I russi di Putin: il trionfo dell’eugenetica di Stalin
Il popolo russo che le immagini di questi mesi di guerra ci hanno restituito non ha nulla a che vedere con gli usi e i costumi dipinti nell’immensa letteratura russa ottocentesca. Patrizi di grande valore e soldati animati da contadina determinazione che combatterono al tempo, non hanno lasciato nessuna eredità agli ufficiali di quella che fu l’Armata rossa, mentre una collettiva viltà è dilagata tra i soldati russi, privi di qualunque abilità ma solo bestiali torturatori
Tra le cento notizie quotidiane dell’infame avventura di Vladimir Putin in Ucraina una tra le più recenti, apparentemente di rilievo minore, ci ha informato della campagna, varata dal gerarca della Bielorussia, il tirannucolo che del despota russo vanta il titolo di lacché modello, per il reperimento e la distruzione delle ultime, immaginabili copie del capolavoro di Eric Arthur Blair, in arte George Orwell, dal titolo Nineteen Eighty-Four, (1984), una scelta assunta siccome lo scrittore inglese avrebbe proposto, in anticipo di 70 anni (un autentico profeta), il ritratto pressoché perfetto dell’attuale despota russo, evento, palesemente, assolutamente intollerabile, prova che la “russofobia” che pare dilagare nelle società dell’Occidente, costituirebbe la fase acuta di un morbo esiziale, da decenni in incubazione sulle due sponde dell’Atlantico, esploso, in fase acuta, quando il provvido autocrate delle Russie avrebbe deciso di ricongiungere i fratelli (minori) ucraini ai fratelli (maggiori) russi. Che i mezzi impiegati per attuare un’opzione di tanto benevola preveggenza potessero essere comparati a quelli usati, per ammaestrare i propri concittadini, dal Grande Fratello tratteggiato dall’autore inglese è apparsa, al suddito di Putin, circostanza esecrabile: perfettamente coerente, quindi, la decisione di scovare, nei solai del popolo bielorusso, fino all’ultima copia, se ancora ne esistesse una, del romanzo perverso, per arderlo, a esorcizzarne l’infausto potere, su qualche “piazza rossa”.
È noto che la prima, pressante, cura delle grandi guide dei popoli è stata, nei secoli, la felicità dei propri sottoposti, una felicità che avrebbe sempre dovuto corrispondere al primo, assoluto requisito del riconoscimento della paterna benevolenza con la quale il preveggente despota quella felicità elevavo a prima ragione del proprio operare. Purtroppo, però, tra i vizi umani l’ingratitudine vanta un primato difficilmente contrastabile, e la benevolenza dei despoti ha sempre dovuto confrontarsi con la dolorosa necessità di estirparne la mala erba eliminando chi ne risultasse, irreparabilmente, intossicato: l’arduo impegno che hanno accettato di affrontare, per la felicità dei sottoposti, tutti i grandi costruttori di società protese alla perfezione civile, tra i quali non è senza commozione che possono riconoscersi gli autentici giganti: Tiberio, Caligola, Maometto secondo, Gengis Khan, la serie completa dei grandi Mogul indiani, Robespierre, Hitler, Lenin, Mao, fino a giungere a Stalin, che eguagliando, o superando (ciascuno è libro di scegliere) il concorrente tedesco, ordinò agli studiosi al suo servizio di impiegare tutti gli strumenti della scienza (ove la scienza si rivelasse inadeguata ricorrendo alla pseudoscienza) per individuare i mezzi mediante i quali distinguere gli uomini (e le donne) geneticamente in grado di apprezzare l’immenso previlegio loro assicurato dall’appartenenza ad una società comunista e quelli che della percezione fossero incapaci, e dovessero, quindi, essere eliminati, perché non turbassero la felicità degli eletti. Tra i grandi protagonisti del glorioso impegno scientifico e morale, sullo scranno d’onore è d’obbligo collocare Trochym Denysovyč Lysenko, autentico vate dell’eugenetica staliniana, felicemente noto in Italia grazie ad un appassionato divulgatore, l’illustre professor Felice Lanza, che ne firmò la più autorevole traduzione, seppure fosse noto, urbi et orbi, che in russo non conoscesse che l’acuto aforisma karava ies ne miasso (la vacca non magia formaggio: mi scuso per la grafia, assolutamente approssimativa).
