I paesaggi dell’ulivo
Identità, bellezza, custodia. Sono questi i tre capisaldi da tenere ben presenti. Il canto dell’ulivo è una polifonia che abbraccia i millenni della storia e fa dialogare singoli e popoli all’insegna dell’amore e della pace. L’olio è poesia dell’eterno
Era «gigante l’ulivo» in Liguria ancora cent’anni fa [1]. Fino ad allora, chi aveva abitato in quel «bel angolo di Liguria dove c’è al mare Alassio, Sanremo e Bordighera» era talmente «avvezzo alla fatica», come i Liguri di venti secoli addietro [2], da riuscire a costruire, «pietra su pietra», su un «terreno avaro che franerebbe a valle», «muri e terrazze e sulle terrazze gli olivi contorti» per «milioni di metri quadri di muro a secco», «per quindici per venti chilometri dal mare alla montagna», vincendo «contro la natura» una «battaglia ordinata» e sentendosi a casa propria «come un popolo antico nella sua cattedrale». Giovanni Boine, Porto Maurizio, 28 giugno 1911 [3].
Da sessant’anni, in Riviera, “gigante” è il cemento, specie delle seconde case. La memoria del passato, compresa quella del «terreno che franerebbe a valle», è stata cancellata dai fin troppo noti edilizi interessi, salvo a tornare di botto davanti alla terrazza/parcheggio rovinata sull’Intercity 660 Milano-Ventimiglia. Andora, Capo Rollo, 17 gennaio 2014 [4].
Leggere, come sempre, aiuta: «La febbre del cemento s’era impadronita della Riviera», dove prima «sopra gli orti s’infittiva l’oliveto», e quella che era stata un tempo «gente di campagna» ora era premuta dal «modo turistico di godere la vita, modo milanese e provvisorio, lì sulla stretta Aurelia stipata di macchine scappottate e roulottes, e loro in mezzo tutto il tempo, finti turisti, o congenitamente sgarbati dipendenti dell’industria alberghiera». Cos’era accaduto? Nel secondo dopoguerra «era venuta la democrazia, ossia l’andare ai bagni l’estate d’intere cittadinanze», le quali finivano immancabilmente per riprodurre, solo un po’ più in là, «gli stessi appartamenti negli stessi enormi isolati residenziali e la stessa vita automobilistico-urbana». Italo Calvino, La speculazione edilizia, 1957 [5].
Negli Scritti corsari Pier Paolo Pasolini aveva denunciato, nel 1975, la «dissociazione» tra lo «sviluppo dell’espansione economica e tecnologica borghese» ed il «progresso», che è «nozione ideale (sociale e politica)» di una nazione [6]. Purtroppo, la società e la politica italiane, miopi e distratte, non l’hanno ascoltato (l’avranno mai letto?): quanti esclusivi vantaggi discendono dall’ignorare una coscienza critica!
La verità, non sconfessabile, ma sistematicamente elusa, è che della terra noi (governanti e governati) siamo solo custodi, «amministratori, e non padroni» [7]. E allora, di fronte allo scempio e alla devastazione del paesaggio, siamo forse condannati al pessimismo e alla rassegnazione? No, lottare contro l’irresponsabilità e la rapacità degli uomini del nostro tempo, non solo è possibile, ma è interesse e dovere di tutti e di ognuno. Ne va della nostra dignità, del nostro futuro, della bellezza del nostro paesaggio.
Non si tratta di abbandonarsi al rimpianto, né di opporsi al cambiamento, ma di chiedersi se le trasformazioni apportate al territorio a partire dalla fine dell’Ottocento, in cui la Riviera si mostrava ancora al viaggiatore come un «immenso giardino» fatto di «poetiche vallette annegate nel verde degli ulivi e delle pinete» e di un «mare sempre azzurro e quieto come l’olio di queste colline» [8], «siano andate nel senso di una ulteriore aggiunta di bellezza» [9], come è avvenuto per le epoche passate, oppure no. Il criterio decisivo è la bellezza del paesaggio.
