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Il Decamerone e l’agricoltura sociale

Anche nella celebre opera di Giovanni Boccaccio si ricava una preziosa testimonianza dell’importante ruolo che riveste la vita rurale. Vi si narra la storia di Cimone e del suo ritardo mentale e del padre che lo manda a vivere in campagna. Sarà la la vita agreste e la passione amorosa verso Ifigenia a portalo alla guarigione.

Alfonso Pascale

Il Decamerone e l’agricoltura sociale

Nel Decamerone di Giovanni Boccaccio ci sono cento storie raccontate in dieci giornate da sette ragazze e tre giovanotti. Quando incomincia la quinta giornata, sotto la reggenza di Fiammetta, tocca a Panfilo raccontare la prima novella di quegli innamorati che, dopo terribili avventure e peripezie, hanno diritto al lieto fine.
È la storia di Cimone, figlio di Aristippo, un nobile di antica discendenza che viveva nell’isola di Cipro. Cimone fa sfigurare tutti i suoi coetanei per la sua bellezza statuaria e il suo fisico atletico. Ma ha un ritardo mentale che pare irrecuperabile. Il suo vero nome era Galeso mentre il nomignolo affibbiatogli per scherno, Cimone, nella lingua di Cipro suona più o meno come “bestione” da noi.

Il padre viveva la condizione del figlio come una penosissima spina nel fianco. E perduta ogni speranza, ordinò al figlio di andare a vivere in campagna coi loro contadini. Cimone fece i suoi soliti saltoni di gioia perché si trovava tanto più a suo agio fra la gente semplice che non coi damerini di città.
Cimone si trasferì dunque nella tenuta di famiglia e incominciò a vivere come un vero agricoltore, finché un giorno, poco dopo mezzogiorno, andando di podere in podere con il suo bastone in spalla, entrò in un boschetto considerato il più bello dei paraggi, tutto fronzuto perché era il mese di maggio; camminava e camminava e la sorte stava dirigendo i suoi passi verso un prato circondato da altissimi alberi, con una bellissima sorgente d’acqua tutta fresca e briosa: lì vicino, distesa sull’erba verde, vide una bellissima ragazza con addosso un vestito tanto trasparente che non nascondeva quasi niente della sua pelle candida, solo dalla vita in giù era coperta da un plaid bianchissimo e leggero, e ai suoi piedi c’erano due donne e un uomo che stavano dormendo anche loro, verosimilmente dei valletti.

Cimone rimase sbalordito e, immobile sul suo bastone, prese ad osservarla da capo a piedi in un’estasi di silente ammirazione. E sbocciò in lui un pensiero come un lampo che gradualmente s’arroventa: lui, sì, proprio lui si trovava di fronte a lei, la cosa più bella mai vista da essere vivente. Cominciò a passare in rassegna ogni singola parte del suo corpo, decantando fra sé e sé i capelli, certo d’oro, la fronte, il naso e la bocca, la gola e le braccia e soprattutto i seni, piccoli e puntuti, e trasformandosi improvvisamente da ortolano in giudice di bellezza, adesso ambiva solo di vedere gli occhi, chiusi dal peso di un sonno profondo, e per vederglieli era tentato di svegliarla.

Passò un bel po’ di tempo prima che Ifigenia, così si chiamava la ragazza, si svegliasse, ma quando sollevò la testa e aprì gli occhi e si vide davanti Cimone imbambolato sul suo bastone, impietrì per lo stupore e, mentre gli altri tre continuavano a dormire, disse: “Cimone, che diavolo stai cercando in questo bosco a quest’ora?”
Cimone non riuscì a rispondere e rimase abbagliato dalla luce degli occhi di Ifigenia. Una luce che ora gli permetteva di inanellare in un baleno intuizione con pensiero e cause con effetti. Comprese che per ottenere l’amore della ragazza doveva cambiare il proprio atteggiamento e assumere modi più gentili. La vita in campagna lo aveva già aiutato parecchio a sgrossarsi. Aggiunse l’apprendimento del canto e della musica e riprese con più dedizione l’arte dell’equitazione.

