Saperi

Il primo maggio 2020

Quello di quest'anno sia una giornata di riflessione per elaborare un grande progetto di adattamento della società all’era “covidica”. L’elemento connettivo tra la fase dell’emergenza e quella della ripartenza in sicurezza dovrà essere un nuovo modo di concepire il lavoro e la produttività. Tutto quello che può essere “remotizzabile” va “remotizzato”

Alfonso Pascale

Il primo maggio 2020

D’ora in poi, la parola d’ordine dovrà essere “adattamento”. Ma per progettare l’adattamento all’era “covidica”, bisognerà connettere strettamente la fase dell’emergenza con quella della ripartenza. In realtà, al di là delle polemiche sulla sfilza di prescrizioni e restrizioni dell’ultimo decreto Conte, nessuna riflessione pubblica è davvero iniziata su come ripartire.

La fase 2 deve significare una ripresa graduale delle attività in condizioni di sicurezza. Sottolineo “in condizioni di sicurezza”. E non solo in riferimento a chi sarà coinvolto nella ripresa delle attività, ma dell’insieme della società. Coloro che vengono «liberati» dal lockdown devono essere sottoposti a screening sistematico e indossare le mascherine per diverse settimane. Altrimenti, l’uscita dal confinamento avrà un esito peggiore di quello dell’inizio della pandemia.

L’elemento connettivo tra la fase dell’emergenza e quella della ripartenza in sicurezza dovrà essere un nuovo modo di concepire il lavoro e la produttività.

Ecco perché il primo maggio, quest’anno, non è solo un giorno di festa, ma è un’occasione per ripensare il tema del lavoro al tempo del coronavirus. Cosa esso sarà d’ora in poi?

La prestazione lavorativa va concepita come un progetto di lavoro-benessere della persona che non si realizza solo in presenza e nelle forme tradizionali. Si tratta di adeguare strutturalmente e tecnologicamente i diversi spazi in cui si svolge la nostra vita come se stessimo sempre a casa. È necessario ripensare le attività lavorative (in agricoltura, nelle fabbriche, nei laboratori, negli uffici) affinché lavoro, benessere della persona e tutela ambientale si integrino e non siano mai in conflitto.

Tutto quello che può essere “remotizzabile” va “remotizzato”. Tutto quello che può essere automatizzabile e meccanizzabile va automatizzato e meccanizzato. Non devono essere degli slogan, ma titoli di un grande progetto di innovazione sociale.

Al centro del nostro impegno vanno posti con forza gli obiettivi di sviluppo sostenibile dell’Agenda Onu 2030 e il modello di economia circolare. Occorre un cambio di paradigma nelle analisi, nelle politiche e nelle azioni innovative dei cittadini, della società civile, delle imprese e delle pubbliche amministrazioni. Un modo nuovo di concepire lo sviluppo dovrà guidarci nel trasformare i rischi in opportunità e nel definire scenari di resilienza in un orizzonte di lungo periodo.

Il cittadino potrà esercitare la sua sovranità se la comunità in cui opera si attiva per creare sviluppo. Scriveva Giorgio Ceriani Sebregondi (in “Lettera a padre Lebret”, 1956): «Lo sviluppo non è semplicemente crescita economica ma costituisce un salto di civiltà. È, infatti, l’esito della combinazione dei cambiamenti mentali e sociali di una popolazione, che la rendono atta a far crescere in modo cumulativo e permanente il suo prodotto reale globale».

Il cittadino potrà esercitare la sua sovranità se l’economia pone al centro la persona. La massimizzazione del profitto è necessaria come indice sicuro di gestione razionale di un’impresa, ma non deve mai rompere – come diceva Adriano Olivetti – l’equilibrio della comunità.

Vincere la sfida dello sviluppo sostenibile richiede un cambiamento di mentalità e un approccio integrato ai singoli problemi. Si tratta di identificare soluzioni possibili per realizzare la transizione necessaria alla sostenibilità dello sviluppo. Occorre minimizzare i costi ad essa connessi e massimizzare i ritorni per i diversi stakeholder. Come scrive Leonardo Becchetti, se si sviluppasse nei consumi il mercato delle informazioni sul rating sociale e ambientale (applicando a questo fine la tecnologia “blockchain”) e i cittadini-clienti fossero consapevoli e decidessero tutti insieme di “votare col portafoglio” per le imprese migliori, vincerebbero le imprese tecnologicamente più avanzate: quelle che hanno meno bisogno di puntare al ribasso sul costo del lavoro.

