I fasti dell’agronomia all’apice dell’Islam
I grandi agronomi della storia. Lo studio delle opere arabe ci impone di considerare una biblioteca intera di autori che nella lingua dell'Islam scrissero dai Paesi che si affacciano sull'Oceano Indiano a quelli che si bagnano nell'Atlantico, tutti riassunti dallo scienziato Al Awwam, vissuto a Siviglia a metà del dodicesimo secolo, il quale di tutti enucleò le conquiste, di tutti seppe organizzare le cognizioni coordinandole a quelle ereditate dalla cultura greca e latina, compilando di fatto un trattato di agronomia degno di essere collocato a fianco del capolavoro latino di Columella
Dall’Oceano Indiano all’Atlantico
Tra gli interrogativi che seducono l’intelligenza umana non esiste, probabilmente, quesito più cogente e, insieme, più sfuggente della ragione del sorgere e del tramontare delle civiltà, del dislocarsi dell’epicentro del progresso tecnologico, economico e culturale da un punto all’altro del planisfero, del succedersi, nella vita di ogni popolo, di stagioni di splendore e di età di decadenza. Tra le grandi civiltà la cui parabola propone all’acume dello storico enigmi più ardui quella che con maggiore tenacia pare eludere ogni sforzo della ragione critica è quella dell’Islam, per una breve successione di secoli la più dinamica e pervasiva tra le fonti cui gli uomini hanno attinto convincimenti religiosi, consuetudini sociali, impulsi politici, poi, dopo quello iato tanto intenso quanto breve, matrice di un tradizionalismo tanto greve da assopire ogni impulso di progresso nell’immensa area conquistata nei secoli dell’irruenta espansione.
La constatazione che suggerisce la più sintetica considerazione della storia della civiltà trova la conferma più significativa nelle vicende delle scienze, che mostrano la straordinaria, ed effimera, fioritura di studi filosofici, fisici, medici e geografici che si realizza nei paesi conquistati dalla Mezzaluna nei tre secoli successivi alla predicazione di Maometto, quindi la loro decadenza. La conferma è ancora più inequivocabile se dagli orizzonti complessivi della conoscenza riduciamo il campo di osservazione all’ambito dell’agronomia, nel quale lo studio delle opere arabe ci impone di considerare una biblioteca intera di autori che nella lingua dell’Islam scrissero dai paesi che si affacciano sull’Oceano Indiano a quelli che si bagnano nell’Atlantico, tutti riassunti da uno scienziato vissuto a Siviglia a metà del Dodicesimo secolo, il quale di tutti enucleò le conquiste, di tutti seppe organizzare le cognizioni coordinandole a quelle ereditate dalla cultura greca e latina, che assolvendo a quell’impegno compilò un trattato di agronomia degno di essere collocato a fianco del capolavoro latino di Columella, di quelli dei maestri del sapere agronomico occidentale dei secoli successivi: una delle opere che, si dovessero compendiare le conquiste agronomiche del corso della civiltà scegliendo dieci volumi, vanterebbe tutti i titoli per esservi inclusa.
La conoscenza dei suoli fondamento della coltivazione
Il disegno del trattato, composto di tre parti divise in trentaquattro capitoli, ricalca il modello di Columella, la razionalità del cui paradigma espositivo del sapere agrario ne ha imposto l’adozione ad agronomi di età tra loro lontane. A quel modello lo scienziato arabo appone, peraltro, alcune modifiche significative, la più rilevante costituita dalla collocazione all’inizio dell’opera di un’organica trattazione di pedologia. La scelta è lucida e funzionale: la conoscenza del suolo costituisce la premessa di ogni precetto per coltivarvi ogni genere di pianta. Oltre alla scelta sono, tuttavia, le cognizioni ordinate da Al Awwam a fare del capitolo sul terreno dell’opera il primo compendio di pedologia della storia delle scienze agrarie.
Tutti gli agronomi classici, compreso il grande Columella, si erano limitati, infatti, a fornire sommarie classificazioni dei suoli fondate sul rilievo di pochi caratteri banali: superando i predecessori lo scienziato arabo insegna a distinguere le terre innanzitutto secondo le dimensioni delle particelle che le formano, finissime, fini o grossolane, in base, cioè, alla presenza, nella loro costituzione, di argilla, limo e sabbia. È il criterio di classificazione in base alla tessitura che costituisce, ancora oggi, il fondamento di ogni analisi dei suoli. Al Awwam lo compendia con osservazioni oltremodo pertinenti sul colore, che, se scuro, rivela un suolo che si scalderà facilmente, se chiaro un suolo più frigido.
