Saperi

Il dono

Narrazioni. Anziché contare le pecore nella speranza di prendere sonno, iniziai un elenco. Feci della mia mente una specie di lavagna, di quelle dove una riga verticale divide i buoni dai cattivi. Solo che io inserii nei buoni gli scrittori di cuore. Nei cattivi quelli di testa

Mariapia Frigerio

Il dono

Fu tutta colpa dell’insonnia. Altrimenti sono sicuro che non sarebbe successo. Di certo non a me.
È vero che lavoro nel mondo dello spettacolo, ma non per questo devo essere gay. Semplicemente do alle donne il giusto peso. Non ne sono ossessionato.
Prima c’è il mio lavoro, poi la letteratura, infine lo sport. Questo l’ordine dei miei interessi.
Da ultimo – e solo da ultimo – ci sono loro, “l’altra metà del cielo”.
Tutto per colpa della sera in cui mi ripromisi di andare a dormire presto. Erano comunque le 23.30, ma per uno del mio ambiente, dove non esistono orari e la notte si confonde col giorno, era decisamente un’ora insolita.
Avevamo finito le ultime riprese del film e io avevo preso quella decisione dopo aver sentito al telefono mia madre.
Ossessiva come tutte le madri.
«Sei sicuro di dormire abbastanza?».
«Sì, sì».
«Guarda che è importante per stare bene. Almeno sette ore per notte… otto sarebbe meglio… ».
«Certo… » avevo quasi grugnito. Che insopportabile rompiballe.
«L’ultima volta ti ho trovato un po’ sciupato… Peccato, sei un così bel ragazzo».
«Senti, non faccio l’attore e nessuno mi ha ancora richiesto per un calendario». Non volevo infierire ulteriormente. Tralasciai così di dirle che non ero un ragazzo, ma un uomo. Fu un pensiero di riguardo per lei che, come madre di un quarantenne, non poteva più essere tanto giovane. E, come per molte donne, l’età era il suo punto debole.

