse alla banchina, salì sull’ammiraglia, vestì la divisa, un breve briefing con gli ufficiali, e la flotta mediterranea di Sua Maestà affrontò il mare.
Dettaglio significativo: pure disponendo di tre portaerei, Milord ne fece salpare soltanto una: per annientare le farneticazioni di Palazzo Venezia sul futuro impero africano sarebbe stata sufficiente: in guerra anche la Gran Bretagna doveva risparmiare carburante.
La battaglia, dall’alba del 29 marzo, è stata narrata, da storici italici comprensibilmente amareggiati dall’esito della giornata, quale successione di avvistamenti e scontri mancati a causa dell’assenza di un disegno strategico da entrambe le parti.
L’evidenza dei fatti dimostra, inequivocabilmente, il contrario: autentico successore di Horace Nelson, Lord Cunningham operò la scelta di un autentico, grande marinaio: sapendo di disporre del vantaggio del tiro notturno evitò, per l’intera giornata ogni contatto delle proprie imbarcazioni con quelle italiane, facendole, successivamente, portarsi in vista, mai a tiro, e ritrarsi.
Per poter colpire di notte immaginò l’espediente più semplice: silurare l’ammiragli italiana e ricolmarle le stive d’acqua: l’intera flotta tricolore si sarebbe raccolta attorno alla Vittorio Veneto per difenderla durante il più lento ritorno a Taranto.
Mentre tutti i natanti italici avrebbero disattivato i meccanismi di brandeggio dei cannoni, che nell’oscurità non erano in grado di usare, gli incrociatori inglesi avrebbero aperto, grazie ai radar, la più agevole partita di bowling.
Il siluramento costò alla Royal Navy l’unica perdita umana della giornata: il pilota dell’aerosilurante cui fu affidata la missione operò con tale abilità da fare esplodere l’ordigno all’altezza della sala-macchine, ma fu colpito e morì tra le onde.
Si può concludere la narrazione menzionando che, paralizzata la prima nave italiana, il Pola, Milord avrebbe fatto calare tutte le scialuppe per sottrarre i naufraghi a un mare gelido e popolato di squali, protraendo il soccorso ai superstiti di vascelli colpiti successivamente, fino alla comparsa, in cielo, di un ricognitore tedesco che, disponendo la Luftwaffe, in Grecia, di un’intera squadra di bombardieri (che, secondo le intese tra Roma e Berlino, avrebbero dovuto assicurare la copertura aerea delle navi italiche), indusse l’Ammiraglio a interrompere le operazioni di salvataggio, telefonando, personalmente, a Roma, di inviare immediatamente navi di soccorso, che, data la distanza, avrebbero trovato il mare pullulante di marinai uccisi dal freddo.
Seppure le differenze tra lo scontro tra due flotte poderose nell’Egeo e l’affondamento di un incrociatore nel Mar Nero, siano, apparentemente, ingenti, la chiave autentica delle due vicende è assolutamente identica: un tiranno non può fidarsi di nessuno: ad assolvere alle funzioni più ardue colloca, sistematicamente, lacchè, tra i quali e se medesimo interpone una fitta schiera di intermediari, ciascuno incaricato di sorvegliare qualcun altro, così che tra gli esecutori dei propri ordini nessuno è pienamente responsabile delle proprie scelte, mentre tutti sono responsabili di ogni fallimento, proprio o altrui, una realtà di cui i due mesi di resistenza di un piccolo paese contro quella che fu la seconda potenza militare del Pianeta propongono la prova inequivocabile.
Lord Cunningham avrebbe potuto, gettando le proprie navi all’inseguimento notturno, affondare l’intera flotta italiana. Con pragmatismo britannico, certo di avere affondato l’illusione dell’impero africano di Benito Mussolini, evitò di suggellare quella che sarebbe stata, verosimilmente, la maggiore carneficina della storia della guerra navale.
Un siluro per ogni natante, le stive ricolme d’acqua, sarebbero (quasi) tutti rientrati, lentamente, a Taranto.
Dall’altura di Villa San Giovanni dove era collocata la batteria di Papà, Mamma assistette al lento avvicinarsi alla meta dell’interminabile fila di relitti.
Nella luna di miele marinaresca era rimasta incinta.
Ignoro se fu la terribile impressione di quel corteo funebre a farle perdere il bambino, di cui io avrei, dopo pochi mesi, occupato il posto.
Ignaro di ginecologia, non so se le emozioni di una gestante si trasmettano al feto, e reputo ancora più difficile sapere se, scomparso quel feto, chi gli succeda nel medesimo ricettacolo possa ancora percepire quelle emozioni.
Confesso, peraltro, sarà pura suggestione, che mi sono sempre sentito creatura segnata dalla notte di Capo Matapan.
E siccome so di essere stato cento volte accarezzato dalle mani ruvide, di pescatore, degli artiglieri di Papà, mi chiedo, con angoscia, se qualcuno dei ragazzi che mi accarezzavano, leva di mare di borghi calabresi, famiglie numerose, avesse avuto un fratello imbarcato sul Pola, sbranato, nelle gelide acque egee, da uno squalo, imbarcato per sottrarre, senza radar, il fatidico Mare Nostrum alla perfida Albione.
Se il Leninismo, versione aggiornata della demenziale ideologia politica di Maximilien Robespierre, conobbe il proprio trionfo con la conquista della corazzata Potiomkin, verosimilmente ha emesso l’ultimo rantolo con l’affondamento dell’incrociatore Moskva.
In apertura, foto di Olio Officina©
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