Saperi

Il senso di Emanuele Macaluso per l’agricoltura

Persona attenta e consapevole, comprese che non si poteva continuare a sottovalutare l’importanza delle campagne e degli agricoltori. Con tutte le sue energie si impegnò nel dare una collocazione centrale alla politica agricola, contribuendo a ristrutturare la rappresentanza delle forze sociali delle aree rurali. Scomparso nel 2021, il prossimo 21 marzo sarà ricordato a Roma a cento anni dalla nascita, in una cooperativa agricola nata nel 1977 per iniziativa di un gruppo di giovani

Alfonso Pascale

Il senso di Emanuele Macaluso per l’agricoltura

Negli anni Settanta, Emanuele Macaluso volle dare una svolta all’impegno della sinistra per l’agricoltura. Dopo le elezioni politiche del 1972, che avevano fatto registrare uno spostamento a destra dell’elettorato, soprattutto nel Mezzogiorno, fu nominato responsabile della Sezione agraria del Pci e membro della Commissione Agricoltura della Camera.

Emanuele ha raccontato che chiese spontaneamente al segretario comunista, Enrico Berlinguer, di occuparsi della politica agricola, un ambito di attività in cui non si era mai cimentato in passato. Riteneva, infatti, che la sinistra, se voleva essere una sinistra di governo, non poteva continuare a sottovalutare l’importanza delle campagne e degli agricoltori. S’impegnò, dunque, con tutte le sue energie per dare una collocazione centrale alla politica agricola nella politica economica del paese e, per raggiungere tale obiettivo, contribuì a ristrutturare la rappresentanza delle forze sociali delle aree rurali.

La prima cosa che fece, stando alla sua testimonianza, fu quella di convincere Giuseppe Avolio (di cui ricorre il centenario della nascita il prossimo 10 dicembre) a impegnarsi in prima persona per imprimere una svolta nel modo di porsi della sinistra nei confronti delle imprese agricole. Avolio era ritornato al Psi dopo lo scioglimento del Psiup. E si rese immediatamente disponibile a dirigere la sezione agraria del suo partito.

I due dirigenti erano ben coscienti di essersi assunti un compito non facile. Si era, infatti, concluso da un pezzo un intero ciclo di politica economica fondato sul mito dello sviluppo industriale forzato dall’alto. Anche i partiti di sinistra e i sindacati lo avevano coltivato. E riemergeva spontaneamente nella società un’attenzione verso l’agricoltura come settore che poteva contribuire al superamento della crisi. Ma la sinistra continuava a guardare le campagne con lo sguardo rivolto all’indietro e con i tradizionali schemi ideologici. Di qui l’esigenza di definire un nuovo progetto di politica agricola. Ma innanzitutto bisognava adottare un nuovo lessico e lasciarsi alle spalle quello proprio di una società che non esisteva più.

Emanuele Macaluso comprese che bisognava innanzitutto abbandonare una interpretazione della stratificazione sociale nelle campagne basata sulla rigida suddivisione tra contadini poveri e capitalisti agrari. E occorreva dare voce ad un protagonista nuovo: l’imprenditore agricolo. Una categoria sociale forgiata dalla “rivoluzione verde” che si stava compiendo. Un soggetto più istruito e più aperto all’innovazione che il progresso tecnologico in agricoltura ne aveva enormemente accelerato la crescita imprenditoriale e professionale, indipendentemente dalle dimensioni della sua azienda.

Nello stesso tempo, era necessario mettere in soffitta l’espressione “padronato agrario” per indicare gli imprenditori agricoli di grandi aziende. Alla V conferenza nazionale agraria del Pci, svoltasi a Pugnochiuso (FG) nei giorni 2 e 3 aprile 1976, Emanuele così aveva affrontato l’argomento: «Noi riteniamo che questi imprenditori possono assolvere ad una funzione positiva se la loro iniziativa muova verso lo sviluppo produttivo investendo in capitali e valorizzando la terra; se questa iniziativa rispetta gli indirizzi contrattati col sindacato e democraticamente programmati dalla collettività e cioè dalle Regioni. In concreto noi riteniamo che tutte le iniziative che rientrano nei programmi regionali debbano essere sostenute dall’intervento pubblico senza discriminazione anche se la precedenza – ma non l’esclusiva – va data alla azienda coltivatrice singola o associata». Il salto era finalmente compiuto. Potevano sempre emergere conflitti sociali da ricomporre con la mediazione sindacale e gli strumenti pubblici di programmazione, ma cadeva l’antagonismo ideologico e classista e si riconosceva la funzione positiva di tutte le tipologie di impresa in agricoltura.

