Il viaggio
Narrazioni. Ci volle del tempo prima che si accorgesse che nelle concerie si davano tutti del tu: padroni, segretarie, magazzinieri e persino gli operai che stavano alle spruzzatrici e quelli ai bottali. Era un mondo tutto sommato democratico, là dentro. La differenza era fuori. Ed era una differenza esclusivamente di tipo economico. Venne poi il momento di iniziare a pensare al bagaglio. Serviva innanzi tutto un valigia decente

Era il 1986 quando entrai alla Colorado. Una vera fortuna per una ragazza come me. Non era facile vivere a Santa Croce sull’Arno negli anni Ottanta. Un paese di ricchi e chi ricco non lo era ambiva, come me, a una sorta di escalation sociale.
La mia famiglia aveva decisamente pochi soldi. Mio padre era impiegato di basso livello in Comune e mia madre faceva le ore in alcune famiglie per arrotondare il nostro magro bilancio. Mio fratello ed io studiavamo. E far studiare i figli costa.
Tuttavia ero riuscita a ottenere il diploma di ragioniera a diciott’anni esatti, ma fino all’86 mi ero dovuta accontentare di lavoretti saltuari. Facevo la baby-sitter, la commessa per brevi periodi, aiutavo un import-export di pellami a tenere la contabilità. Ma erano poche ore al giorno e comunque, i miei, erano lavori poco retribuiti.
Poi il colpo di fortuna. Un vicino mi disse che la Colorado era in cerca di una ragioniera. Mio padre era preoccupato: «La mia figliola dal Pocai? Ma quello è un uccello randagio! Occhio, nina» mi ammonì.
Ugualmente mi presentai. Gli uffici erano molto belli ed entrare là dentro mi procurò una sorta di timore. Mi ero vestita – per quell’occasione – al meglio delle mie possibilità. Indossavo un tailleur con giacca dalle spalle imbottite. Volevo in qualche modo copiare i tailleur di Armani, ma l’imbottitura della mia giacca era particolarmente abbondante: c’è sempre un particolare che non va quando si copia. Ripensandoci ora dovevo apparire piuttosto goffa sia per l’abito sia per la timidezza.
Mi ricevette una segretaria. Bussò a una porta e aprendola disse: «Oh, Claudio, c’è la nuova». Entrai. «Buon giorno, signor Pocai, sono Luana Pellegrini». «Siediti» mi disse subito il titolare della Colorado, «e comunque io non sono il signor Pocai, ma Claudio». La cosa al momento mi imbarazzò non poco. Ci volle del tempo prima che mi accorgessi che nelle concerie si davano tutti del tu: padroni, segretarie, magazzinieri e persino gli operai che stavano alle spruzzatrici e quelli ai bottali. Era un mondo tutto sommato democratico, là dentro. La differenza era fuori. Ed era una differenza esclusivamente di tipo economico. Perché, nel mio paese, padroni e operai, impiegati e insegnanti, sono tutte persone piuttosto rozze.
Claudio Pocai guardò il mio curriculum: «Proveremo per tre mesi. Ora vai alla terza porta a destra, chiedi di Verena e lei preparerà le tue carte».
Credo di aver lavorato molto bene in quel mio primo periodo perché a marzo, passati i tre mesi, venni assunta. E a giugno il signor Pocai, anzi Claudio, come ora lo chiamavo anch’io, mi volle per annunciarmi quello che sarebbe stato l’avvenimento della mia vita. «Senti, Luana, c’è in ballo un affare piuttosto importante. Ti ho parlato spesso dei Beauregard, sai, quelli che stanno in Bretagna, a Fougères. Sono dei pezzi grossi del divanificio Roche-Bobois. Dovevo andarci io con mia moglie, ma lei preferisce la sua solita settimana a Ischia. E neppure io muoio dalla voglia e così ho pensato di mandare te al posto mio. E, visto l’impegno che hai dimostrato in questi mesi e la tua serietà, ho pensato anche di offrirti il fine settimana a Dinard, quello che i Beauregard volevano offrire a me e a Desirée. Poi, con l’auto a noleggio, che troverai a Orly, dopo Dinard andrai da loro a Fougères». Rimasi allibita e seppi solo rispondere: «Non so se sarò all’altezza». «Lo sarai, lo sarai» mi rincuorò il titolare.
Il sole di giugno è tremendo in queste cittadine industriali. Ma io ugualmente lavorai tutto il mese con un’euforia ancora maggiore di quella della mia assunzione e, naturalmente, avevo sempre in mente il viaggio che sarebbe avvenuto intorno al 14 di luglio. L’anniversario della Rivoluzione avrebbe segnato, in un certo qual senso, una rivoluzione anche nella mia vita.
Ero – ma lo sono ancora – una persona solitaria. Non avevo amici allora come pochi ne ho adesso, fatta eccezione per Galatea, la mia amica di Empoli.