Perfettamente unanimi, i vati dell’eugenetica staliniana concordarono che l’ostacolo più dannoso al fruimento degli sconfinati vantaggi di vivere in una società collettivista fossero le pulsioni individuali che inducono le personalità ambiziose a sollevarsi al di sopra della medietà, il termine più proprio sarebbe, in realtà, mediocrità, che assicura ad un essere umano soddisfazione e riconoscenza per quanto un Piccolo Padre benevolo voglia concedergli. Prima tra tutte, tra le pulsioni nefaste, l’attrazione per la ricchezza, il cui seme era tragicamente visibile, in un’immensa nazione contadina, la cui assoluta maggioranza accettava, fatalmente, le secolari, abiette, condizioni della servitù della gleba, nella sparuta minoranza di intollerabili ambiziosi, che, per disporre di una coppia di cavalli più prestanti di quelli dei vicini, si affaticavano, giorno e notte, per condurre, estate o inverno, in troika, quattro anatre e un agnello ad un mercato urbano distante trecento verstze, e nascondevano, sotto una tavola del fienile, due monete d’oro in attesa del momento della grande speculazione. Siccome la prima delle classi sociali di cui l’antropologia di Karl Marx prescriveva l’eliminazione era costituita dall’aristocrazia (quella russa, verosimilmente, tra le più colte d’Europa), era stata rapidamente sterminata, non fu agevole, a Lenin e satelliti, identificare, nella sterminata plebe rurale, tutti i reprobi con propensioni all’accumulo di denaro (secondo il vocabolario leninista i kulaki, impiegando il lessico attuale, potenziali imprenditori), il gravoso compito che fu affidato ai più solerti tra i satelliti di Stalin, il più brillante, certamente, Nikita Kruscev, che nell’eliminazione dei kulaki dell’Ucraina si ricoprì di gloria (in ciò assurgendo a precursore dell’attuale kzar Putin), i cui successi tentò, invano, di imitare più di un collega, che, per avere risparmiato un contadino, sarebbe finto nei sotterranei della Lublianka, in una delle camere di tortura amministrate dal più feroce boia dell’intera storia umana, il rinnegato polacco Feliks Dzerzinskij, direttore della Cekà, l’uomo che, affaticato dalle torture diurne e notturne, un infarto avrebbe colpito prematuramente, lasciandogli il tempo di proclamare l’orgoglio di avere profuso, nella vita, tutte le forze, per identificare, ed eliminare, chi si fosse opposto al trionfo della più grande tra tutte le mete umane. All’apice del potere di Stalin l’organismo avrebbe mutato nome in Kgb: sostituito l’acronimo, non la mission, l’istituzione, organismo capitale del regime leninista, avrebbe conosciuto il più degno continuatore del rinnegato polacco in colui che, pure insignito di titoli più altisonanti, non manca, attualmente, di considerare l’organismo l’autentica pupilla dei propri occhi.
Ma, enunciati i propositi supremi dell’eugenetica di Jossip Vissarionovic Stalin, non si può mancare di riconoscere che i russi di cui ci ha proposto mille immagini l’attuale guerra di conquista di Putin attestano la piena, incondizionate realizzazione dei disegni del predecessore: i russi di cui assistiamo, con i mezzi di comunicazione attuali, alle gesta quotidiane, non hanno assolutamente nulla in comune, assolutamente nulla, con i russi di cui ci dipingono usi e costumi l’immensa letteratura russa ottocentesca e le testimonianze di cento viaggiatori, cronisti, diplomatici. Mille testi descrivono un popolo di uomini insieme esuberanti e cordiali, impulsivi e comprensivi. Valorosi e accorti in guerra: Michail Illarionovič Kutuzov, comandante imperiale contro Napoleone, è annoverato tra i grandi strateghi di tutti i tempi per non avere concesso a Napoleone la grande battaglia campale, costringendolo a prolungare la spedizione fino all’inverno che, prevedeva il generale, avrebbe annientato la Grande Armée segnando, irrevocabilmente, la fine del Corso. E, rileviamo, nella grande sfida Sua Signoria non fu solo, fu circondato da ufficiali patrizi di grande valore e da soldati animati da contadina determinazione. Le cronache, ormai, di tre mesi di guerra, attestano, invece, l’assoluta incapacità degli ufficiali di quella che fu l’Armata rossa, un’incapacità che ha stupito tutti gli osservatori militari del Pianeta, mentre i soldati hanno dimostrata l’unica autentica dote comune nella collettiva viltà, privi di qualunque abilità tattica: pessimi soldati ma furiosi stupratori, bestiali torturatori, saccheggiatori (quindi, insieme, ladri e assassini), pronti, come dimostra il primo processo celebrato, a Kiev, a un reo di crimini di guerra, a supplicare perdono, ignari, verosimilmente, in cosa consista il senso di colpa in un’entità umana dotata di autentico senso morale.
