Saperi

Il dialogo di mio padre con gli ulivi

È un dialogo fatto di parole pensate più mute del silenzio, ma parlanti più d’ogni parola. Di questi alberi ultracentenari, d'una sacralità indicibile, mio padre ne avvertiva le voci, una per ogni albero, poiché ciascun albero aveva una sua storia da raccontare. Anche perché ciascun olivo è come una persona con un corpo in movimento e le braccia protese verso il cielo. Ma ora che ne sarà di loro? È difficile che i figli dei contadini continuino la vita dei padri. Una volta diventati studenti, scelgono di non stare più sulla dura terra dei padri

Nicola Pice

Il dialogo di mio padre con gli ulivi

Via Megra, la via “lunga” che dalle Murge scende sino al mare. Una via segnata da antichi insediamenti, con scarpate e pianori che degradano lentamente verso la marina. Una via colorata di sole e cantata da mille cicale sugli ulivi che come un mare lucente scendono giù fino alle prime case del paese.

Alberi ultracentenari d‘una sacralità indicibile come un inno alla maestà del tempo, tutti allineati, dalle foglie strette e lanceolate, glauche e argentee nei loro colori mutanti a seconda dell’ora del giorno.

Alberi dai tronchi nodosi e dalle forme ricurve diverse per come il vento li ha modellati o per come la crescita ne ha allargato le chiome. Un verde smisurato con felicità di sole e di azzurro, pur se assetato di sudore, qui e là frammezzato dal mandorlo pronto ad ammantarsi al sorgere della primavera del suo bianco-rosaceo destinato a profumare le olive.

Sono ulivi che di notte mormorano e raccontano la storia del nostro paese e di giorno ondeggiano per le brezze mattutine o trasudano alle vampate del favonio.

Ogni albero segnato dal fluire inesorabile del tempo è come persona e figura vivente, come un corpo in movimento con le braccia protese verso il cielo.

Ogni albero porta incisa una storia di fatica serena, vissuta con grande dignità dai figli di una terra arsa, sempre disposti a dare la forza instancabile delle loro braccia e delle loro gambe. Una forza, questa, richiesta anche a mio padre, al padre di mio padre e al padre di mia madre: essi non videro mai morire un ulivo. La loro campagna aveva i solchi ben allineati e diritti, dovuti al loro sfiancarsi di lavoro da sole a sole, ardimentosi di stampare nel terreno l’orma dei propri piedi come a processione di fede.

Per noi ragazzini che prendevamo parte ai lavori di campagna per far festa, non certo per dare un aiuto, Megra era una sorta di paradiso terrestre, perché agli ulivi e ai mandorli si aggiungevano i ciliegi, il noce gigantesco, il filare dei noccioli a ridosso del terreno del vicino, i peri, i fichi d’ogni colore dal verde al rossiccio sino al bluastro-violaceo, i melograni, i percochi dall’intenso sapore e profumo, i pergolati d’uva, l’uva sacra e l’uva barbarossa, i cui tralci carichi di foglie oscillavano al primo refolo di vento. Quella campagna era per noi una sorta di eden rigoglioso che ci disponeva a navigare senza confini sulle ali del sogno. I nostri occhi erano ripuliti dalla brezza che spirava lungo quegli alberi, potati alcuni a candelabro, fioriti altri a colonne doriche, tutti piantati dalle mani dure di nostro padre e dal padre di nostra madre, mani squadrate dal sole ed abituate a prendersi cura di essi che sembravano sfidare il cielo tra i cirri e i cumuli di vento e il coro impazzito delle cicale canterine.

Tutto in bell’ordine – potatura, piegatura, legatura dei rami – in quella terra che era un immenso deposito di fatiche e conservava l’eco melodiosa di accette, segacci, forbici, coltelli usati per i diversi tempi di lavoro in campagna. Ma a Megra potevi scoprire il dialogo di mio padre con gli ulivi: a volte un dialogo fatto di parole pensate più mute del silenzio, ma parlanti più d’ogni parola, a volte un dialogo fatto di parole pronunciate e di risposte che sembravano accennate dal lieve ondulare delle ramaglie pendule. Di questi alberi mio padre ne avvertiva le voci, una per ogni albero, poiché ciascun albero aveva una sua storia da raccontare: quello maestoso, quello sdraiato, quello ferito, quello inarcato, quello dalle molte balze. Ogni albero, con i suoi muscoli, le sue braccia, le sue spalle, i suoi nervi, gli sembrava volergli dire qualcosa. Si avviava un dialogo che attivava un miscuglio emotivo e suscitava un non so che di religiosità sentita e partecipata. In fondo scaturiva dal vedere in quegli alberi un paradigma della famiglia. In quella vigna e tre quadre di terra si facevano innumerevoli sacrifici, ma poi le lucenti ramaglie cariche