Ci eravamo conosciute un’estate in Versilia dove io ero andata in giornata con mio padre a trovare un suo amico libraio. Poi, dopo quell’incontro e la nostra immediata simpatia, avevamo iniziato a frequentarci. Del resto tra Empoli e Santa Croce c’è poco più di un quarto d’ora. Galatea era, all’epoca, un’ottima allieva del liceo classico e, nonostante io facessi studi tecnici, apprezzava in me la mia voglia di conoscere. Io, in lei, il suo sapermi insegnare senza prosopopea.
Fu la prima a cui rivelai del viaggio. Prima ancora che a mio padre e a mia madre di cui faticavo a immaginare quali sarebbero state le reazioni.
«Dici davvero?» mi disse con entusiasmo «Ti preparerò un piccolo itinerario d’arte». Si era laureata in lettere e stava seguendo, in quel periodo, la specializzazione in storia dell’arte.
Vissi tutto il mese di giugno e i primi dieci giorni di luglio come sospesa in una strana – e mai provata prima – euforia. Claudio, che se ne era reso conto, iniziò ad avere con me un atteggiamento paterno che non gli apparteneva. In paese si sapeva quanto fosse un incallito donnaiolo e non avevo dimenticato i timori di mio padre quando iniziai a lavorare per lui. Ma io sentivo che non era così. Oddio, in quanto piacere alle donne piaceva eccome, non meno di quanto queste non piacessero a lui. Vedevo bene che sguardi gettava su certe ragazze, anche se li mascherava dietro una finta miopia. Forse io non ero abbastanza bella per lui o, forse, aveva rispetto per il mio bisogno di lavorare e per l’impegno e la serietà che mettevo in quello che facevo. Fatto sta che io sentii sempre in lui un padre più che un uomo. Così mi ero accorta che, in quell’ultimo periodo, guardava con un certo affetto ogni mio movimento.
Venne il momento di iniziare a pensare al bagaglio. Mi serviva innanzi tutto un valigia decente, poi… poi quello da metterci dentro. Il mio guardaroba era decisamente modesto. Di certo non avrei potuto portare il mio tailleur invernale finto Armani. Mi feci fare da una sarta (la solita, in verità) una sahariana sul genere di quelle lanciate da Yves Saint Laurent. Poi dei calzoni e comprai, in vari mercatini, delle magliette con paillettes. In quanto agli accessori trovai degli occhiali tipo Ray Ban. E, per sentirmi a mio agio, mi procurai – come borsa – il bauletto di Vuitton. Ray Ban e Vuitton li trovai a Empoli, grazie a Galatea che conosceva certe fabbriche di falsi.
Fu Claudio in persona ad accompagnarmi a Pisa il giorno della partenza. Voleva darmi gli ultimi dettagli per l’incontro con i Beauregard. Aveva già organizzato l’affare al telefono e in visite precedenti. A me spettava l’incarico di concludere la trattativa. E ancora una volta quando ci lasciammo e mi disse: «Coraggio, Luana, sarai sicuramente bravissima» io sentii in lui una presenza paterna.
L’aereo atterrò a Orly verso le 11. Il mio francese era buono, così non feci fatica a trovare la R5 che era stata prenotata per M.lle Pellegrini-Colorado-Italie. Avevo portato lo stradario e l’itinerario artistico preparato da Galatea. Me li ero studiati attentamente nei giorni precedenti la partenza insieme a mio fratello Moreno. Volevo dare il meglio di me e non apparire una provinciale. Soprattutto non volevo deludere la fiducia che Claudio aveva riposto in me.
La mia prima tappa fu in Normandia e precisamente a Giverny. La casa, il giardino, le ninfee, i ponticelli giapponesi (la mia amica mi aveva preparata come se dovessi dare un esame), i brevi corsi d’acqua… tutto insomma della casa di Monet mi si impresse negli occhi e nel cuore. Fu un’emozione mai provata. Del resto come avrei potuto provarla prima e con chi condividerla vivendo nel mio paese?
Ripresi poi l’auto. Ho perso, purtroppo, l’agenda di quell’anno dove avevo annotato ogni più piccolo spostamento. Ho così dei momenti nebbiosi nella mia memoria, poi… dopo ventitré anni! Comunque ricordo di aver viaggiato alla volta di Caen («Non ti perdere “Lo sposalizio della Vergine” del Perugino. È raro che uno vada a Caen. Neppure io l’ho visto» sentivo dirmi dalla voce di Galatea), ma la deviazione per Honfleur – di cui m’innamorai – mi fece giungere fuori orario al Musée des Beaux-Arts.
Lasciai Caen e dopo un’ora e mezzo giunsi a Mont-Saint-Michel. Solo il tempo di uno sguardo alla spettacolare abbazia che sorge sul mare. Sapevo del pericolo delle maree e soprattutto delle sabbie mobili. Avevo deciso di non avventurarmi troppo e di rimettermi invece in viaggio per la Bretagna. Dovevo essere puntuale all’appuntamento con i figli di Georges Beauregard: Jean-Paul e Pierre.
Giunsi a Dinard verso le 20 e in meno di dieci minuti trovai rue du Marechal Leclerc. Alle 20 e 15 precise entravo nella hall dell’hotel Balmoral.