Siccome ho menzionato, tra le fonti cui ho ispirato questa pagina, i grandi narratori russi, reputo non possa mancare, tra i possibili lettori, chi obietti che le mie riflessioni non costituiscano che esercitazioni letterarie. Sono in grado, peraltro, di smentire la supposizione, smentirla avendo verificato, personalmente, l’assoluta corrispondenza tra i sentimenti della gente russa illustrati da Tolstoij, Dovstoewskyi e Gogol, e il costume russo nell’unica circostanza in cui alla vita russa ho partecipato nel clima caratteristico del villaggio nel cuore della steppa. L’occasione fu la visita ad un immenso kolchoz tra le rive del Caspio ed i primi contrafforti degli Urali, dove fui accompagnato dopo la visita ad una grande fiera agroalimentare, a Mosca, alla quale i collaboratori di Eltsin avevano invitato tutti gli affaristi operanti nello smaltimento delle eccedenze agricole della Cee, fonte essenziale degli approvvigionamenti alimentari dei ruderi dell’economia sovietica. La scelta della provincia che avrei visitato fu determinata dalla presenza, nella medesima, di una propaggine del gruppo Eni, impegnata, allora, in trattative per la realizzazione di grandi impianti per la trasformazione delle derrate: barbabietole, cereali, carni bovine e ovine.
Un kolchoz nel cuore della steppa, a oltre cento chilometri dalla città più vicina (o meno lontana), proponeva, con singolare (dopo mezzo secolo di stalinismo) comparabilità, la vita dell’antico villaggio delle anime di qualche grande signore. Fui ospite, a cena, del comitato direttivo, la copia (imperfetta ma attendibile) del gruppo di piccoli amministratori ai tempi di Tolstoij al servizio di un duca o di un conte che viveva a San Pietrogrado, al tempo della mia visita esecutori degli ordini dei remoti dirigenti agricoli di Mosca (tre ore di aereo di distanza). Avevo letto, nelle pagine di uno dei narratori che veneravo, che il rituale della cena, tra amici, all’osteria del villaggio, imponeva la più focosa discussione, con tutte le apparenze che l’alterco dovesse concludersi nello scontro fisico, prima del quale, levatisi in piedi, ai lati opposti della tavola, gli occhi fiammeggianti per l’ira, i contendenti si sarebbero fissati a lungo, muti, fino a quando, divenendo la tensione insostenibile, il più autorevole avrebbe versato un’intera bottiglia di vodka, e, sorseggiando, tutti si sarebbero abbandonati alle lacrime, per abbracciarsi e baciarsi, interrompendo abbracci e baci quando i bicchieri fossero, come prevedeva il rituale, rimasti vuoti. Nella cena in mio onore l’alterco si accese per il categorico rifiuto che opposi al proclama del Presidente che l’agricoltura collettivista fosse la formula produttiva più efficiente tra quante praticate sul Pianeta, tesi appassionatamente sostenuta dai collaboratori. La violenza del confronto fu proporzionale alle valenze del tema. Al rituale della cena di villaggio quella sera fu praticata, peraltro, data la mia estraneità nazionale, qualche variante: non si giunse alle lacrime e ai baci, ma la quantità di vodka versata rispettò fedelmente la tradizione, tanto che fui costretto a versarne, surrettiziamente, più di un bicchiere ai piedi della sedia, e a chiedere di uscire per una comprensibile necessità, soluzione esemplare, siccome, calate le tenebre, anche la temperatura era calata (eravamo a -25, l’ideale per smaltire la vodka di un kolchoz che produceva decine di migliaia di tonnellate di frumento, il migliore del quale è certo prendesse la strada dell’alambicco). E le strette di mano che conclusero la serata attestarono tutta la passione dei figli della steppa, ardenti di autentici sentimenti virili, che nell’ospite che sostiene il confronto più appassionato riconoscono un autentico amico (preciso che della chiarezza della disputa fummo debitori all’interprete assicuratomi dall’Eni, giovanissimo agente dei Servizi con una significativa esperienza all’Avana, il quale aveva tradotto la conoscenza del castillano in un eloquio italiano assolutamente perfetto).