La nostra Liguria, che a Francesco Petrarca bambino «apparve non come una dimora terrena ma celeste», con «gli schienali dei colli rivestiti di cedri, di viti, d’olivi» [10], ha visto fiorire, ma anche svanire, sia la coltura dell’ulivo sia la cultura dell’olio. Camillo Sbarbaro la cantava nel 1922 «scarsa lingua di terra che orla il mare»: come lui, anche i più fortunati tra noi possono sentire la propria esistenza mescolata alla natura di lei, che ha «d’inverno/cieli teneri come a primavera», fino a sentirsi «trapassare di gioia». A questa sorta di estasi mistica non si arriva per via di strane alchimie: al poeta di Spotorno amante dei licheni bastava l’esperienza dell’odore/sapore del pane condito «dall’olivo lento» e insaporito dal basilico [11].
E l’olio dei nostri frantoi, garantiva Giovanni Boine, è «olio chiaro, olio dolcissimo, olio vellutato al palato; olio limpido, olio d’oro». È l’olio che si produce ancora, soprattutto in alta quota, nel paesaggio delle splendide colline imperiesi che ricordano, sia pure con andamento più mosso, il greco “Mare di ulivi” della piana di Amfissa, nei pressi di Delfi.
C’è chi si sta muovendo. Da qualche anno ha dato visibilità alla produzione dell’olio extra-vergine di oliva d’alta quota, il movimento culturale TreeDream, rappresentato ad Olio Officina Food Festival dal Presidente, Flavio Lenardon, e dall’Ing. Giuseppe Stagnitto, Segretario. Lo ha fatto in più direzioni: ricreando una coscienza comunitaria negli olivicoltori; inventando un simbolo che lega fortemente l’uomo e la natura; promuovendo il rispetto delle terre dell’ulivo d’alta quota e la conoscenza della cultura dell’olio [12].
Come imprenditori, poi, si sono mossi in modo alquanto originale, creando il marchio Taggialto, ceduto gratuitamente ai frantoiani locali che aderiscono ai principi ispiratori di TreeDream, e attivandosi concretamente perché la qualità di quest’olio sia riconosciuta sul piano economico. Tale «impresa con responsabilità politica» [13] ha tutti i titoli per essere stimata “intelligente” secondo la nota classificazione dei tipi umani sviluppata dall’economista Carlo Maria Cipolla, per cui “intelligente” è chi compie un’azione dalla quale ottiene un vantaggio per sé e nello stesso tempo lo procura ad altri [14].
Per esprimere in modo preciso questo concetto, la mente fervida dei fondatori di TreeDream ha partorito un neologismo: sinduzione. Il termine – formato dall’unione della preposizione greca syn (“con”, usata per il complemento di compagnia), ed il sostantivo latino ductio (“il condurre”) – intende designare un’attività imprenditoriale che si realizza mediante la sintesi originale di uomini, simboli e mezzi, allo scopo di restituire ad una comunità umana e ad un territorio la dignità e la prosperità che deriva dalla conduzione di fondi agricoli (altrimenti destinati all’abbandono) e dalla produzione e vendita dei prodotti specifici che ne derivano, come l’olio di olive taggiasche di alta quota.
Bene, dirà qualcuno, ma tutto si esaurisce all’interno della “piccola patria” ligure? In pieno accordo con la poliedrica filosofia sottesa alle iniziative di Olio Officina Food Festival che ci ospita, gli amici di Tree Dream amano dire che la verità sull’olio sta nel suo essere “altro” rispetto alla definizione, esatta ma asettica, contemplata dal dizionario: «sostanza liquida e untuosa che non si scioglie in acqua, di origine vegetale, animale o minerale, con caratteristiche e proprietà varie a seconda del tipo» [15].
L’olio spremuto dalle olive investe tutti i nostri sensi: è colore, è profumo, è sapore, è morbidezza, è rivolo silenzioso e pure tonfo sonoro. Ospite delle diverse culture che alimentano da secoli l’identità dell’Occidente. Chi ama l’olio abita da millenni nelle terre dei padri che lo storico Fernand Braudel ha chiamato «Mediterraneo dell’olivo» [16], spinge il suo sguardo nel tempo e nello spazio verso orizzonti popolati da altri, verso altre patrie, perché non può ignorare di essere spremuto per un verso da olive greche e romane e per l’altro da olive ebraiche e cristiane. Chi conosce e ama l’ulivo e l’olio respira pienamente grazie a questi due doppi polmoni. Il suo canto è una polifonia che abbraccia i millenni della storia e fa dialogare singoli e popoli all’insegna dell’amore e della pace. L’olio è poesia dell’eterno.
