Saperi

Gira gira biondina

Narrazioni. Un lettuccio, uno scrittoio, scaffali a giorno ricoperti di libri. Era un pomeriggio d’autunno. Bianca in visita alla casa con la torretta. Stavano bevendo un tè. Di punto in bianco aveva chiesto a Romano: «Quanto tempo impiegheresti a dimenticarmi se morissi?»

Mariapia Frigerio

Gira gira biondina

Senza nessuna telefonata, ma dalla cronaca del quotidiano, aveva saputo della fine di Bianca.
Bianca, l’amica del cuore. Se ne era rimasto, il vecchio Romano, immobile nella sua poltrona. Immobile come una statua.
Poi era salito nella sua camera francescana (un lettuccio, uno scrittoio, scaffali a giorno ricoperti di libri). Qui, sulla sedia di fronte alla scrivania, testa tra le mani, per la prima volta nella sua vita aveva pianto. Di nascosto. Nessuno doveva sapere. Nessuno doveva vedere.
Scoprire la fine della donna dal giornale. Del resto, chi lo avrebbe potuto avvertire? Non il marito che era all’oscuro del loro strano legame. Non la figlia che lo considerava una delle tante conoscenze della madre. Neppure Clelia, la fedelissima domestica – quasi un’amica per Bianca – che, dopo un grave intervento, ne frequentava ormai poco la casa. Al suo posto, ora, c’era Manuela. Ma mai Bianca le avrebbe parlato. E tante volte Romano l’aveva rimproverata di tenere così a distanza la donna.
«È così chiacchierona!».
«Povera Manuela. Avrà voglia di conoscerti, di sapere chi sei».
«Non ero in cerca di una dama di compagnia. Volevo una che sapesse il fatto suo per la casa e avesse un po’ di discrezione… Poi mi conosci. Non do il mio affetto a chiunque».
«Però l’hai dato a me e… senza nulla in cambio».
«Sai anche che soffro di viscerali simpatie e antipatie…».
«Sì che lo so e mi sono sempre chiesto se anch’io non ti fossi, sotto sotto, un po’ antipatico…».
«A volte ti bastonerei, vecchio zuccone, per le tue fissazioni, per il tuo essere sempre malfidato. Ma antipatico no, non mi sei mai stato. Vorrei, però, che tu vedessi questa Manuela: della mia età, con fuseau attillati, chewing-gum fisso in bocca, capelli serpentini ossigenati. Il tuo senso estetico ne sarebbe turbato. Oddio, voi uomini siete proprio strani. Mio marito, che non l’aveva mai vista, incontrandola una volta casualmente in corridoio, l’ha definita “ragazza”. Ragazza! Una cinquantenne sgraziata e brutta. Anche rozza. Del resto a lui non è mai andata giù la mia amicizia con Clelia».

*** *** ***

Tre sere prima, mentre cenavano insieme, Bianca aveva iniziato a parlargli di Aldo Garbarini.
«Lo voglio andare a trovare, la prima volta che vado in Piemonte».
«Non me ne avevi mai fatto cenno».
«Non ti spaventare, avrà la tua età… poco più o poco meno».
«E sei sicura che ci sia ancora?».
«Non fare il menagramo: perché non dovrebbe esserci?».
«Ma come ti è venuto in mente?».
«Così… non ti so dire. Ricordo che era molto gentile con me. Molto educato… con quella erre moscia. Anche divertente. Forse un po’ vanesio… non doveva neppure essere un brutto uomo, ripensandoci oggi… con dei mustacchi curatissimi… sai, uno di quegli uomini che ci sanno fare con le donne. O, almeno, credono. Baciamano, complimenti… È che io ero così giovane e lui mi sembrava lontano anni luce da me. So però che, quando decise di ritirarsi dagli affari – andando in pensione in quel paesino piemontese per interessarsi del podere di famiglia – mi pregò di andarlo a trovare. Sapeva che io sovente andavo in Piemonte».
«E tu non ci sei mai stata?»
«Proprio non ti vuoi rendere conto di quello che è la mia vita…».
«Ma che dici?»
«Dico, dico. Mi divido tra marito, figlia, genero. Poi la nipotina. Il lavoro. I genitori. Le sorelle. I figli delle sorelle. Gli amici. Le vecchie tate. Clelia col suo intervento. I miei malati dell’ospedale. Tutti lontani, ma tutti presenti. Corro per tutti. Spedisco pacchi a tutti. Tengo rapporti con tutti, anche se, a volte, solo telefonici. Ora anche con te, Roman».
«Ti ho detto mille volte di non chiamarmi Roman! Roman… come quel pervertito di Polanski che ti piace tanto…».
«Ti ricordi la sorpresa nel finale di Caoscalmo quando, nell’ultima scena del film, lo vidi scendere dalla Rolls-Royce?»
«A volte hai le reazioni di una bambina, non della donna piena d’impegni che sei. Comunque, dicevi che vuoi andare da questo Garbarini. Chissà poi perché!».
«Perché… perché… non tutto nella vita ha un perché. Semplice curiosità. Mi è venuto in mente e così ho deciso di andarlo a trovare».
«Ora che vai a Torino per la Fiera del Libro?».
«Sì. Penso di uscire dopo Masone dall’autostrada, non so se a Ovada o ad Alessandria, e di andare a vedere dove vive».