Reputo assolutamente impossibile che una cena uguale potesse ripetersi con uno solo degli ufficiali, promossi per meriti di servilismo, o uno solo dei soldati, coraggiosi solo con donne indifese, pensionati disarmati, bambini convinti che tutti i “grandi” siano buoni: un secolo di leninismo ha prodotto la radicale mutazione di un popolo civile (seppure, in maggioranza, analfabeta) nella plebe di automi incapaci di qualunque sentimento che non sia dettato dalla tivù del Grande Fratello, una plebe opaca, ottusa, inerte. L’eugenetica di Stalin ha realizzato gli obiettivi che si proponeva, il lacché bielorusso del successore ha prevenuto, imponendo il rogo dell’ultima copia del 1984 di Orwell, che quelle pagine potessero indurre un dubbio, anche il più fugace, nel più innocuo dei propri sudditi. La constatazione impone quesiti tanto cogenti quanto di ardua risposta. Primo tra tutti, l’interrogativo su quali meccanismi abbiano operato, in un arco di tempo inferiore al secolo, la radicale metamorfosi di abitudini e convincimenti collettivi che costituivano il risultato di un’evoluzioni millenaria. Il regista della metamorfosi, Stalin, notoriamente propenso all’assassinio, non avrebbe avuto dubbi nel rispondere che la soppressione fisica dei renitenti avrebbe eliminato, nella popolazione, tutti i geni (propensioni, attitudini, o qualsiasi termine alternativo potesse essere impiegato per esprimere il concetto) che dell’insensibilità al fascino del comunismo fossero propagatori. Pare, peraltro, a chi scrive, verosimile che, pure nutrendo, nella propria, luminosa visione del mondo, il convincimento della priorità dell’assassinio nell’armamentario di un despota, quell’armamentario comprendesse anche il convincimento che il terrore, alimentato da cento e cento pubbliche esecuzioni sommarie, avrebbe diffuso, nella “sua” gente, la più viscerale prudenza, inducendo milioni di russi ad uniformarsi al costume imposto, nel terrore che la più banale espressione del desiderio di “differenziarsi” potesse costare qualche nottata nei sotterranei della Lublianka.
L’esecrazione di qualunque espressione di pensiero individuale ha determinato, autentica conseguenza aritmetica, la scomparsa di qualunque nome russo (salvo i casi, felicemente non infrequenti, di transfughi) dagli elenchi internazionali di scrittori, scienziati, giornalisti di fama, una scomparsa cui i vertici sovietici si sono impegnati a sopperire moltiplicando i campioni sportivi presenti nelle competizioni internazionali, un impegno cui i luogotenenti di Putin hanno dedicato, ricalcando, esattamente, le orme dei famuli di Hitler, il più operoso impegno, siccome la molteplicità dei titoli olimpionici può illudere i fruitori della tivu di regime di essere parte di una nazione di incomparabile prestigio internazionale, lo strumento più efficace per il radicamento di convincimenti che, nell’assoluta ignoranza della vitalità delle società democratiche in cento sfere diverse, rappresenta il più soporifero oppio per l’allucinazione collettiva.