Integrano, logicamente, nel secondo capitolo, le cognizioni sulla natura del suolo, i precetti per ripristinarne la fertilità consumata dalla coltivazione: costituisce, sul terreno della concimazione, peculiarità dell’agronomia araba, e ragione di sorpresa del lettore, la gamma vastissima delle “formule” di compost che Al Awwam insegna a elaborare per le specie diverse di vegetali. Lo scienziato ispanico prescrive di mescolare, secondo procedimenti che non mancano di qualche nota di stregoneria, sterco di bovini, di equini, di caprini e di volatili, feci e urina umane, ceneri e residui dell’orto e della casa, che dovranno essere rimescolati e irrorati quotidianamente di urina, fino a raggiungere la perfetta putrefazione: essiccati, quindi, potranno essere conservati per le necessità dell’orto e del frutteto.
Al capitolo sulla concimazione ne segue uno, altrettanto significativo, sull’irrigazione: la civiltà araba è nata nel deserto, dove le genti musulmane hanno appreso a sfruttare con intelligenza, nelle oasi, ogni risorsa idrica per ricavarne, tramite l’irrigazione, tutte le derrate che essa potesse alimentare. Quando quella civiltà si è dilatata sulle due sponde del Mediterraneo, su terre tutte segnata da un clima arido o semiarido, gli ingegneri arabi hanno compiuto prodigi per fare delle risorse idriche, scarse e irregolari, la fonte della più ricca produzione agricola. Riassumendo le cognizioni idrauliche maturate in cento esperienze a longitudini diverse, il dotto di Siviglia spiega come tracciare canali di primo e secondo ordine servendosi, nella determinazione del tracciato, degli speciali astrolabi costruiti per misurare le quote del suolo.
Sul piano agronomico costituiscono elemento di sommo interesse della precettistica irrigua i paragrafi che il dotto ispanico dedica all’uso delle acque salmastre, di impiego oltremodo difficile, siccome potenziali fattori di insterilimento del suolo, che gli arabi hanno appreso a usare razionalmente per non rinunciare ad una risorsa preziosa nonostante i rischi dell’impiego. Sul piano meccanico propongono un elemento precipuo di interesse, invece, le annotazioni di Al Awwam sulla costruzione della noria, il tipico congegno dei paesi islamici per trarre l’acqua dai pozzi e immetterla nei canali di irrigazione.
Banane e canna da zucchero
La parte più ampia del trattato arabo, la seconda, è dedicata alla coltivazione delle piante: tra tutte Al Awwam dedica lo spazio maggiore alle specie ortive e a quelle fruttifere, componenti essenziali del giardino mediterraneo, quell’area cinta da un muro, fornita di un ricovero e dotata di una fonte, in cui già il signore greco e latino si compiacevano di raccogliere la più vasta gamma di ortaggi, ai piedi del numero più ampio di peri, meli, viti, fichi di varietà diverse: già Omero esprimeva il compiacimento di Alcinoo per la ricchezza del giardino dell’isola di Scheria, quello di Odisseo per la dovizia del proprio orto di Itaca. Gli arabi hanno perfezionato e arricchito l’antico modello: all’apice dello splendore, quando la Mezzaluna sventola su tre continenti, gli agronomi musulmani possono scegliere le essenze con cui popolare il giardino signorile tra le piante coltivate dalla valle dell’Indo a quella dell’Eufrate, da quella del Nilo a quella del Guadalquivir. Le possibilità di scelta sono praticamente illimitate.
Alla combinazione di piante tratte da ambienti tanto lontani l’agronomia araba ha dedicato la cura più minuziosa, enucleando, sulla base di mille esperienze, una dottrina dell'”amicizia” e delle “avversioni” tra piante la cui illustrazione costituisce una delle parti più curiose del trattato. Tra le specie esotiche che Al Awwam insegna a coltivare nella propria patria spagnola occupano un posto speciale la canna da zucchero e il banano, due piante che in Andalusia trovano condizioni compatibili con le proprie esigenze, seppure non ideali, tanto da richiedere cure e precauzioni meticolose, che il dotto arabo, preoccupato che i principi dei califfati moreschi possano imbandire le mense con le stesse prelibatezze dei sultani di Ispahan o di Baghdad, illustra con cura.
Nel vasto catalogo delle specie arboree che lo scienziato di Siviglia insegna a coltivare non è senza sorpresa che reperiamo la vite, la pianta il cui prodotto, il vino, è severamente vietato, sappiamo, dalla legge del Profeta. Alla sua menzione siamo indotti a ritenere che la pianta sia coltivata, nella Spagna musulmana, per produrre uva passa: le ripetute prescrizioni dell’impiego, nella concimazione, di fecce delle vinificazione ci convincono, tuttavia, del contrario. La tipica pianta mediterranea, simbolo, in quanto matrice di una bevanda che è emblema di civiltà, della cultura greca, di quella latina e di quella cristiana, nella Spagna moresca ha conquistato l’invasore, che, assaggiato, dopo la spremitura, il frutto proibito, non ha più saputo esimersi dal suo consumo, che dobbiamo presumere fosse tanto comune da risultare lecito: l’inserimento di un prontuario di viticoltura in un libro che dovette godere di vasta diffusione non pare testimoniare una coltura clandestina.