Mi permetto di evocare alcune suggestioni per chiarire un’affermazione che potrebbe sorprendere.
Al cantore cieco dell’Iliade chiediamo di sospendere per un attimo duelli e stragi e di incantarci con l’amore: già vediamo la dea Era che si prepara a sedurre Zeus grazie ad un’accurata toeletta, ungendo con olio profumato non solo il corpo, ma anche la veste, e spande fragranza ovunque, su cielo e terra. Da mercanti ateniesi impariamo che l’olio è nato da una joint-venture tra due “inventori” d’eccezione: Atena dell’ulivo, Aristeo del frantoio. Come appassionati di statistica ricaviamo dati utili per il marketing dal fatto che, dei 55 litri di olio consumati in un anno da un Greco adulto, 30 sono destinati all’igiene del corpo o ad usi sportivi, 20 all’alimentazione (ora per un energetico fast food per rematori a base di olio e farina, ora come condimento per l’arrosto di selvaggina); il resto serve da combustibile per lucerne, riti religiosi e medicamenti [17].
A Roma, Giulio Cesare è appena tornato dalla campagna d’Africa e già si vanta di aver conquistato un paese così grande che può fornire allo Stato tre milioni di litri d’olio all’anno, mentre Cicerone, smessi i panni dell’uomo pubblico, si dedica ai suoi studi passando le notti a leggere al lume di una lucerna ad olio, convinto com’è della necessità di una formazione filosofica per un politico credibile e attento al bene comune. Il poeta Orazio, fedele alla “giusta misura”, illustra a un avaro di sua conoscenza le regole di un decoroso savoir-vivre, invitandolo a servirsi di un olio migliore, sia per condire i cavoli che per profumarsi la testa. Il masterchef Apicio, padre della gastronomia, consiglia di impiegare l’olio di oliva in gran parte delle sue 468 ricette: per salse, polpette, insalate, carni, pesci e persino sulla frutta cotta! Più attento alle esigenze dello spirito è Seneca, che da filosofo stoico vede la Ragione presente nell’universo e dentro all’uomo, e dunque se la prende con i fissati della forma fisica, succubi, a suo dire, dei loro personal trainer occupati a ungersi d’olio, a bere e a sudare [18].
Sfogliamo le pagine della sapienza ebraica. Il patriarca Giacobbe versa dell’olio sulla pietra che gli è servita da cuscino, facendo voto di trasformarla in un tempio, perché in sogno ha visto angeli salire e scendere su una scala: ha capito che in quel luogo c’è Dio. Dal libro del Siracide impariamo che l’olio è fondamentale per la vita dell’uomo, insieme ad acqua, fuoco, ferro, sale, farina, latte, miele, vino e mantello. Assistiamo poi al rito dell’unzione con olio dei re d’Israele, che servirà in futuro a consacrare e legittimare sovrani e imperatori. I re di Israele devono la loro ricchezza anche ai magazzini colmi di grano, mosto e olio, ma il povero Giobbe, che tale ricchezza ha perduto, rimpiange i tempi felici in cui la lucerna (a olio) di Dio brillava sul suo capo. Nel tempio vediamo brillare la menorah, il candelabro a sette bracci alimentato da olio puro di olive schiacciate, e grazie all’olio risplende anche il nostro volto, come quello, benevolo, di Dio. Infine, come facciamo a non intenerirci davanti agli amanti del Cantico dei Cantici, avvolti dai profumi di un giardino paradisiaco al punto che l’amato in persona è oleum effusum, aroma che si effonde? [19]
L’olio della gioia promessa unge e consacra nei tempi nuovi anche il Christòs, l’Unto di Dio, l’invincibile Atleta, cosparso di unguento sui piedi, sul capo, e pure nella tomba. Unti d’olio, «cristi», cioè «immagine di Cristo», sono anche gli «atleti della fede», che lo imitano nella lotta corpo a corpo contro l’Avversario, usando l’olio delle opere buone, l’olio della misericordia e dell’amore disinteressato; olio che fonda la loro identità e decide della loro credibilità. E i «cibi di liquor d’ulivi», conditi con olio, che il benedettino Pier Damiani nel Paradiso dantesco dice di aver gustato nell’eremo di Camaldoli non sono forse gli antenati della dieta mediterranea? [20]
Chiudiamo questo viaggio con un’immagine, quella della lucerna a olio. Nessuno di noi certo la rimpiange, ma non è sorprendente il fatto che, prima di Edison e delle candele, tutte le culture che fondano la nostra identità hanno lasciato traccia sulle lucerne a olio? Un Greco accendeva una lucerna con l’immagine di Odisseo legato all’albero della nave per ascoltare il canto delle Sirene; su un esemplare romano si distingue la figura di un gladiatore; una lucerna ebraica reca il candelabro a sette bracci della menorah; su quella cristiana si riconosce il chrismon, il monogramma di Cristo «luce del mondo» [21].