Ricordo che la sezione agraria del Pci organizzò un corso sui problemi dell’agricoltura alla scuola quadri di Frattocchie. Ero presidente dell’Alleanza provinciale dei contadini di Potenza e il segretario della Federazione comunista, Rocco Curcio, volle che partecipassi anch’io. Conobbi così Macaluso e restai affascinato dalla sua passione ideale, dalla sua capacità di analisi politica e dalla sua concretezza nell’elaborare proposte capaci di mobilitare gli agricoltori.

A cavallo tra gli anni Cinquanta e Sessanta, la società italiana era stata investita da processi di trasformazione in cui interagivano, in modo penetrante le intelligenze, le strategie flessibili di adattamento, le capacità di iniziativa delle persone e delle comunità locali, che avevano caratterizzato gli antichi sistemi agricoli territoriali, a partire dal “continente mezzadria”.

Tale interazione era certamente la base su cui si era realizzato il salto imprenditoriale di quei piccoli e grandi proprietari di terra. Essi erano stati capaci di immettere in agricoltura il necessario progresso tecnico per raddoppiare la produzione agricola globale, dimezzare il numero degli addetti al settore e contribuire così, notevolmente, ad assicurare agli italiani le tremila calorie medie pro capite, sufficienti a farci entrare nel ristretto novero dei paesi ricchi. Paesi nei quali il primato tecnologico, industriale e culturale si coniugava con l’opulenza alimentare.

Milioni di contadini si erano trasformati, nel giro di pochi anni, in imprenditori agricoli, artigiani, operai specializzati dell’industria, impiegati nel settore dei servizi. Un cambiamento di portata epocale che si era realizzato senza che essi si potessero giovare di percorsi di accompagnamento e autoapprendimento collettivo. La sola condizione questa perché quelle persone potessero trasfondere, in modo consapevole e pieno, la ricchezza della propria cultura d’origine nelle nuove attività e nei nuovi modi di vivere. Per questo la modernizzazione era avvenuta senza un reale sviluppo.

A partire dagli anni Settanta, una quota di figli e nipoti di quella popolazione rurale che aveva abbandonato l’attività agricola o si era trasferita dalle campagne nelle aree urbane, dette vita ad un controesodo: abbandonò cioè le città e andò ad abitare nei territori agricoli periurbani e nelle aree rurali. Quegli agricoltori di provenienza urbana furono i principali artefici dell’offerta di nuovi beni e servizi agricoli. La domanda proveniva da coloro che incominciavano ad acquisire consapevolezza delle cause di fondo della frattura antropologica originata da una modernizzazione “non accompagnata”.

Erano pochi a sinistra che si rendevano conto di quelle trasformazioni. Non avevamo né la cultura, né gli strumenti adeguati a cogliere quello che era avvenuto sotto i nostri occhi. E questo perché avevamo avuto in Italia un marxismo imbevuto di idealismo e, pertanto, nemico delle scienze sociali e, in particolare, della sociologia.

La sinistra, in particolare quella comunista, pur avendo un radicato insediamento sociale, non è stata mai in grado di utilizzare il suo capillare tessuto organizzativo e di leggere e interpretare la realtà per un motivo molto semplice: osteggiava ideologicamente lo strumento dell’inchiesta sociologica sul campo. Per usare un’espressione tranciante di Franco Ferrarotti, i gruppi dirigenti della sinistra si comportavano come “truppe straniere di occupazione in un paese che non conoscevano”.

E così, quando negli anni Settanta gli Usa annunciarono che il dollaro non era più convertibile in oro e i paesi OPEC decisero un aumento del 70 per cento del prezzo del petrolio e contemporaneamente ne diminuirono del 10 per cento l’esportazione, si aprì una terribile crisi. E l’agricoltura italiana si trovò sguarnita di organizzazioni capaci di rappresentarla e guidarla nelle trasformazioni vorticose che erano avvenute, non solo sul piano interno ma anche sul versante dello sviluppo agricolo mondiale.

Rispetto al passato, infatti, si andava attenuando l’egemonia americana e si affermava una multipolarità. Nello stesso tempo, si liberalizzavano parzialmente gli scambi mondiali dei prodotti agricoli con un indiscutibile protagonismo dell’agricoltura italiana ed europea.