Quella sera, alle 23 e 30 in punto, mi misi così a letto. Ovviamente con un libro. Mi ero arreso, alla fine, alla lettura della Barbery.
Andai però avanti di poco nell’Eleganza del riccio. Poi spensi la luce.
«Ora dormo» mi dissi contento, tutto sommato, di fare felice mia madre. Nella mia giovinezza non le avevo risparmiato diversi grattacapi. Mi sembrava così di ricompensarla della sua pazienza.
Da quando sono nato ogni volta che tocco il letto mi addormento e, poche o tante ore che dorma, mi alzo sempre con grande fatica.
Ma non quella notte. Quella notte scoprii l’arcano mondo dell’insonnia.
Avevo le finestre aperte per il caldo. Solo le persiane socchiuse.
Era luglio. I riflessi delle fronde degli alberi di place Goudeau sui lampioni facevano, attraverso l’apertura delle imposte, strani giochi di luce. Nella stanza si alternavano flash di chiarore a oscurità immediata.
Mi misi a contarle, queste alternanze, e a cercare di capire se ci fosse un ritmo regolare o no. Ben presto mi distrassi dal mio intento.
Accesi la luce del comodino con l’intenzione di riprendere a leggere, ma l’unica cosa che riuscii a fare fu di andare in bagno a pisser.
Mi sdraiai di nuovo. Stanchezza tanta, ma di sonno neanche l’ombra.
Allora infilai il dvd di Rashomon, ma neppure Kurosawa riuscì a distrarmi. Conoscevo a memoria il film, inquadratura per inquadratura. Lo trovavo fenomenale. Niente. Quella sera niente: né il film né il mio amato Toshiro Mifune riuscirono a prendermi.
Provai allora con la musica. Volevo qualcosa di inebriante. Misi nel lettore cd La passione secondo Matteo. Alle note sublimi di Bach mi sarei sicuramente addormentato. Invece niente. Niente di niente.
Scoprii così che la prima caratteristica dell’insonnia è quella di lasciarti sveglio senza capacità di agire.
Nelle ore in cui non dormi per l’insonnia scordati di leggere, di scrivere, di usare quel tempo morto per qualcosa di utile. Il tempo dell’insonnia è un tempo, di per sé, totalmente inutile.
Fu così che mi ricordai quanto era stato consigliato da un vecchio medico ad un malato non in grado di leggere e infastidito da qualunque suono o rumore: «Faccia il riassunto della sua vita».
Non mi restava che quest’ultima possibilità. Avrei tentato anch’io col riassunto.
Non avevo tenuto conto, da inesperto qual ero, che un’altra caratteristica dell’insonnia è di darti, delle cose, solo la visione negativa. Figuriamoci poi se uno si mette a riesaminare la propria vita. In quelle ore di veglia forzata non hai possibilità di scampo: la tua vita fa in ogni caso schifo. Senza possibilità di appello.
Guardai l’orologio. Mi prese la disperazione. Era solo l’una. L’una di notte. Sarei mai riuscito ad arrivare alle 6,30?
A quell’ora se non altro avrei attraversato la piazzetta e mi sarei infilato, come spesso mi succedeva, al Timhotel Montmartre.
Ero uno strano habitué. Da quando avevo fatto un sopralluogo per un film, tutti alla réception mi avevano preso in simpatia. Poi sapevano che abitavo di fronte. Così, in quel grazioso alberghetto, avevo potuto riprendere l’abitudine italiana che più mi mancava da quando vivevo a Parigi. Quella di fare la prima colazione – che per me da italiano doc consiste in un semplice caffè – leggendo i giornali acquistati da quelli del turno di mattina.
Ritornai al riassunto.
Infanzia: prima puntata del dramma.
I miei genitori. Due brave persone, viste da un quarantenne. Ma che sofferenza vivere – nell’infanzia, nell’adolescenza, nella giovinezza – in uno stato di perenne mediocrità. Mentre la diversità e l’altrove sono quello a cui maggiormente ambisci.
In casa nostra esistevano solo orari (mio padre). Prediche (mia madre). Paura che mi potesse succedere una disgrazia (entrambi).
Eppure… eppure c’era stato nella mia vita qualcosa di… Insomma anche in quel periodo così difficile possibile non trovare niente di positivo? Mi rigirai nel letto frugando nella memoria…
Ma certo! I nonni.
I nonni avevano avuto un ruolo fondamentale nella mia formazione. I miei nonni… Tutto l’opposto dei miei genitori. Niente orari, niente prediche, fiducia che ogni mia azione fosse guidata dalla buona sorte. Così, quando ero da loro, avevo quel senso di libertà che era inimmaginabile stando coi miei.