Tutta questa ricchezza e bellezza di significati fa parte del nostro DNA! Di questo siamo eredi e nello stesso tempo responsabili: liguri, italiani, europei, uomini e donne d’Occidente, cittadini del mondo. Riconosciuta e accolta questa prospettiva identitaria, la coltura dell’ulivo e la cultura dell’olio ci indicano due strade: risvegliare a nuova vita l’uliveto ereditato e colpevolmente abbandonato, e scoprire, a fatica finita, vista odore sapore delle olive spremute al frantoio che gocciano la gioia di un olio extra vergine di oliva auto prodotto; oppure, da consumatori attivi, ricercare, con cura e senza tirchieria, un produttore di olio fidato, e godere quasi allo stesso modo di un sapore autentico.
Ha seguito la prima strada un giornalista e inviato di guerra americano, Mort Rosenblum: nel 1986 ha acquistato in Provenza una fattoria con duecento piante di ulivo in uno stato di completo abbandono battezzandola Wild Olives (‘ulivi selvatici’). Superato lo «stadio romantico» e adattandosi a un «duro lavoro», il reporter della Associated Press ha raccontato in un libro la storia della sua passione per quello che lui dice è simbolo di tutto ciò che nella vita è «sacro e felice», seguendone le tracce nei diversi paesi del Mediterraneo [22]. Ho fatto lo stesso anch’io con una sessantina di piante d’ulivo, patrimonio di famiglia, che curo nel tempo libero dal lavoro «in un bel angolo di Liguria dove c’è al mare Alassio».
I paesaggi dell’ulivo hanno bisogno di nuovi custodi. E di nuova bellezza.
E ANCORA: il video
BIBLIOGRAFIA
[1] V. CARDARELLI, Liguria, pubblicata per la prima volta sulla rivista romana “Fronte”, ottobre 1931, n. 2, quindi all’interno della prima edizione autonoma del canzoniere Giorni in piena, Roma 1934, e definitivamente in: Poesie, Roma 1936 (il passaggio del poeta in Liguria si colloca tra il 1914 e il 1916).
[2] VIRGILIO, Georgiche II 167-168: adsuetum malo Ligurem.
[3] G. BOINE, La crisi degli olivi in Liguria, in: “La Voce”, 6 luglio 1911; si legge ora in: G. BOINE, Il peccato. Plausi e botte. Frantumi. Altri scritti, a cura di D. Puccini, Milano 1983, pp. 395-414.
[4] È sconfortante apprendere che già nel 1872, anno di inaugurazione della linea ferroviaria dell’estremo Ponente ligure, il servizio sia stato sospeso da Albenga a Ventimiglia per il «costante maltempo», «a causa delle numerose frane ca-dute sulla tratta»; infatti, proprio nel tronco da Albenga ad Oneglia «si manifestano numerose frane», «e specialmente nella traversata di Capo Rollo, la ferrovia è molto esposta al mare e percorre un terreno accidentato e franoso» (F. DELL’AMICO – F. REBAGLIATI, I 120 anni della linea ferroviaria Savona-Ventimiglia 1872-1992, Dopolavoro Ferroviario di Savona, Pinerolo, Alzani, 1992, pp. 48; 54; 65).