Ma queste opportunità non potevano essere colte facilmente dalle imprese agricole in mancanza di una rappresentanza all’altezza dei nuovi compiti e di forti e unitarie strutture economiche.

Macaluso e Avolio sensibilizzarono le associazioni agricole di sinistra a mettersi in discussione per dar vita ad una organizzazione nuova, al livello delle sfide che si presentavano. E così Attilio Esposto, Gaetano Di Marino, Renato Ognibene, Afro Rossi, Giorgio Veronesi, Elvio Salvatore ed altri che dirigevano l’Alleanza dei contadini, la Federmezzadri e l’Unione coltivatori italiani (Uci) avviarono il percorso della Costituente contadina. Nel dicembre 1977, finalmente fondammo la Confederazione italiana coltivatori ed eleggemmo Avolio presidente.

Alle elezioni politiche del 1976 Macaluso era stato eletto al Senato e presiedeva la Commissione Agricoltura di quel ramo del parlamento. A Botteghe oscure la responsabilità della sezione agraria era passata a Pio La Torre. Si era, dunque, avviata la fase dei governi di “solidarietà nazionale”, dell’inflazione a due cifre, del terrorismo che raggiunse il suo apice con il rapimento e l’assassinio di Moro. Il presidente incaricato Andreotti aveva confermato Marcora al ministero dell’Agricoltura e aveva ottenuto il consenso della “non opposizione” comunista su di un documento in cui erano indicati alcuni provvedimenti agricoli innovativi da varare: costituzione delle associazioni dei produttori, nuove norme sulla cooperazione, riordino dell’Aima, riforma della Federconsorzi, per farne una cooperativa aperta a tutti i produttori, riforma dei patti agrari.

Al Senato Emanuele lavorò alacremente per contribuire a realizzare quel programma. Ad una tavola rotonda indetta dall’Associazione nazionale dei giovani agricoltori (Anga), il 23 settembre 1976 nella sala dell’Unioncamere, egli polemizzò con il sottosegretario Roberto Mazzotta che aveva illustrato la riforma dell’Aima senza affrontare il nodo della riforma della Federconsorzi. E si guadagnò il consenso del giovane Stefano Wallner, presidente dell’Anga, e di Giandomenico Serra, presidente della Confagricoltura.

L’anno successivo, il Parlamento approvò la legge 285 sull’occupazione giovanile, che prevedeva sostegni alle cooperative in diversi settori, compresa l’agricoltura, e il primo tentativo serio di programmazione nel settore agricolo: la “Quadrifoglio”.

La legge 285 raccoglieva le istanze di un movimento non solo nazionale ma che in Italia aveva una sua consistenza e specificità: la nascita e lo sviluppo di cooperative giovanili. Si trattava di una modalità sperimentata dalle nuove generazioni per creare lavoro in diversi settori, dall’agricoltura all’artigianato, dai servizi sociali e sanitari a quelli connessi con aspetti culturali, ambientali e per il tempo libero, fino ai servizi alle imprese nel campo della progettazione, dell’informatica e dell’assistenza tecnica.

Quel movimento nasceva da spinte diverse. Nelle campagne sicuramente prevaleva una pressione indotta dalla sensibilità ecologica e dal bisogno di legami comunitari da parte, soprattutto, di giovani laureati e diplomati disoccupati, professionisti che non trovavano occasioni di lavoro, studenti, i quali guardavano all’agricoltura non già con gli occhi dei padri e dei nonni che erano scappati via per le condizioni di miseria, ma incuriositi e affascinati dalle nuove opportunità che, in un conteso di relativo benessere, il settore presentava in termini di diversificazione della qualità dei prodotti e di sperimentazione di nuovi servizi di accoglienza.

Convergevano anche le iniziative per conquistare i diritti civili, rinnovare i servizi socio-sanitari, chiudere i manicomi, affrontare in modo nuovo la tossicodipendenza e la condizione carceraria. S’incrociavano, pertanto, diverse spinte culturali che davano vita a cooperative agricole con la presenza di persone con disabilità psichica, ex tossicodipendenti, ex detenuti, anticipando il fenomeno che avremmo poi inquadrato come “agricoltura sociale”.