Non si può, peraltro, concludere questa raccolta di rilievi sulla metamorfosi civile e culturale del popolo russo senza un paragrafo sulla sua radicata, fino all’avvento di Lenin e compari (o, a scelta, complici), fede cristiana, una fede che, leggendo il capolavoro di Dostoevskij, risulta essere stata mantenuta viva, in una lunga successione di secoli, soprattutto dai grandi cenobi monastici, quali appaiono nelle pagine del narratore russo autentico rifugio di un popolo che viveva in condizioni miserabili, alle quali cercava conforto nel periodico pellegrinaggio al monastero dove un abate considerato maestro di santità ascoltava, consolava, invitava ad affrontare, contando sulla misericordia divina, le crudezze dell’esistenza. Il clero secolare, il numero immenso dei pope, in pratica impiegati dello stato, non avrebbe praticato, a quanto risulta dalle pagine del grande narratore, un’eguale dedizione alle sofferenze contadine, né sarebbe stato ricambiato con devozione comparabile. La fede del popolo russo sarebbe sopravvissuta, in forme che dobbiamo immaginare eroiche, durante l’interminabile dominio staliniano. Distrutte le chiese, svendute le icone, bruciati i libri sacri, è difficile immaginare, a chi manchi di esperienze dirette, quali potessero essere i convincimenti, e le pratiche, per tradurre la propria fede in comportamenti quotidiani. Chi scrive ricorda l’autentico incanto, trovandosi, una domenica del febbraio 1992, a Stavropol, prendendo parte ad una messa: la chiesa gremita, due sacerdoti che, immersi nella folla, ai fedeli che chiedessero la confessione gettavano sul capo il lembo della grande stola che pendeva dalle loro spalle, creando, tra la folla, il rifugio segreto per l’amministrazione del sacramento. Fui pervaso dall’impressione della conservata vitalità della vita cristiana nel grande carcere del comunismo. Una percezione rafforzata dal numero dei fedeli in attesa attorno al pope che ascoltava, il capo coperto dalla stola, quanto riferisse il penitente: l’essenza della fede cristiana è, notoriamente, l’assioma che Cristo abbia affrontato la croce per assolverci dai nostri peccati, la verità contestata dai cento eretici da dozzina che celebrano la messa nelle chiese italiche.
Una prova tanto eloquente di fede cristiana stupì, sottolineo, un viaggiatore in possesso di una conoscenza reputo non comune della società francese, nella quale, due secoli dopo una rivoluzione che impiegò ogni mezzo per annientare il credo evangelico, pare veramente che, seppure quella nazione fosse stata riconosciuta, per lunghi secoli, la “primogenita” della Chiesa, la fede romana si sia inequivocabilmente dissolta, mentre un secolo, ormai, di leninismo, pareva non avere realizzato il medesimo obiettivo in Russia. Fu impressione prepotente, ma, riconosco, impressione dettata da una visione assolutamente inattesa, che chi le provava non poteva qualificare con alcun titolo diverso da quello impiegato nelle righe precedenti.
Singolarmente una sensazione significativamente simile avrei provato, venti anni più tardi, in occasione di una visita, a Bari, alla splendida basilica di San Nicola, un santo dell’Oriente greco tra i più amati dall’anima cristiana della Russia. La sorpresa, straordinaria, consistette nella vista, a lato dell’altare maggiore, di un secondo altare, di dimensioni equivalenti, che le autorità romane avevano disposto fosse realizzato per la celebrazione, in russo, del rito domenicale secondo i canoni ortodossi. Mi fu spiegato, dall’amico che mi accompagnava, che a quell’altare giungevano, su voli speciali, decine di giovani russi per unirsi in matrimonio sulla tomba del santo venerato. Il pope, di solida corporatura russa, era impegnato a ordinare i vasi di fiori. Uomo prestante, supposi avesse, secondo il codice ecclesiastico ortodosso, altrettanto fiorenti bambini biondi, che immaginai servissero la messa, qualche mattina, sull’altare romano, al confratello, di professione romana, di Papà. Ricordando la circostanza mi chiedo, con angoscia, quanti dei giovani sposi che avessero celebrato il giorno felice nel nome di un alfiere supremo dell’amore cristiano per i miserabili possano essere stati coscritti in uno dei corpi di invasione di un despota sanguinario, al comando di ufficiali i cui ordini comprendevano stupro, assassinio, latrocinio, e mi interrogo se, tra i mille disertori, o renitenti agli ordini dei comandanti di cui tutti gli organi di stampa hanno diffuso il profilo, vi sia stato chi, sapendo che l’opzione poteva costare la vita, si sia rivolto, supplice, al Santo davanti al cui sepolcro si era inginocchiato, in un giorno felice, in una cattedrale sulla costa del Mediterraneo.
In apertura, un’opera di Cesare Inzerillo [Palermo, 1971] esposta al Museo della follia, a Lucca; mostra a cura di Vittorio Sgarbi. Titolo dell’opera: “U. S. L. – Unione Calcistica Lucchese”, [E ci rivedevamo in quei pupazzi. / Come noi erano prigionieri, / come noi erano consumati, / e come noi rimangono solo divise e numeri”]; 2019, collezione privata; foto di Olio Officina©
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