Il senso della vita
Ovvero quando la dimensione evolutiva, l’evoluzione di darviniana memoria, si sposta dalla concretezza corporea dell’essere alla dimensione immateriale dell’evoluzione del pensiero. La questione non è da sottovalutare: il cervello è in grado di spostare il pensiero da una dimensione finita per proiettarlo in dimensioni non quantificabili? Possiamo veramente dirci in grado di interpretare il senso della vita?
Massimo
“Credo che ancora una volta noi uomini egocentrici ci sforziamo di trovare significati sul senso dell’esistenza, ma ognuno cerca soggettivamente il proprio a secondo delle esperienze, dell’istruzione, del credo ecc.
Forse il vero senso sta in una dimensione più ampia che è quella dell’evoluzione…
Questa è la risposta che la mia “variabile esterna” ha dato alla mia domanda su come avrebbe definito il “senso della vita”
Ecco, la dimensione evolutiva, l’evoluzione di darviniana memoria, che si sposta dalla concretezza corporea dell’essere alla dimensione immateriale dell’evoluzione del pensiero.
Poiché sembra che giunti all’attuale configurazione materiale dell’essere umano l’evoluzione si sia momentaneamente arrestata, rimane probabilmente aperta quella del pensiero, cioè di quella imperscrutabile funzione del cervello che sembra produrre continuamente, anche se in pochi, nuovi orizzonti elaborativi che vorrebbero andare oltre il concetto di “scoperta”. Invece, rimaniamo ancorati alla consapevolezza che la scoperta di un fenomeno è la “visione interpretativa” di qualcosa che già esiste e della quale, come spesso accade solo per circostanze “serendipiche”, siamo in grado di giungere a una dimostrazione.
Il cervello è in grado di spostare il pensiero da una dimensione finita per proiettarlo in dimensioni non quantificabili?
Oppure è soggetto all’autolimitazione della conoscenza e non riesce ad andare oltre?
Ecco che in una tale evenienza, cioè il limite della conoscenza come impossibilità a pensare a ciò che non si conosce fa sorgere il concetto dell’impossibilità a ragionare sul senso della vita se non come propria percezione illusoria.
Insomma, l’uomo potrebbe finalizzare giudizi sul senso della vita fortemente limitati all’esperienza e anche l’illusione e il desiderio rimarrebbero confinati nella dimensione conoscitiva di uno spazio tempo ben definito, negando di fatto che possa esserci, appunto, un’ipotesi di dimensione immateriale dell’evoluzione del pensiero.
Allora, non ci si può non porre la domanda “siamo in grado di interpretare il senso della vita”?
Alla luce delle considerazioni fatte sarebbe interessante conoscere quale risposta hanno dato le menti illuminate della filosofia nel tempo, se sono riuscite a svincolarsi dai confini terreni del pensiero, se sono state in grado di pensare al non pensabile.
Se fossi un filosofo di provata capacità come l’amico Fabio Gabrielli, potrei forse dare una risposta esaustiva a questi quesiti, ma non lo sono e, pertanto passo la mano a Fabio.
Prima di lasciargli lo spazio, tuttavia, ancora una considerazione.
Mi avvilisce, da uomo di scienza, non potere dare compiutezza alla domanda, qual è il senso della vita?
Mi avvilisce perché anche qualora mi fosse sufficiente rispondermi che il senso della mia vita è la conoscenza scientifica, praticherei un esercizio riduzionistico che mi toglierebbe illusione e desiderio di travalicare i confini terreni nei quali siamo inesorabilmente inscritti riconducendomi alla finitezza della conoscenza senza possibilità di proiezione.
È forse il pensiero di Dio che toglie l’uomo da questo terreno dilemma?
Fabio
Il senso della vita è la vita stessa, non c’è una natura, un’essenza, un segreto che dobbiamo svelare, interpretare, ricondurre all’esattezza dello sguardo calcolante.
La vita è affamata di vita, contro le logiche sacrificali, i cantori del dolore come momento indispensabile per renderci migliori, la nostra finitezza come rassegnata forma di sopravvivenza.
Mi spiego brevemente:
– La vita non vuole sacrifici, semmai impegno, fedeltà, fiducia nel viverla, non da thnetoi, larve di sogno, ombre, come dicevano i Greci, ma da brotoi, mortali che sanno distogliere lo sguardo dalla parte loro assegnata, dal loro destino di morte;
– Non so se il dolore renda migliori o peggiori, non so se esista una pedagogia del dolore, che è sempre un fatto brutale, gratuito, invasivo, certamente, ci ricorda Nietzsche, ci scava nel profondo, produce un orientamento diverso nella nostra vita, e sta a noi meditarlo, ricalibrarlo, accoglierlo.
– La finitezza che specifica gli umani non è sinonimo di rassegnazione, bensì di creatività fragile, di un’apertura al mondo nel segno della propria vocazione, del proprio desiderio, del proprio carattere, il cui significato greco (charassein) è incidere, imprimere, scavare.
Ecco, ognuno di noi è chiamato a incarnare, testimoniare la propria vocazione, a dispiegare un tracciato di vita con gioia e fiducia, nella consapevolezza della sua finitezza, e proprio per questo degno di un impegno continuativo, duraturo, luminoso, con la ragionevole speranza della gioia.
Quest’ultima, rispetto alla felicità invisa agli dei, è sempre alla nostra portata.
Siamo cercatori indecisi, forse confusi, eppure, come recitano i versi di Emily Dickinson, con la possibilità, se non curviamo la schiena, di essere dei re:
Non conosciamo mai la nostra altezzafinché non ci chiamano ad alzarci.E se siamo fedeli alla missionetocca il cielo la nostra statura.L’eroismo che allora recitiamosarebbe di ogni giorno, se noi stessila schiena non curvassimo,per la paura di essere dei re.
Massimo
Ricordiamo che, quando il mendicante crede di essere un re perde quella grande opportunità dell’onore e del rispetto verso sé stesso e verso gli altri, non dimentichiamo mai che siamo tutti mendicanti.
Da: Apertura del 90esimo Congresso SIBS
In apertura, “Apettando Noè” (particolare), di Studio Pace 10, foto di Gianfranco Maggio
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