Poi la loro sana follia… Mi chiedo come mia madre, così meticolosa e precisa, sia potuta venire fuori da quei due pazzi.
Pazzi per modo di dire, visto che hanno rappresentato un punto di riferimento imprescindibile per me.
Ecco, ripensare a loro poteva essere un riassunto piacevole. Così mi ci buttai con tutta la forza dei miei ricordi. Nella speranza, alla fine, di addormentarmi…
Nell’unione dei miei genitori non avevo mai visto ombra di amore. Solo ruoli. In quella dei miei nonni, invece, non c’erano ruoli ma solo amore.
Quell’amore che io percepivo concretamente non solo quando ero bambino, ma anche da ragazzo e da uomo. Credo che si amino ancora oggi che navigano verso i novanta. Anzi, ne sono sicuro. Ma dove si trovano due coniugi che condividano la stessa vasca da bagno? Che quando telefoni la domenica mattina ti rispondano allegri. Sempre.
«Ciao, nonna, come stai?»
«Bene, bene… è che adesso… »
«Adesso ti disturbo?»
«No… » e ride.
«Ma dove sei?»
«Sto facendo il bagno… »
«Allora scusami e salutami il nonno»
«Ma il nonno è qui con me… »
«In bagno?»
La sento parlottare. Poi li sento ridere. Entrambi.
Mi viene un dubbio. Domando: «Non sarete per caso nella vasca insieme?»
«Eh, sì… » risponde fingendo imbarazzo.
I miei nonni! In loro vedevo quell’amore che non ho mai sentito tra i miei genitori. I miei genitori: marito e moglie. E come tali io li ho sempre visti. Ma quanto all’amore…
Mi misi a ripercorrere, come in un film, la volta in cui mia madre entrò in camera mia e io (avrò avuto una decina d’anni) senza mezzi termini l’avevo investita: «Un mio amico mi ha detto che i bambini nascono mettendo il cazzo nella fica». Pausa. Neanche il tempo per farle inventare una balla perbenista al riguardo e: «Ma io so che non è così, altrimenti i nonni non l’avrebbero mai fatto».
Ripensandoci oggi dovevo averla traumatizzata. Soprattutto per la brutalità della forma. Ma io stesso ne ero traumatizzato. E non dalla forma.
Con la mia ultima affermazione avevo sicuramente levato mia madre da un imbarazzo per lei insostenibile e, nel frattempo, messo a fuoco le persone importanti per me. Che erano indiscutibilmente i nonni.
Ritornai sull’argomento più in là con gli anni (tredici? quattordici?). Ormai sapevo che il mio amico aveva ragione. Lo dissi a mia madre che, prevedibilmente, tirò fuori tutti i discorsi del caso. Mi ronzano ancora – peggio di zanzare – le sue parole: animali, amore, naturale…
Tagliai corto e nella mia ingenuità: «Allora i nonni lo hanno fatto cinque volte». Cinque, visto che oltre a mia madre avevo due zii e due zie. Non mi passò neppure per l’anticamera del cervello che i miei… l’avessero fatto una sola volta!
Riguardai l’ora. Le 2.30. Neppure il pensiero dei nonni nella mia vita giovanile riuscì più a distrarmi. Certo ne avrei avuti ancora di ricordi, ma, di nuovo, quello stato di totale inedia – fino ad ora sconosciuto – si impadronì di me.
Mi alzai. Andai in cucina a bere. Avevo scordato di mettere l’acqua in fresco. Mi toccò bere un liquido quasi tiepido. Disgustoso. Poi mi infilai nuovamente nel letto. Lo sguardo andò al comodino e, di conseguenza, All’eleganza del riccio.
L’avrei finito prima o poi, ma non era il libro per me.
Libro di gusto, piacevole, ma con quell’insopportabile vezzo delle donne di dimostrare a qualunque costo di essere colte. Senza rendersi conto che l’ostentazione della cultura uccide la buona letteratura e riporta la donna a uno stato di inferiorità. Quello di voler dimostrare per essere. Perché se veramente si è non lo si deve dimostrare a nessuno (merde! iniziavo anch’io a filosofeggiare come quella rompicoglioni della Barbery?)
Avevo scoperto così la terza prerogativa dell’insonnia. Rendere insofferenti. E io lo stavo diventando non solo con l’autrice dell’Eleganza del riccio, ma con tutte le scrittrici che usavano la testa e non il cuore.
Così, anziché contare le pecore nella speranza di prendere sonno, iniziai un elenco. Feci della mia mente una specie di lavagna, di quelle dove una riga verticale divide i buoni dai cattivi. Solo che io inserii nei buoni gli scrittori di cuore. Nei cattivi quelli di testa.