*** *** ***

Anni prima Bianca aveva accettato l’invito di Romano a pranzare con lui. «Ma a un patto» gli aveva detto «solo se farai un giro in auto con me».
E, in quel giro in macchina, avevano raggiunto insieme un paesino sopra un colle. A un tornante Bianca si era fermata. «Qui, in questo luogo e in questo istante – con te – ho la percezione esatta della felicità. So che non potrei esserlo di più. Potrei morire adesso e saprei di morire felice.». Romano era rimasto senza parole.
A tavola però – e negli anni successivi – non ne aveva più fatto cenno. Ma era un discorso in sospeso. Almeno per Romano. Anche se non era più riuscito a tornarci sopra.
Del resto, quella che lui definiva la sua amica del cuore, era uno strano “animale”. Indecifrabile. Almeno per uno come lui e non solo per lui.
«Bel complimento, definirmi “animale”» gli aveva più volte fatto notare Bianca. Ma ne rideva. E, forse, anche di quello era felice.

*** *** ***

Era un pomeriggio d’autunno. Bianca in visita alla casa con la torretta. Stavano bevendo un tè. Di punto in bianco aveva chiesto a Romano: «Quanto tempo impiegheresti a dimenticarmi se morissi?».
Da sola si era poi data la risposta: «Smemorato come sei… facciamo… facciamo tre giorni?».
Lui l’aveva preso per uno scherzo. Uno dei soliti di Bianca.
«Sì, diciamo che fino a tre giorni riuscirei a ricordarmi di te. Dopo non so…».
«Lo sai che c’è un modo per tenere in vita le persone che se ne vanno? Tu lo conosci? Tu lo useresti per tenermi con te?».
Ma qui il vecchio Romano aveva taciuto. La risposta – se c’era – non la conosceva.