Il corsiero, simbolo di ricchezza, arma invincibile
La terza parte del trattato è dedicata all’allevamento: dopo avere esaminato, in capitoli specifici, le regole per il razionale sfruttamento dei bovini, degli ovini, dei caprini e dei cammelli, lo scrittore ispanico affronta il tema dell’allevamento equino, cui dedica uno spazio proporzionale all’importanza economica, militare e culturale dell’animale nella civiltà della Mezzaluna. Il cavallo è stato il fondamento della potenza distruttrice delle orde che per duemila anni si sono riversate, periodicamente, dalle steppe siberiane e altaiche verso le terre in cui sono fiorite le grandi civiltà dell’Asia e dell’Europa: orde a cavallo hanno conquistato la Cina, l’India, la Persia, la Russia. A cavallo gli arabi si sono impadroniti, in un volgere brevissimo di decenni, dell’Africa settentrionale e della Spagna, arrestandosi solo dopo lo scontro con la cavalleria di un’altra nazione barbarica, quella dei Franchi.
A differenza, tuttavia, di mongoli e turchi, che disponevano delle mandrie equine che si moltiplicavano, quasi spontaneamente, nelle steppe asiatiche, gli arabi hanno dovuto nutrire e moltiplicare i loro cavalli in regioni aride, che non sono congeniali all’animale. Le difficoltà dell’allevamento hanno imposto di realizzarlo tra cure infinite, le cure che hanno affinato tra i signori dell’Islam la maestria selettiva da cui ha preso forma la razza equina di maggiore bellezza e resistenza tra quelle dislocate sull’intero planisfero degli animali allevati, la razza, appunto, del cavallo arabo.
Delle attenzioni dei principi musulmani per l’animale lo scrittore di Siviglia ci fornisce la prova più eloquente illustrando, in pagine seducenti, la conformazione ideale dell’animale usando i versi dei poeti che lo hanno esaltato. Compone, così, un florilegio poetico tanto ricco da imporci la percezione di quanto dovesse essere vasto, nella letteratura araba, il novero delle composizioni dedicate alla guerra e alla prima arma della potenza musulmana.
Esaurita, nella forma originalissima della citazione poetica, la trattazione zoognostica, Al Awam affronta i temi dell’addestramento e della cura delle malattie dell’animale. Ed è sui temi della veterinaria equina che l’opera del dotto arabo ci propone l’ultima delle ragioni di ammirazione: di più di una delle malattie che esamina illustra i sintomi, infatti, con proprietà tale che non potremmo spiegare senza supporre una tradizione medica, e veterinaria, sistematica e penetrante, dai caratteri dell’autentica tradizione sperimentale. Per misurarne la levatura è sufficiente, infatti, confrontare le pagine di patologia di Al Awwam con quelle del maggiore scrittore di agronomia del Medioevo cristiano, il bolognese Pietro de’ Crescenzi, che alle malattie del cavallo dedicherà pagine non meno minuziose affastellando osservazioni banali, rilievi insignificanti e cause immaginarie. Tanto la veterinaria araba si rivela frutto dell’esperienza, dell’esame anatomico, dell’analisi dei rapporti tra cause ed effetti, tanto quella delle università cristiane si mostrerà espressione di incapacità sperimentale, più elucubrazione magico-filosofica che conoscenza scientifica.
Ma tanto ci affascina la lettura delle pagine di diagnostica, tanto ci induce al sorriso, invece, quella delle prescrizioni terapeutiche che le accompagnano, fondate sulla somministrazione di misture di erbe e di animali disseccati e triturati, più di una tanto stravagante da apparirci inverosimile. Ma a soccorrere la medicina, a metà del Dodicesimo secolo, non esiste la chimica. Gli stessi dotti che conoscenze tanto penetranti stanno accumulando, nei centri della scienza araba, sulla sintomatologia delle malattie di uomini e animali, stanno realizzando conquiste singolari, si deve sottolineare, manipolando minerali e sostanze organiche con mortai e alambicchi: i preparati che ne ottengono sono ancora lontani, tuttavia, dal poter offrire una gamma di composti medicinali completa ed efficace. Il livello delle cognizioni mediche testimoniato dal capolavoro arabo, unito al rilievo delle conquiste dell’alchimia praticata negli stessi centri di cultura, non può non moltiplicare, a conclusione della lettura, la nostra meraviglia sull’eclissi di una tradizione scientifica che mete tanto ambiziose aveva raggiunto così rapidamente, sull’esiguità del contributo musulmano alla nascita della scienza moderna.
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