Nei cattivi misi subito la Barbery con la sua fasulla lotta di classe (la portinaia autodidatta che sa tutto di tutto: insopportabile), poi la Nothomb che si rispecchia nelle sue mises cretine e scrive dei libri impeccabili per stile, ma dove manca assolutamente quel sentimento che ti prende la pancia. Che ti prende le viscere.
Azzardai. Nell’elenco dei cattivi misi pure la Yourcenar. Scrittrice eccezionale, ma… ma… che imbriglia tutto nel pensiero. Avrei da ridire anche su «Memorie di Adriano» (di cui salverei senza ombra di dubbio lo splendido incipit).
Per caso avevo messo nell’elenco dei cattivi solo donne. No, non era nelle mie intenzioni. Trovo le donne eccezionali. Imbattibili poi sul lavoro.
Rividi subito l’elenco con aggiornamenti rapidi a loro favore. Nell’elenco dei buoni misi così la Lessing, la Spark (che con la Barbery ha in comune solo il nome, Muriel), la Chevalier. Poi la Ginzurg e la Morante. E ancora la Grandes… Sarebbe bastato per quest’ultima “La buona figlia” per farne una scrittrice di cuore.
Inglesi, americane, italiane, spagnole.
Nell’elenco dei buoni continuavano a mancare nomi di scrittrici francesi. Restavo dell’idea che, al di là della bravura, mancassero di sentimento.
Lo stesso non valeva per gli uomini. I francesi ti prendono sì la pancia, eccome. Céline, Hugo, Simenon, Gary, Radiguet. Già, chi lo ricorda Il ballo del conte d’Orgel ?
Per non parlare dei russi… Continuai con l’elenco prendendo a caso nomi in qua e in là senza il minimo impegno nel cercare un ordine logico.
Riguardai l’ora: le 3.30.
Non ce la facevo più. Stanco morto senza riuscire a dormire. Ma cosa mi era successo?
Ripensai all’incipit di Memorie di Adriano. E immediato fu il ricordo del mio professore di liceo, Paolo Nuti. Il Nuti ci faceva divertire. Era colto, estroso, fuori dalla norma. Ed era fissato sull’importanza – in un’opera di narrativa – dell’incipit e dell’explicit. Dell’inizio e della fine.
Mi misi allora, con pazienza minuziosa, a rovistare nei meandri della mia memoria… Mi sarei potuto alzare e ricercare con Google o, in modo più antiquato, riguardare nei miei libri, ma la prima prerogativa dell’insonnia si fece risentire. E io, ubbidiente, fui incapace di agire.
Nel buio della stanza, illuminato a intermittenze piuttosto regolari da flash di luce provenienti attraverso la fessura delle imposte semiaperte, con gli occhi spalancati fissi al soffitto stilai una graduatoria di bellezza. Da un lato gli incipit, dall’altro gli explicit da me preferiti.
Erano molti. Arrivai, attraverso una selezione severa, ai due vincenti.
« … Ecco, finché lei è qui, tutto va ancora bene: mi avvicino e la guardo ogni momento; ma domani la porteranno via, e come farò a rimaner solo?… ». Divino l’inizio della Mite di Dostoevskij.
«Da quel giorno, ebbe termine il romanzo tra me e mio marito; l’antico sentimento divenne un prezioso, irrevocabile ricordo, mentre un nuovo sentimento d’amore per i figli e per il padre dei miei figli dava principio a una seconda, sebbene ormai diversissima, felicità di vita, che ancora non ho finito di sperimentare nel momento in cui scrivo… ».
Che cosa li rendeva così belli ai miei occhi? Di sicuro il fatto che entrambi fossero stati dettati dal cuore e non dalla testa.
Pensai se il finale della Felicità domestica potesse in qualche modo corrispondere all’animo di mia nonna ovvero se anche lei avesse tramutato, a un certo punto della sua vita, l’amore per mio nonno in quello per il padre dei suoi figli.
Il mio pensiero fu subito smentito dal ricordo della recente telefonata… dalla confessione della vasca in comune… Con mia grande gioia dovetti riconoscere che c’era un amore che aveva resistito al tempo e che prescindeva dai figli. E, anche se fosse stato l’unico, sarei stato comunque felice di averlo conosciuto.
Iniziavo veramente a dare i numeri. Erano le 4.30 e io ero sveglio più che mai. Avrei avuto bisogno di una voce che miracolosamente mi addormentasse… come… come nell’explicit del Ballo del conte d’Orgel: «E adesso dormite, Mahaut! Lo voglio».
In quel momento esatto, in quella mia notte interminabile, quel finale batteva perfino quello di Tolstoi.