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Monica disse a Dolores di aver visto anche quel giorno il vecchio avvicinarsi alla rete e parlare con Felicita. La bambina sembrava conoscerlo, ma non sapeva dire di più.
«È il tuo nonno?» le aveva chiesto Dolores.
«No» aveva risposto timidamente la bambina.
«E lo credo bene» aveva aggiunto Monica, l’altra maestra «ma non vedi quanti anni ha, Dolores? Forse sarà il bisnonno».
«È il tuo bisnonno?» aveva allora insistito Monica.
«No… no» ed era scoppiata a piangere.
«Via, non piangere, cocca, e dimmi cosa ti dice quel signore».
«Lui canta una canzone che mi fa ridere “Gira, rigira, biondina” poi… poi c’è anche un cuore che fa “Tic-tì, Tic-tà!”…».
«Ma che le tocca i capelli, questo non lo dice Felicita» bisbigliò Monica nell’orecchio di Dolores «L’ho intravisto io l’altro giorno. Poi, non appena si è accorto di me, è scomparso».
La collega si era fatta pensosa. «È incredibile, ma… ma forse siamo di fronte a un pedofilo. Sarà il caso di dirlo alla direttrice».
«Andiamoci subito con la piccola e affidiamo gli altri bambini a suor Domenica».
Dolores, Monica e Felicita rientrarono nell’edificio e si diressero in fondo al corridoio. Fuori dall’ultima porta un cartello indicava: «Sandra Maionchi – Direttrice».
La donna ascoltò i fatti dalle due maestre. Poi volle sentire la bambina. Sandra Maionchi non era più giovane. Aveva esperienza. Sapeva come muoversi.
«Allora, Felicita, è proprio simpatico quel signore che ti canta la canzone “Gira, rigira biondina…”. Una volta lo conoscevo anch’io, ma ora non ricordo più il suo nome… Me lo vuoi dire tu?».
«Ma io non lo so!» aveva risposto con semplicità la piccola.
«Siamo proprio senza memoria tutte e due. Però mi sembra che gli piacciano i tuoi capelli… e ha ragione. Sei una bambina con dei bellissimi capelli… ».
«Io ho i riccioli naturali. “Noi siamo carine perché abbiamo i riccioli naturali” dice la mia nonna. Anche quel signore dice che ho i riccioli come la nonna… ».
Sandra Maionchi distrasse la bambina con alcuni pupazzetti che teneva sulla scrivania. Poi, rivolgendosi alle maestre: «Domani, durante la ricreazione, non perdetela di vista, ma neppure intervenite… sempre che il signore in questione non faccia…».
«Ci mancherebbe anche questo, direttrice!»
«Controllerò io la situazione e vedrò cosa fare. Non mi sembra il caso, per il momento, di avvertire la mamma di Felicita. Povera ragazza… con la madre morta in quel modo».

Il giorno successivo, a ricreazione, i bambini si sparpagliarono, come sempre, in giardino. Felicita giocò un po’ con loro. Poi raggiunse la rete. Il vecchio era già là.
Sandra Maionchi, come si era ripromessa, non la perse di vista, ma senza seguirla. La osservava, nascosta, da dietro la grande magnolia.
«Dio mio, non ci posso credere! Ma quello è Romano Baschieri! Che vorrà dalla bambina?».
Intanto vedeva Felicita ridere con lui, mentre il Baschieri infilava a fatica le sue dita nella rete per toccarle i riccioli biondi.
Le maestre richiamarono i bambini perché era ora di rientrare. La direttrice vide Felicita salutare con la manina il vecchio. Poi raggiungere i suoi compagni.
Monica voleva a tutti costi sapere. Affidò la classe a Dolores e andò a bussare alla porta della direzione. Quando entrò vide la Maionchi passeggiare avanti e indietro nervosamente.
«Si sieda, Monica… anzi, guardi, mi siedo anch’io».
«Ha scoperto qualcosa?»
«Ho scoperto chi è. Lei è giovane, ma sicuramente conosce, o avrà sentito parlare, della Fonderia Baschieri…».
«Certo! E chi non la conosce qui?».
«Il vecchio non è altro che Romano Baschieri, il proprietario».
«E cosa vuole da Felicita?».
«Questo è un mistero, ma è meglio lasciare fuori la piccola dalla faccenda. Meglio non farle domande. Lo dica anche a Dolores. Ora proverò a contattare il figlio… Certo che è una situazione alquanto sgradevole… sgradevole per tutti… per il figlio, ma anche per il vecchio… per la bambina e per la madre… Per noi, poi! Non è una buona pubblicità che intorno alla nostra scuola si aggirino… sì, insomma, mi ha capito… anche e soprattutto se sono persone note come il signore in questione».