di drupe verdi e viola che pendevano dai filari riuscivano ad assicurare il sostentamento della famiglia. Ed era una festa a novembre vedere tutti in cerchio intorno ad un fuoco con fette di pane abbrustolito e olive arrostite nella cenere, un sorso d’acqua bevuto alla gavetta e subito tutti pronti al lavoro: uomini con teli e scale, donne con le sportelle, un coro di voci che si mischiavano in una aria luminosa e pungente. Un lavoro instancabile sino al tramonto prima del ritorno a casa col traino carico del suo doppio filare di sacchi pieni. Come a troneggiare in mezzo alla campagna si stagliava il più gigantesco degli ulivi: quell’albero, bruciato dal sole e scavato dal vento, all’occhio di mio padre, allenato a computare gli anni della pianta in rapporto all’altezza e alle forme e nervature del tronco, appariva il più vecchio. Il suo tronco sinuoso, prima di affondare nella terra, si arcuava a guisa di riparo da offrire a chi ad esso si accostasse, ancor più a mio padre che era solito abbracciare il tronco o con la mano accarezzargli la corteccia. E mio padre gli parlava.

Gli offriva un riparo, gli donava una sorta di riposo dalle fatiche, lo riportava al tepore di casa. E sentiva il battito del suo cuore di legno e gli pareva di udirne la voce mormorante tra le fessure del suo tronco. Si sedeva su una sporgenza di quella cavità e, reclinando la sua schiena all’interno del tronco, volgeva il suo sguardo nella distesa del campo. Confusi pensieri si insinuavano nel suo animo, mentre un sole alto in cielo si prendeva gioco delle ombre di noi ragazzini che festosamente ci rincorrevamo lungo il piano della campagna.

Come appoggiato nel ventre di quell’ulivo, quasi rannicchiato in esso, mio padre – un uomo forte dallo sguardo fiero, nero nei capelli nonostante l’avanzare degli anni – gli domandava: “Ti ho dissodato il terreno d’intorno, ti ho spesso accarezzato la corteccia, con l’accetta ti ho ricamato la chioma per farti respirare la luce del giorno ed estirpato i polloni che ti negavano l’aria, ti ho fatto respirare con la zappa le tue radici, tolto dalle spalle il legno sterile, sgomberato il terreno da essenze infestanti; ho letto sulle tue foglie malate e trovato la via giusta per la cura e il necessario trattamento. Quale sorte ti toccherà, quando verrà meno la forza delle mie braccia? È difficile che i figli dei contadini continuino la vita dei padri: una volta diventati studenti, scelgono di non stare più sulla dura terra dei padri. Dimmi allora chi ti sarà compagno dopo di me, chi non permetterà il tuo inselvatichimento”.

In un tumulto d’amore poneva queste domande, mentre con i suoi occhi vedeva le rughe di quel gigante. E l’albero, come a levare nenie di vento crescenti fra i suoi rami, sembrava rispondergli: “Io sono un albero che veglia sull’uomo, sono la sua vita. Sono l’archetipo della pace, della vittoria, della saggezza, della forza: non aver cura di me, sarà come non aver cura di sé, sarà come precludersi ai valori fondanti della vita. Io avrò sempre bisogno di chi si prenda cura di me e mi coltivi e mi porti con sé nel proprio cuore. Spunta da me, se coltivato, l’umano; ma se sono lasciato all’incuria, spunterà il

bestiale e con esso l’annientamento di sé. Io porto nel mio seno l’ingentilimento civile, non la selvatichezza. Chi si sforzerà di sentirsi un albero d’ulivo, non si sentirà mai solo, sentirà sempre di avere accanto la luce e il cielo. E saprà mettere riparo al degrado dei valori e al tempo che si nutre di violenza, corruzione e disumanità”.

Un delirio amoroso (o un dolore lancinante?) di un albero e di un padre contadino, mentre noi continuavamo a cercare le “viole” verde smeraldo che si posavano sulle more dei rovi sopra i muretti a secco dalle cui fenditure guizzavano di tanto in tanto spavalde lucertole, a legarle per una zampina ad un filo di spago e librarle in aria sì che volassero come foglie di prato con le ali dischiuse.

Immagini e voci s’affogano nel ricordo di memorie mai smarrite. Oggi, che scopriamo il bisogno di tornare ad essere figli di madre terra. Oggi, che sugli ulivi si abbatte una coltre di fitta nebbia e i loro occhi ci appaiono stanchi ed appannati, come malati d’una malattia che sa di abbandono. Oggi, che contorti e bruciati raccontano la loro malinconia, mentre grava d’intorno l’eco sorda delle ruspe gialle e scopri ancor più la voglia di tornare ad ascoltarli, a leggere il dolore sulle loro foglie.

Questo testo è inserito in un catalogo sulle sculture lignee dell’artista Gioacchino D’Elia, pubblicato di recente. In apertura, foto di Olio Officina

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