Alle 7 del mattino – a cui ero arrivato non so come (una lunga doccia, una barba fatta con un’accuratezza maniacale) – uscii per entrare al Timhotel.
Trovai Karin alla réception. Estremamente educata come sempre. Nel suo italiano quasi perfetto mi chiese: «Prende il solito caffè, André?».
A francesizzare il mio nome non aveva comunque rinunciato.
«Sì, grazie».
«Le porto subito anche i giornali. Ma cos’ha? Le vedo un’aria così affaticata…».
«Notte insonne. Prima volta in vita mia».
«Molto sgradevole, immagino. Mi spiace».
Era appena arrivato il caffè che mi suonò il cellulare.
Agnèse Blisset, con la sua voce garbata, si scusò: «So che non è l’ora. Mi perdoni, Andrea».
La invitai a continuare assicurandole che non c’erano problemi.
Agnèse Blisset… l’unica che non francesizzava il mio nome. L’unica che, inconsapevolmente, rispettava la scelta di mia madre.
«Mi sembrava importante dirle che ieri ho trovato tra le mie cartelline una che è sua. Ma me ne sono accorta che era già mezzanotte e non ho osato disturbarla. Poi questa mattina mi sono detta che magari era importante per lei averla o, se non altro, non pensare che fosse andata perduta».
Ripensai alla sera precedente e al fatto che proprio a mezzanotte era iniziata la mia lotta contro l’insonnia. Magari avessi ricevuto la sua telefonata! L’avrei raggiunta ovunque. Avremmo bevuto qualcosa insieme…
«Davvero gentile, Agnèse. Mi dica dove posso recuperarla».
«Vado finalmente in piscina, ora che è finito il film, ma entro le 12 sarò fuori».
«E dove… ».
«Già, dimenticavo. Vicino al Museo Rodin. Se vuole…».
«Benissimo ai giardini: l’aspetterò lì. Lei faccia con calma. Poi mangiamo un boccone insieme».