La direttrice fece le telefonate. Parlò con Gabriele, il figlio del Baschieri, e con Lavinia, la figlia di Bianca e madre di Felicita. Lo fece con le dovute cautele, cercando di non accusare esplicitamente l’uomo, né con l’uno né con l’altra, dal momento che non aveva prove concrete in mano.
A sua volta Gabriele telefonò a Lavinia. Superando un doppio imbarazzo. Quello per lo strano comportamento del padre e quello per il lutto che l’aveva colpita.
Se non fosse stato per l’anomala vicenda, non avrebbe pensato certo né di sentirla né di partecipare al suo dolore. L’aveva vista sì e no due volte in vita sua. Le volte in cui aveva accompagnato il padre a trovare Bianca. La telefonata terminò con: «Comunque siano andate le cose vorrei che andassimo insieme da lui. Entrambi abbiamo diritto a una spiegazione. Ti prego di dirmi di sì». E di sì gli aveva detto Lavinia. Sì, sarebbe andata con lui in via Paolo Savi.

Gabriele suonò al cancello della casa con la torretta. Venne ad aprire Silvana.
«C’è mio padre?».
«Lo troverai in salotto» rispose l’anziana domestica «mi fa impazzire con quella canzone…», ma non fece in tempo a finire che le note e la voce di Claudio Villa arrivarono anche fuori dalla grande porta finestra che dava sul giardino: “Gira, rigira, biondina,/l’amore, la vita godere ci fa./Quando ti vedo, piccina,/il mio cuor sempre fa/Tic-tì, Tic-tà!”. Gabriele chiese a Lavinia di aspettarlo e da solo entrò nella stanza semibuia.
Romano se ne stava sprofondato in poltrona. Appena vide il figlio quasi lo investì: «Avrei voluto quella di Tajoli, ma la signorina di Musicaebasta mi ha voluto a tutti i costi vendere questa di Villa. Chissà poi perché. L’importante è sentirla, non trovi?».
«Papà, ti prego!» gli rispose Gabriele con insofferenza.
«Sentimi bene: sono vecchio, sono profondamente addolorato, ma non rimbecillito». Il Baschieri aveva tirato fuori il carattere con cui era conosciuto da tutti. Un carattere che incuteva timore. Che non ammetteva repliche.
Allora Gabriele, cambiando tono: «Qui fuori c’è Lavinia. È venuta con me». E uscì in giardino a chiamarla.
Quando Romano vide entrare la figlia di Bianca si alzò immediatamente dalla poltrona e le porse la mano. Poi guardando entrambi: «Non so perché siate venuti e in ogni caso non ho niente da dirvi». E nuovamente si sprofondò nella poltrona: «A te Lavinia sì… forse…, ma non adesso. Adesso no». Il figlio riconobbe l’uomo deciso di sempre.
«Senti, papà» riprese «non voglio infierire, ma ti rendi conto in che situazione ci hai messo tutti… e in che situazione ti sei messo con quei tuoi incontri con Felicita alla rete della scuola? Pensa alla nostra reputazione… ».
«La reputazione! Questa poi!».
«Ma papà, se sei sempre stato il primo a difendere le forme…».
Lavinia non ascoltava. Si guardava intorno. Ripensava che la madre aveva trascorso lì, in quella stanza, molto tempo. Si guardava intorno cercandone delle tracce. Guardava gli scaffali dei libri. Le pareti con i quadri. L’antiquato lettore Cd da cui proveniva – in modo ossessivo – la canzone. Ma era una ricerca vana. Nulla che le parlasse di lei. Poi osservò il vecchio Romano. Non sentiva quello che diceva al figlio. Il volume alto della canzone ne copriva le parole. O, forse, non lo voleva sentire. Sapeva che Gabriele cercava di difendere la sua reputazione e quella del padre. E il padre si ribellava. Del resto anche lei, dentro di sé, si ribellava. Anche Bianca, sua madre, si sarebbe ribellata. La reputazione!
Romano non le piaceva particolarmente. La divertiva, lo trovava ironico, ma nient’altro. Del resto aveva provato più volte un certo fastidio quando la madre la andava a trovare con un amico – come le diceva – e, nell’ultimo periodo, l’amico era sempre lo stesso: quel vecchio… Era certa però che tutto fosse solo un equivoco. Che mai Romano si sarebbe avvicinato alla sua bambina se non con intenzioni affettuose.
Ripensò alla Maionchi. Alla telefonata. Risentiva le parole della donna. Di quella donna che sapeva come ci si comporta in ogni occasione.
«Mi dispiace disturbarla, signora Florenzi, con quello che le è accaduto, ma devo segnalarle la presenza di un signore – un signore piuttosto noto – Romano Baschieri, che parla con Felicita alla recinzione della nostra scuola. Ormai da diversi giorni. Non intendo dire… ». Intendeva, eccome se intendeva, la stronza.
Lavinia non l’aveva lasciata finire: «Grazie del suo interessamento, ma sono perfettamente a conoscenza di tutto». E aveva riattaccato senza permetterle di aggiungere altro.

