Il bambino dalle mani con i buchi
Narrazioni. L’anno in cui fui più felice fu quello in cui fummo più poveri.
Mio padre, per alcune operazioni sbagliate, dovette dar fondo a tutti i nostri risparmi e vendere alcune proprietà. «Siamo in rovina!» continuava a ripetere aggirandosi funereo per la casa e, per quanto ciò non fosse vero (perché ancora avremmo avuto di che vivere comodamente), iniziò a rendere la nostra vita impossibile, come se realmente fossimo sul lastrico. Avevo otto anni
L’anno in cui fui più felice fu quello in cui fummo più poveri.
Mio padre, per alcune operazioni sbagliate, dovette dar fondo a tutti i nostri risparmi e vendere alcune proprietà. «Siamo in rovina!» continuava a ripetere aggirandosi funereo per la casa e, per quanto ciò non fosse vero (perché ancora avremmo avuto di che vivere comodamente), iniziò a rendere la nostra vita impossibile, come se realmente fossimo sul lastrico.
Fu a quel punto che mia madre prese la decisione. Dopo essersi rivolta a un legale, si fece assegnare una cifra mensile misera, ma sicura, riprese il suo lavoro di insegnante, disse a mio padre di andarsene.
Amavo molto mio padre e l’essere privato della sua presenza riempì la mia vita di solitudine. La grande casa, senza di lui, mi sembrava vuota e io mi muovevo tra le stanze irrequieto, aspettando che succedesse qualcosa che riportasse tutto a come era prima.
Avevo otto anni. Ero piccolo, ma avevo capito benissimo, già da tempo, che il matrimonio dei miei genitori era in crisi. Erano diversi, diversissimi e tanto mia madre era piena di voglia di vivere tanto mio padre era musone e scontento. Ma era mio padre e io ero un bambino sensibile e, per certi aspetti, romantico: non accettavo che quello che mi era stato narrato da entrambi come un matrimonio d’amore potesse finire così. E poi avevo l’egoismo dei figli: che importava se non andavano d’accordo? A me bastava che stessero insieme e che nella mia casa ci fossero due genitori.
Ma mia madre capì. Capì la mia tristezza e la mia solitudine. Capì che in qualche modo era stata lei la causa di tutto, lei che aveva voglia di vivere e che, per quel suo ostinato desiderio, aveva messo a repentaglio la mia felicità. Così lei, che non era mai stata particolarmente materna né con me né con mio fratello, presa solo dai suoi entusiasmi e dalle sue passioni, mi ricoprì di attenzioni e di affetto.
Avrei scoperto solo più tardi, e già uomo fatto, che chi ama la vita, chi ha entusiasmo te lo comunica.
Mi ricoprì d’affetto con una tenerezza incredibile e con quelli che lei chiamava i suoi giochini. Così, quando pranzavamo, lei accarezzava le mie mani di bambino, le mie mani grassocce con i buchini all’attaccatura delle dita. E in quei buchini, a fine pranzo, lei metteva, con un piccolissimo cucchiaino ricurvo che terminava con una pallina verde (ma dove trovava quegli oggetti così inutili?) la Nutella. E poi rideva. «Una goccia di Nutella per ogni buchino». Ai bambini tristi piace la Nutella. A me, in più, piaceva il fatto che fosse un nostro gioco.
Ora sono un uomo e le volte che la vado a trovare, lei mi offre il caffè che mi obbliga a bere in tazzina con piattino (quando io lo preferirei in certi boccali che ancora vedo nella vecchia credenza della cucina) e sempre con quel cucchiaino totalmente inutile (troppo piccolo per lo zucchero, troppo curvo per mescolarlo e con quella stupida pallina verde in cima al manico). Poi, non contenta, mi accarezza le mani. «Dove sono andati i miei buchini?» mi dice toccando le mie nocche che ora sporgono in evidenza. E io, con lo sguardo impietoso dei figli, mi accorgo che le sue belle mani hanno nocche più secche e sporgenti delle mie e il mio dito indagatore non tralascia di toccare e di contare le macchie brune che ora cospargono le sue.
Lucca, ottobre 2008
La foto di apertura (Le mani di mia madre) è di Mariapia Frigerio
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