[5] I. CALVINO, La speculazione edilizia, Torino 1963; l’opera vide la luce per la prima volta nel 1957 sulla rivista in-ternazionale “Botteghe Oscure”, e solo nel 1963 fu pubblicata in un volumetto a sé stante nella collana einaudiana de “I coralli” (n. 189).
[6] P.P. PASOLINI, Sviluppo e progresso, in: Scritti corsari, Milano 1975, pp. 175-178.
[7] Messaggio del Pontificio Consiglio della Pastorale per i Migranti e gli Itineranti in occasione della Giornata Mondiale del Turismo 2013, Città del Vaticano, 24 giugno 2013, in: QUI.
[8] A. ANNONI, Gita pedestre da Ventimiglia alla Spezia (1897), Lugano, Lumières Internationales, 2010, pp. 40 e 46.
[9] M. QUAINI, L’ombra del paesaggio. Orizzonti di un’utopia conviviale, Reggio Emilia, Diabasis, 2006, p. 175.
[10] F. PETRARCA, Lettere Familiari XIV 5,23-24 (trad. U. Dotti).
[11] C. SBARBARO, Scarsa lingua di terra che orla il mare, in: Poesie, Milano 1983.
[12] www.treedream.it.
[13] L. CARICATO, Un’impresa con “responsabilità politica”. Per salvare l’olivicoltura, in: www.olivomatto.it, 31 maggio 2013.
[14] C.M. CIPOLLA, Le leggi fondamentali della stupidità umana, in: Allegro ma non troppo, Bologna 1988, p. 57.
[15] De Mauro, Il dizionario della lingua italiana, Milano 2000, p. 1675.
[16] F. BRAUDEL, Civiltà e imperi del Mediterraneo nell’età di Filippo II, vol. I, Torino 1953.
[17] OMERO, Iliade, XIV 170-186; APOLLODORO, Biblioteca III 14,1; NONNO DI PANOPOLI, Dionisiache V 258-260; TUCIDIDE, La guerra del Peloponneso III 49; ARISTOFANE, Gli uccelli 523-538; F. ROSSI, Oro liquido sulle nostre tavo-le, in “Archeo” XXI (2005), n. 3, p. 92.
[18] PLUTARCO, Vita di Cesare 55,1; CICERONE, Lettere ad Attico II 17,1; ORAZIO, Satire II 3,108-128; APICIO, L’arte culinaria; SENECA, Lettere a Lucilio 15,1-3.
[19] Genesi 28,10-22; Siracide 39,25-27; Primo libro di Samuele 10,1 e 16,12-13; Primo libro dei Re 1,39-40; Secondo libro delle Cronache 32,27-28; Giobbe 29,2-6; Esodo 27,20-21; Salmo 104, 13-15; Numeri 6,24-26; Cantico dei cantici 1,3.
[20] Luca 7,36-50; Marco 14,3-9; 16,1; CIRILLO E GIOVANNI DI GERUSALEMME, Catechesi prebattesimali e mistagogiche. Catechesi mistagogica 3,1; ORIGENE, Esortazione al martirio 23; 25; TERTULLIANO, Ai martiri 3,3-4; Passione di Perpetua e Felicita 10,6-14; CLEMENTE ALESSANDRINO, Il Pedagogo II 62,3; ORIGENE, Omelie sul Levitico 13,2; ORIGENE-GEROLAMO, Omelie sui Salmi. Sul Salmo 127; GREGORIO MAGNO, Omelie sui Vangeli 20, 12-13; DANTE, Paradiso, XXI 113-117.
[21] www.spainisculture.com (lucerna con Ulisse); www.archeobologna.beniculturali.it (lucerna con gladiatore); www.livius.org (lucerna con menorah); www.commons.wikimedia.org (lucerna con chrismon).
[22] M. ROSENBLUM, Storia delle olive. Vita e tradizioni del frutto più nobile (1996), Roma 2007, pp. 5 e 23.
La foto di apertura è di Luigi Caricato
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