D’un tratto Romano pose fine ai discorsi col figlio e rivolgendosi a Lavinia: «Io credo di sapere perché tua madre sia morta. “Uscita di strada… colpito il guard-rail… nessun mancamento né veicolo che abbia provocato l’incidente…”. Questo si sa dai giornali e, del resto, è tutto confermato dalle perizie…
«Però… però penso – anzi, ne sono sicuro – che la vera causa sia stata la sua felicità. Era felice della tua bambina, di te, e… ho un certo pudore a dirlo… anche di me. Del resto era una donna piena di felicità.
«Roman, sto straripando!» mi diceva al telefono.
Le prime volte restavo ammutolito alla cornetta. Non capivo. Non sapevo che indistintamente s’immergeva in quella felicità o se la sentiva “straripare” dal cuore. Che se ne lasciava prendere a tal punto… a tal punto da distrarsi qualunque cosa stesse facendo…
«Mi chiedo se abbia fatto in tempo a rivedere quell’Aldo Garbarini! O forse non era per lei così importante… Spero, comunque, che tu mi possa perdonare. Per tutto. Anche per la canzone… Sai, l’ho cantata spesso a tua madre… poi a tua figlia… per via dei loro capelli chiari».
Lavinia pensò che finalmente aveva trovato qualcosa che le ricordasse la madre. Non i libri, né i quadri, neppure l’antiquato lettore Cd. Il suo sguardo, ora, si era posato sul vecchio. Sul vecchio che le parlava. Lui era la traccia più evidente del tempo trascorso da sua madre in quella stanza. Lo guardò in silenzio. Lo guardò per la prima volta con sentimento. Ecco, l’unica traccia, l’unico legame era lui. E, inconsapevolmente, la tenerezza per quella vecchiaia s’impossessò di lei.

Si era fatta l’ora di prendere Felicita a scuola.
Romano seguì con lo sguardo, dalla porta finestra, il figlio e la ragazza che si allontanavano in giardino. Poi, facendosi forza, chiamò: «Lavinia».
«Sì?».
«Puoi stare tranquilla. Non disturberò più la tua bambina».
La ragazza gli sorrise riconoscente mentre usciva dal cancello con Gabriele.

*** *** ***
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«Dove stiamo andando, mamma?» chiese Felicita.
«Da un mio amico».
«E dove abita?»
«Abita in una casa con una torre. Una piccola torre».
«Una torre come quella della “Bella addormentata”?».
«Un po’ più piccola, ma simile a quella…».
«E c’è anche la fata cattiva?».
«No, non c’è nessuna fata cattiva. C’è però un signore vecchio e buono».