La vidi arrivare col suo zaino da piscina e una borsa a mano.
Non era bella o, per lo meno, non particolarmente bella. Nulla che desse nell’occhio. Capelli castani, occhi pure, altezza media. Mi veniva incontro, sulla panchina dove nella sua attesa mi ero messo a leggere, nei suoi leggins viola, con camicia di pizzo bianco, ciabattine infradito, cappello di paglia con nastro lilla. Notai una grazia particolare nel muoversi. Ripensai che per tutto il tempo in cui avevamo lavorato insieme sul set non l’avevo mai guardata con occhi da uomo. Forse per questo suo essere sempre sottotono.
Quando mi fu vicina mi sorrise. Mi accorsi che aveva dei bellissimi denti.
«Buongiorno, Andrea». Sorrise di nuovo. Poi aggiunse: «Mi sono permessa di fare dei sandwich anche per lei. Spero di non aver sbagliato».
«Sbagliato? Mi sembra un’ottima idea. Anzi, la ringrazio».
«Sa, mi piace molto dopo aver nuotato stare qui al fresco. Una vecchia abitudine. Trovo faticoso in estate sedermi in un ristorante… ».
«Ha proprio ragione».
«La sera è diverso. Ma vediamo… ». E dalla borsa levò un sacchetto. «Insalata, pomodoro e tonno… prosciutto e formaggio e questi… ». Estrasse un altro piccolo involucro. «Uova sode e fagiolini verdi».
«Che meraviglia» dissi effettivamente sorpreso.
Prese poi la bottiglia dell’acqua e si scusò di non avere portato della frutta.
«Ma potremo sostituirla con un gelato. Qui vicino ne fanno di buonissimi» aggiunse.
Fu più forte di me chiederle: «Nessuno a casa che l’aspetta, ora che non lavora?».
Capì subito cosa intendevo dire.
«No, vivo sola dopo il divorzio da mio marito».
Di nuovo azzardai: «Figli?».
«Non ne posso avere».
Che imbarazzo! E tutto per la mia curiosità. Ebbi un attimo di smarrimento… cosa le avrei potuto dire? Non riuscivo a trovare una sola frase che non mi sembrasse banale.
Forse Agnèse aveva capito il mio stato, tanto che subito mi tranquillizzò: «Ho quelli di mia sorella a cui sono molto legata. Così sento meno la mancanza di non averne di miei».
Pensai che per una donna dovesse essere un grande dolore sapere di non essere in grado di avere figli. A volte ci può essere l’età, ma non era il suo caso. Una trentenne o poco più è nel periodo giusto. Altre volte può essere una scelta. Ma neppure questo era il suo caso. Altrimenti non si sarebbe legata a quelli della sorella.
Mi chiesi – mentalmente questa volta – se la fine del suo matrimonio non fosse stata causata proprio dall’impossibilità di avere dei figli.
Noi uomini non siamo troppo teneri in certi casi. Una donna è donna al cento per cento solo se fa figli.
Mi ricordai di un episodio sgradevole, ma sintomatico.
Ero alle prime armi nel mondo del cinema quando sentii dire, con tutta la volgarità del caso, da un addetto ai suoni ai suoi amici: «L’ho detto alla Sonia: “Oh che donna sei? Non devi proprio essere bona a far figlioli se dopo tutto questo tempo che si tromba non sei ancora pregna!”.
Pensai allora e ripenso oggi: maledetto toscano.
Parlammo poi del film appena concluso e dei progetti futuri.
La pregai di darmi del tu.
E col tu fu lei a voler sapere di me.
No, non ero sposato perché banalmente non ne avevo mai sentito il bisogno. Non avevo necessità di una donna fissa come non avevo quella di avere figli. Mi sentivo autosufficiente. Mi bastava il mio lavoro. E le mie passioni.
Poi mi sembrò di essermi raccontato abbastanza (e in parte ne ebbi paura: non amo le confidenze e trovo fondamentale il riserbo) e per riportare nel discorso un tono più lieve le narrai della notte d’insonnia.
So di essere un grande affabulatore, ma non usai questa mia dote con secondi fini. Solo nella speranza di distrarla. Dopo averla sentita dire: «Non ne posso avere» mi ero accorto che i suoi occhi mancavano di allegria.
Poi quel «non ne posso avere» mi martellava nella testa.
Le raccontai del “riassunto”, delle mie classifiche, dei libri scritti col cuore e di quelli scritti con la testa, degl’incipit e degli explicit. Poi del mio eccezionale professore. Non le dissi nulla del Ballo del conte d’Orgel. Mi sembrava un’opera desueta e non volevo fare la parte del colto a tutti i costi.
La vidi ridere al mio aforisma: “Gli uomini colti sono noiosi, le donne colte sono saccenti, gli omosessuali colti sono brillanti”. Come donna aveva – ovviamente – con loro un rapporto privilegiato. Sperai che le fossero stati vicini nei suoi momenti bui.
Mi disse che amava molto leggere. Ma senza ordine e fuori dalle mode letterarie.
«Evviva» pensai.
Andammo a mangiare il gelato.
Subito dopo riaprì la borsa: «La tua cartellina. Non vorrei dimenticarmela».
La ringraziai. Quindi ci lasciammo.
Tornai verso casa. Continuando a pensare a lei.
Dovetti confessare a me stesso che avrei voluto prolungare il tempo del nostro incontro. Ma forse a causa della notte insonne ero un po’ stordito e non fui pronto a proporle nulla per la sera.
Dopo una rapida cena, a un’ora svizzera più che parigina, mi misi a letto. Ero stanco morto e, soprattutto, volevo mettermi alla prova. Sapere se era stato un caso o se anche io – come molti – ero affetto da insonnia.
Avevo appena preso in mano il libro – abitudine imprescindibile per me – quando suonò il cellulare.
Ebbi un moto di insofferenza. Sempre qualcuno che si intrometteva nei miei programmi… nei miei programmi di sonno.
Guardai sul display. Nessun nome. Solo un numero sconosciuto.
«Hallo!» dissi con un tono che non lasciava ombra di dubbio sul fatto che mi avessero disturbato.
«Andrea, sono io, Agnése, capisco che ti disturbo, ma… ».
Mi sentii stranamente felice.
«Ma non disturbi affatto. Mi fa piacere sentirti… molto piacere». Provai rabbia di non riuscire a dire altro.
«Sono proprio sbadata. Devo averti dato insieme alla tua cartellina anche una mia. Non è urgente. Mi basta sapere di non averla perduta. E comunque è celeste».
«Esco dal letto e vado subito a vedere» le risposi lasciando il cellulare sul comodino. Sullo scrittoio sotto alla mia verde trovai la sua.
«C’è, c’è… e se non è urgente te la ridarei domani se vuoi venire a cena da me. Sono un discreto cuoco».
«Ma io ti ho levato dal letto! Dopo la tua notte in bianco sarai distrutto. Allora lascia che ti dica: «E adesso dormite, Andrea! Lo voglio» e per la cena va benissimo. Mi dirai domani mattina l’ora e l’indirizzo».
Non potei aggiungere niente – né la sorpresa che conoscesse Il ballo del conte d’Orgel né la gioia per averla la sera successiva a cena – perché lei immediatamente attaccò.
So solo che non feci neppure il gesto di riprendere il libro perché mi addormentai immediatamente.

La sera successiva venne. Cenammo, ascoltammo della musica, l’accarezzai, ci baciammo, facemmo l’amore.
Non ricordo di un piacere fisico particolare. Ricordo però il suo.
Ero riuscito a farle un dono. Mi sentii meno egoista. Provai un piacere ancora più importante di quello fisico.
Dopo, sdraiato accanto a lei, la guardai dormire. Una tenerezza per quella donna m’invase. Non era bella, ma mi sembrava serena. Ero felice che fosse serena. Sperai di essere io il motivo della sua serenità.
Non era bella…
“Adesso che ci penso trovo che era molto bella. Tutto dipende da come uno pensa a qualcuno”. Dove l’avevo letto? Non ci dovetti pensare più di tanto.
Lasciai Agnése un attimo sola. Il tempo di andare a ritrovare La vita davanti a sé.
Di sicuro quando Gary aveva scritto quella frase – e tutto il libro – aveva usato il cuore e non la testa.

Fiumetto, 14 luglio 2011

Nella foto di apertura, di Mariapia Frigerio, uno scorcio di Parigi, place Goudeau

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