Dal 14 al 16 ottobre 1977, il comitato di coordinamento nazionale per la Costituente contadina organizzò, nel Borgo Taccone di Irsina (MT), la manifestazione nazionale sul tema “Occupazione giovanile e sviluppo dell’agricoltura”. L’iniziativa era stata preceduta da convegni organizzati in quasi tutte le regioni italiane.

Convogliammo in quel borgo lucano, costruito con la riforma agraria e poi abbandonato dagli assegnatari, oltre tremila giovani.

Ricordo che convivevano, in vista di quelle tre giornate di dibattiti ed eventi culturali, ispirazioni ideali e politiche di vario tipo. E anche forti preoccupazioni da parte di quei settori politici che non sapevano (o non volevano) distinguere i movimenti anti-sistema dai movimenti civili che si battevano per un riconoscimento di esperienze innovative in ambiti diversi, dall’agricoltura ai servizi socio-sanitari, dalla cultura all’organizzazione del tempo libero.

Se si vanno a guardare i titoli delle iniziative che si svolsero a Taccone e i nomi delle personalità della cultura che furono coinvolte, si avverte facilmente il senso che volemmo dare all’iniziativa: collegare idealmente il movimento di quel periodo alle esperienze di comunità degli anni Cinquanta, alle ricerche antropologiche di Ernesto De Martino, alle inchieste sociologiche avviate dal Gruppo di Portici guidato da Manlio Rossi-Doria, con Rocco Scotellaro, Gilberto Antonio Marselli e il lungo corteo di studiosi stranieri, soprattutto americani, quali George Therune Peck, Edward C. Banfield, Donald Stephen Pitkin, Friedrich George Friedman, Olaf F. Larson e tanti altri, nonché alle ricerche che Nuto Revelli aveva svolto tra i contadini delle Langhe. Era, dunque, il tentativo di riprendere, in un contesto del tutto nuovo, i fili di un discorso che era stato bruscamente interrotto.

Emanuele era molto attento allo sviluppo di quelle iniziative perché ne comprendeva il valore innanzitutto culturale. Riuscì nel 1978 a portare in porto la legge sull’associazionismo dei produttori, quella sulle terre incolte e malcoltivate e la riforma dell’Aima, senza però spuntarla sul nodo Federconsorzi.

Sui contratti agrari a nulla valse la sua disponibilità a introdurre meccanismi per trasformare i contratti di mezzadria e colonìa in affitto che non fossero punitivi per la proprietà. Aveva scritto nella prefazione ad un libro di Livio Stefanelli intitolato “Arretratezza e patti agrari nel Mezzogiorno” (De Donato 1974): “La reazione dei piccoli concedenti ha messo in luce una realtà che le forze democratiche debbono tenere ben presente nell’affrontare oggi la lotta per la riforma della colonìa e della mezzadria. […] La vicenda dei fitti agrari non è stato certo l’ultimo dei fatti nella spinta a destra determinatasi nel Mezzogiorno e in Sicilia negli anni ’71 e ‘72”. Bisognerà attendere ancora qualche anno per conquistare la riforma.

La legislatura si concluse anticipatamente nel 1979 e finì così anche l’impegno diretto di Emanuele sui temi dell’agricoltura. Se ne occuperà, negli anni successivi, come responsabile della sezione meridionale del Pci e come direttore dell’”Unità”. Egli era fermamente convinto che la sinistra dovesse agire con il massimo di unità e fu sempre coerente con questa impostazione. Ma fu anche molto attento al dialogo con la Dc. Intenso fu, ad esempio, il suo rapporto con il ministro Marcora. E quando, nel 1980, l’esponente democristiano fu escluso dal governo Forlani, Emanuele scrisse che la politica di Marcora aveva avuto dei “limiti”, ma era stata “nettamente migliore dei suoi numerosi predecessori”. Aveva avuto “un rapporto più aperto con tutte le componenti del mondo agricolo e un rapporto con le altre forze politiche”. Un’”apertura”, come la definì, importante non solo come fatto politico ma “culturale”, tale da consentire di avere una migliore percezione della realtà italiana.

Quella della “solidarietà nazionale” fu una stagione memorabile in cui coltivammo sogni, tentammo di aprire nuove prospettive per il paese, facemmo errori, andammo incontro a delusioni e sconfitte. Ma collezionammo anche successi. Emanuele Macaluso, una personalità sensibile e attenta ai problemi dell’agricoltura, dette un contributo notevole per conquistare a favore degli agricoltori importanti risultati positivi.

In apertura, olivi terrazzati in Liguria. Foto Olio Officina

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