Al centro dell’attenzione vanno poste: l’equa redistribuzione delle risorse, la buona governance a livello globale, la difesa dei diritti fondamentali della persona, la lotta alla violenza nei confronti delle donne, l’istruzione, la salute, la parità di genere, la riduzione concreta del divario generazionale.

Bisognerà ridisegnare completamente la sanità intesa come “bene comune globale”. Se il Mes è immediatamente disponibile, come pare, si attinga immediatamente a questo fondo destinato specificamente alla sanità. Come afferma l’economista Gaël Giraud, «abbiamo toccato con mano in questi giorni che la salute di tutti dipende dalla salute di ciascuno e che siamo tutti connessi in una relazione di interdipendenza». «Anche per i più privilegiati – continua l’economista francese – la privatizzazione dei sistemi sanitari è un’opzione irrazionale: essi non possono restare totalmente separati dagli altri; la malattia li raggiungerà sempre. La salute è un bene comune globale e deve essere gestita come tale». Scrive Giraud in modo condivisibile: «la salute deve essere trattata come una questione di interesse collettivo, con modalità di intervento articolate e stratificate. A livello locale, per esempio, le comunità possono organizzarsi per reagire rapidamente, circoscrivendo i cluster dei contagiati da Covid-19. A livello statale, è necessario un potente servizio ospedaliero pubblico. A livello internazionale, le raccomandazioni dell’Organizzazione mondiale della sanità (Oms) per contrastare una situazione di epidemia devono diventare vincolanti. Pochi Paesi hanno seguito le raccomandazioni dell’Oms prima e durante la crisi. Siamo più disposti ad ascoltare i “consigli” del Fondo monetario internazionale (Fmi) che quelli dell’Oms. Lo scenario attuale dimostra che abbiamo torto». Ma la salute è solo un esempio: anche l’ambiente, l’istruzione, la cultura, la biodiversità sono “beni comuni globali”. Dobbiamo immaginare istituzioni che ci permettano di valorizzarli, di riconoscere le nostre interdipendenze e rendere resilienti le nostre società.

Si tratta, in sostanza, di promuovere una particolare forma di organizzazione dei cittadini che solleciti, guidi ed esprima il formarsi di un’autonoma capacità tecnica, politica e giuridica dei cittadini stessi a concorrere alla determinazione delle politiche di sviluppo sostenibile.

Preliminarmente occorre reinventare forme e modi nuovi di apprendimento della cittadinanza per rispondere alle seguenti sfide: a) adattamento alle pandemie; b) sostenibilità; c) educarci al metodo scientifico; d) formarci permanentemente a connettere conoscenza tecnico-scientifica e saperi esperienziali; e) educarci alla democrazia all’interno dello Stato e oltre lo Stato.

Per reinventare la cittadinanza e le comunità va progettato e promosso un «sistema – per dirlo con le parole di Giorgio Ruffolo – nuovo, organizzativo e di regolazione, un’economia associativa, che abbia la stessa dignità dello stato e del mercato e che si ponga, con un suo equilibrio economico ed una sua impronta imprenditoriale, come risposta strutturale dalla parte della domanda alle nuove esigenze che si creano nell’ambito dell’odierna società». I “beni comuni”, come li ha definiti in particolare l’economista americana Elinor Ostrom, aprono un terzo spazio tra stato e mercato. Possono guidarci in un mondo più resiliente, in grado di resistere a shock come quello causato da questa pandemia.

L’Unione Europea dovrebbe rilanciare il Corpo Europeo di Solidarietà, facendone un’architrave della Ricostruzione. E l’Italia dovrebbe connettere tutti i sussidi oggi previsti per il Covid (compresi il reddito di cittadinanza e le indennità di disoccupazione) a questo progetto europeo. Facendo perno sulle amministrazioni locali, che oggi sono completamente escluse da queste politiche sociali.