Trascorsero ancora quattro anni e venne il tempo delle nozze di Efigenia. Il padre Cipseo l’aveva promessa in sposa a Pasimunda, giovane nobiluomo di Rodi, e non aveva voluto venir meno alla sua parola, nonostante le insistenze di Cimone. Il quale raccolse un gruppo di amici, fece equipaggiare in segreto una nave e attese la fregata che doveva trasportare Efigenia a Rodi dal futuro marito. Quel momento arrivò e Cimone rapì la promessa sposa. Ma una violenta tempesta trasformò la sua gioia in una cupa disperazione. Efigenia piangeva a dirotto e malediceva l’amore di Cimone e la sua dannatissima temerarietà. Affermava che erano stati gli dei a scatenare quel finimondo, perché quel mortale, che voleva prenderla in sposa opponendosi ai loro decreti, non vedesse esaudito il suo tracotante desiderio e fosse invece costretto ad assistere alla morte della moglie mancata per poi andare incontro a sua volta a una morte umiliante. La tempesta alla fine si placò e la nave di Cimone ed Efigenia si arenò sull’isola di Rodi. Furono dunque presi e condotti nel villaggio.

Non appena Lisimaco, che quell’anno ricopriva la carica di magistrato supremo dell’isola, arrivò da Rodi alla testa di una schiera di soldati, Cimone e tutto il suo equipaggio furono portati in prigione, come aveva ordinato Pasimunda, il quale, informato sull’accaduto, aveva fatto valere i propri diritti davanti al senato di Rodi.
E così Cimone, innamorato sventurato, perse la sua Efigenia, guadagnata da poco, senza averla mai potuta baciare neppure una volta; Efigenia invece fu accolta in casa di alcune nobildonne di Rodi, che le offrirono la loro ospitalità fino al giorno fissato per le nozze.

Malgrado Pasimunda volesse vedere Cimone impiccato, i giudici gli salvarono la vita e lo condannarono all’ergastolo. E chiuso in un carcere, Cimone scontava la sua pena. Ma ancora una volta la fortuna passò dalla sua parte.
Pasimunda aveva un fratello più giovane di nome Ormisda, che più volte era stato sul punto di sposare Cassandra, una bella ragazza della nobiltà cittadina, di cui l’alto magistrato Lisimaco era perdutamente innamorato, ma per una serie di contrattempi il matrimonio veniva continuamente rimandato.
Pasimunda propose al fratello di stabilire la stessa giornata per il loro matrimonio. E Ormisda accettò. Quando lo venne a sapere, Lisimaco rimase sconvolto e pensò di organizzare il rapimento della ragazza che lui amava e di chiedere aiuto nell’impresa a Cimone. Il quale fu lieto di aderire al progetto.

Quando arrivò il giorno delle nozze, la cerimonia fu celebrata al culmine dello sfarzo. Lisimaco e Cimone entrarono all’improvviso nella sala del banchetto e rapirono le due spose. I due spasimanti e le due ragazze rapite ripararono a Creta con una nave preparata di nascosto e furono accolti da una banda cittadina seguita da amici e parenti. Immediatamente furono celebrate le nozze e finalmente Cimone poté unirsi ad Ifigenia e Lisimaco a Cassandra.

A Cipro e a Rodi, non appena si seppe della cosa, scoppiò un putiferio e ci volle molto tempo prima che le acque si calmassero. Ma dopo un certo periodo di esilio, Cimone fece ritorno a Cipro con Ifigenia e Lisimaco a Rodi con Cassandra e tutti vissero lunghi anni in letizia.

Fu certo l’amore per Ifigenia a guarire Cimone dal suo ritardo mentale e a renderlo capace di esprimere tanta forza di volontà. Ma la vita in campagna lo aveva preparato a fare i conti con la “virtù” e con la “fortuna”, ovvero le risorse individuali e la capacità di cogliere l’attimo giusto. Probabilmente, se fosse vissuto in città non avrebbe mai avuto occasione di incontrare la ragazza addormentata in mezzo a un bosco coperta solo da un velo trasparente. E la passione non sarebbe mai divampata. In ogni caso, Cimone ringraziò sempre il padre di averlo mandato a vivere dai loro contadini. Uno stile di vita ordinato e semplice che lo aveva predisposto a dare il meglio di sé non appena si fosse presentata l’occasione per mostrarlo.

Una siffatta interpretazione della novella boccaccesca non cozza con la vulgata comune: quella che intravede nell’evoluzione di Cimone il passaggio dal sistema di valori aristocratico-cortese a quello borghese-mercantile. Una transizione accompagnata dall’agricoltura che permane con il suo fondo di sociabilità e permette di apprendere e crescere in qualsiasi stadio evolutivo delle comunità umane.

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