Lavinia suonò al cancello. Silvana venne ad aprire.
«È in casa il signor Baschieri? Gli dica che c’è Lavinia Florenzi, la figlia di Bianca».
Ciabattante e felice al pensiero di quanto avrebbe raccontato il giorno successivo facendo la spesa nel rione, l’anziana domestica entrò nel salotto in penombra.
«La figlia di Bianca? Certo… certo… la faccia entrare».
«Oh, ecco Lavinia e Felicita!» esclamò Romano emozionato.
La bambina riconobbe immediatamente il signore della rete.
«La direttrice mi ha chiesto come ti chiami».
«Dille che mi chiamo Roman».
«Roman?» ripeté la piccola ridendo.
«O preferisci Romano?».
«No, no… Roman!».
«Anche la tua nonna lo preferiv… lo preferisce».
«Conosci la mia nonna?».
«Sì, molto bene».
«Allora quando torna da Parigi posso venire qui con lei?».
«Certo! Non vuoi andare a vedere il giardino, ora?».
«Sì».
«Aspetta: chiamo Silvana che t’accompagni».
«Grazie, sarei più tranquilla… » aggiunse Lavinia «e scusami se sono arrivata senza preavviso, ma… ».
«Non ti scusare, arrivi al momento giusto» riprese Romano. «Sai, sono reduce da un notte tremenda. Una notte con un sogno… uno di quei sogni come solo tua madre sapeva fare. Io non ho mai sognato in vita mia».
«I sogni di mia madre! Più che sogni direi dei film… che regolarmente voleva raccontare».
«Lo so. Lo so bene».
«Che mistero. È sempre stata un mistero mia madre. Me ne sono resa conto la prima volta leggendo una frase della Duras. Ero ancora una studentessa universitaria. La scrissi sul mio diario. Poi gliela spedii. Lei la incorniciò e la mise tra i suoi libri. Forse le corrispondeva. “Nell’esistenza di una persona la madre è in assoluto la persona più strana, imprevedibile, imprendibile che si incontra”.
«Mi fa un certo effetto dirlo proprio a te, ma sei l’unico, sai, con cui riesca a parlare di lei. E vorrei crederti, lo vorrei tanto… vorrei come te pensare che sia morta distratta dai suoi pensieri felici, al colmo della sua felicità!».
Si erano seduti, nel frattempo, al tavolo di legno scuro (chissà quante volte era stata sua madre a sedersi lì con lui…). Lavinia gli versò il tè. Senza saperlo, ripeteva i gesti di lei.
«La sua compagnia… quanta compagnia! E quando non c’era… partecipare alla sua vita… anche a distanza…». Romano dava voce ai suoi pensieri. Poi, d’improvviso: «Tu sai come si fa a tenere in vita qualcuno che non c’è più?
«Forse… ».
Ma il vecchio non le diede il tempo di continuare.
«Una persona che non c’è più resta viva se noi riusciamo a trasferire il nostro affetto su chi è stato oggetto del suo amore. L’ho capito questa notte. Solo questa notte. Per via del sogno. Un sogno lunghissimo… Forse un sogno rivelatore… Sapevo quanto Bianca amasse la tua bambina. Perché altrimenti sarei andato a trovare Felicita?».
Lavinia rimase in silenzio. Quel vecchio… non sapeva neppure lei spiegarsi come… ma iniziava a piacerle. La sua sofferenza glielo rendeva vicino. La loro sofferenza li univa. Ora sentiva suo dovere, per quanto possibile, prendere il posto della madre.
Del resto se era lì non era forse per lo stesso motivo del sogno del vecchio? Non era lui la persona su cui la madre aveva riversato – negli ultimi anni – il suo affetto?
Romano non aveva mai provato, in passato, grande simpatia per la ragazza. Troppo diversa da Bianca. Ma ora era in preda a una strana alchimia. Lui e Bianca. Bianca e Felicita. Lui e Felicita. Felicita e Lavinia. Lui e Lavinia. Per cui le chiese: «Spero che verrai altre volte a bere un tè da me. Che verrai con la tua bambina…».
Non c’era bisogno di risposte. Lavinia era già lì con lui.
Felicita rientrò in quell’istante dal giardino.
«Mamma, mamma, guarda che bei fiori» disse mostrandole il mazzolino.
Poi, rivolgendosi a Romano: «Silvana mi ha fatto vedere la vasca con i pesci rossi… ma io avevo già visto quella vasca… ».
«Certo! Con la tua nonna. Eri così piccola quella volta che venisti a mangiare qui con lei! L’hai scordato?».
La bambina non rispose. Ora anche lei si guardava intorno.
Allora Romano: «Vieni, biondina, cantiamo la nostra canzone. Vuoi?».
«Sììì!».
E senza Cd, senza Tajoli né Villa, carezzandole i capelli, col tono monotono della sua voce roca, il vecchio iniziò a cantare:
“Gira, rigira, biondina,
l’amore, la vita godere ci fa.
Quando ti vedo, piccina,
il mio cuor sempre fa
Tic-tì, Tic-tà!”.

Lucca, 14 aprile 2010

La foto di apertura è di Mariapia Frigerio

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