Si tratta di riprendere una intuizione di Ernesto Rossi, autore con Altiero Spinelli e Eugenio Colorni del Manifesto di Ventotene. Egli scrisse in carcere nel 1942 e pubblicò nel 1946 il libro “Abolire la miseria”. Nella prima metà del saggio egli quasi schernisce tutti gli interventi di “beneficenza” o di “soccorso incondizionato” con i quali ci si illude di debellare povertà e disoccupazione. Nella seconda parte propone la fondazione, a livello europeo, di un “esercito del lavoro”, reclutato in alternativa al servizio militare, che provveda ad assicurare, a spese della collettività, i mezzi essenziali di sussistenza a chi ne ha bisogno.

Nel dicembre 2016, a 70 anni dalla pubblicazione di “Abolire la miseria”, la Commissione Europea ha ripreso, forse inconsapevolmente, l’idea di Ernesto Rossi, istituendo il Corpo Europeo di Solidarietà per permettere ai giovani tra i 18 e i 30 anni di poter partecipare ad attività lavorative (tirocinio, apprendistato o lavoro per un periodo da 2 a 12 mesi) o a progetti di volontariato all’interno di organizzazioni che si occupano di solidarietà. I partecipanti potranno essere impiegati in un’ampia gamma di attività, in settori quali: l’istruzione, l’assistenza sanitaria, l’integrazione sociale, l’assistenza nella distribuzione di prodotti alimentari, la costruzione di strutture di ricovero, l’accoglienza, l’assistenza e l’integrazione di migranti e rifugiati, la protezione dell’ambiente e la prevenzione di catastrofi naturali.

Nel 2017 è entrato in vigore in Italia il nuovo Servizio Civile Universale. Un’occasione per favorire e sostenere l’impegno volontario e civico dei giovani nel mondo associativo e nelle istituzioni locali. Un’opportunità per conseguire nuove competenze in vista di una successiva attività lavorativa.

Questi strumenti devono essere pensati come opportunità per trasmettere da una generazione all’altra la cultura del “saper fare”.

Tra gli esiti indesiderati della globalizzazione e della rivoluzione tecnologica in atto va annoverato il distacco (fino al conflitto identitario) tra le generazioni. Solo la creazione di istanze dinamiche di confronto potrà condurre ad una radicale riconversione della logica del conflitto identitario. Tra i principali scopi dell’economia associativa dovrà essere annoverata la creazione del “lavoro di cittadinanza”. Esso non si configura come vero e proprio accompagnamento di un giovane ad un impiego, ma come spazio simbolico entro cui le differenze tra generazioni diverse si riconoscono e interagiscono per generare impegno lavorativo e vivificare lo “spirito dello sviluppo”, di cui parlava Albert Hirschman.

Il lavoro di cittadinanza è il contesto dove assimilare i principi costituzionali: “L’Italia è una Repubblica democratica, fondata sul lavoro” (art. 1) e “La Repubblica riconosce a tutti i cittadini il diritto al lavoro e promuove le condizioni che rendano effettivo questo diritto” (art. 4). Tali principi contengono l’impegno delle istituzioni a soddisfare l’esigenza degli individui a lavorare e, nel contempo, il dovere di ogni cittadino di essere quello che può in proporzione dei propri talenti. Si attuano iniettando cultura d’impresa da intendere come aspirazione dell’uomo a incivilirsi, a elevarsi, mediante un percorso virtuoso che non ha mai fine per evitare di correre il pericolo di tornare indietro verso la barbarie.

Ernesto Rossi afferma (in “Abolire la miseria”) senza mezzi termini che la nozione “diritto al lavoro” è un’assurdità che discende dalla «falsa idea che basti produrre delle cose che soddisfino i bisogni umani perché il lavoro risulti economicamente produttivo». Il lavoro non è un diritto che può essere soddisfatto solo dalle leggi sul lavoro. È questa idea molto immiserita di lavoro ad averlo reso un oggetto misterioso. Il lavoro si può creare con il lavoro di cittadinanza, cioè con il dialogo intergenerazionale, la diffusione della conoscenza, il cambiamento della mentalità, l’educazione all’innovazione continua, alla relazionalità e alla speranza del futuro.

La foto di apertura è un inno alla bellezza, perché il lavoro deve ripartire dalla bellezza. La foto è dell’agriturismo Al crepuscolo di Recanati, delle sorelle Gabrielloni

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