Salii in camera. Una camera con vista sul mare. Non c’era tempo per guardarlo. Mi lavai velocemente e mi cambiai. Indossai il mio vestito turchese a balze e scesi nella hall dove alle 20 e 30 sapevo di essere attesa.
Dal divanetto beige Jean-Paul si alzò all’istante quando mi vide arrivare.
«Luana Pellegrini?». Annuii. Poi ci stringemmo la mano.
«Sono Jean-Paul Beauregard».
«Buona sera, signor Beauregard».
«No, no, niente signore, per favore. Io sono Jean-Paul e lei», mi disse indicando la donna che, alzandosi prontamente, gli si era avvicinata, «è mia moglie Julie». Rimasi colpita dal loro sorriso e dalla loro semplicità. Dovevano essere entrambi sulla trentina. Avevano pochi anni più di me, dei miei ventisei anni di allora. Erano persone tranquille, non chiassose, ma affabili al tempo stesso. Vestivano in un modo per me, allora, impensabile. Dio mio, come dovevo essere fuori posto con quel mio vestito così sgargiante! Jean-Paul e sua moglie indossavano invece abiti apparentemente sottotono. Nessuna donna ricca del mio paese si sarebbe vestita come Julie. Neppure per uscire a fare la spesa. Calzoni 7/8 (sì, il modello Capri) bianchi e una maglietta a righine blu con scollo a barca che le lasciava intravvedere le spalle. Ai piedi delle ballerine d’argento. Era bionda: le chiome folte e lisce le si dividevano naturalmente sulla fronte.
Lui aveva una Lacôste celeste su calzoni tinta corda, scarpe da barca, capelli biondi come la moglie e piuttosto lunghi in cui via via infilava le dita per scoprirsi la fronte.
Si alzarono poi, da una delle due poltrone del salottino, Céline, che era stata fino a quel momento sulle ginocchia di Pierre e che non aveva fatto altro che sbaciucchiarlo, quindi il ragazzo. Si ricomposero, smettendola con i loro giochi, e mi salutarono. Erano decisamente diversi dalla coppia più grande, ma con non meno savoir faire. Entrambi dovevano avere la mia età. Pierre, a differenza del fratello, era riccio, castano, abbronzatissimo, con una splendida camicia di lino grigio scuro. Le maniche rimboccate al gomito. Céline, bruna pure lei, aveva capelli molto corti e si muoveva con charme nel suo tubino nero – anche quello con scollo a barca – che, quando si chinava su Pierre, ne lasciava scorgere la rotondità del seno. Probabilmente non doveva essere né la moglie né la fidanzata, ma solo una ragazza di Pierre, perché Jean-Paul quando me li presentò mi disse: «Questo è mio fratello Pierre e lei è Céline», senza aggiungere altro.
Avevano prenotato la cena a Saint-Malo, Au gai bec, e durante il tragitto in auto mi avevano fatto domande sul mio viaggio, sul mio stato di stanchezza (che io capivo non fosse il caso di mostrare), su ciò che avevo visto, sul lavoro. Poi, giunti a destinazione, mi avevano dato notizie dell’antica roccaforte corsara, mi avevano fatto vedere i possenti bastioni fortificati e il castello con le sue imponenti torri.
Quando il cameriere venne al nostro tavolo per le ordinazioni io ero decisa a prendere il pré-salé, ma i miei ospiti mi consigliarono, garbatamente, di provare un plateau de coquillage. Ne arrivò uno monumentale che accompagnammo con più di una bottiglia di sidro.
Jean-Paul e Julie mi parlarono del loro amore per la vela, senza alcuna ostentazione. Io, che non ero mai andata per mare, riciclai racconti fatti da Claudio. Senza esagerare però: di sicuro loro avevano capito che venivamo da ambienti diversi. Chiesi a Pierre e Céline se anche loro avessero la stessa passione. Sì, no, un po’… Era chiaro che no. Mi parlarono invece di discoteche dove di solito finivano le loro serate. Jean-Paul cercava di tenere a freno l’esuberanza del fratello e della sua amica perché non mi mettessero in imbarazzo. Si era reso conto benissimo che non ero una frequentatrice di locali, anche se finsi di conoscere la vita mondana versiliese. Nella mia vita di studentessa prima, di lavoratrice poi, non c’erano mai stati né tempo né soldi né interesse per le varie Capannine, Cannicce e Faruk dove facevano mattina, invece, la maggior parte dei ragazzi santacrocesi. E neppure vacanze al mare, se non qualche gita in giornata a Marina di Pisa o a Tirrenia. La Versilia, poi, era roba da ricchi. Era roba per il Pocai e sua moglie che avevano una villa al Forte, non per la mia famiglia.
La serata si concluse allegramente. Io mi giostravo tra la pacatezza dei discorsi di Jean-Paul e Julie e le proposte per finire a ballare da qualche parte degli esuberanti Pierre e Céline. Scelsi di tornare in albergo, nonostante i molteplici inviti di Pierre. Jean-Paul, più saggio, mi diede ragione. Così, prima di mezzanotte, mi riportarono al Balmoral.
Il giorno dopo era ancora festivo e loro si offrirono di farmi nuovamente compagnia la sera. Dissi di no, che non era necessario e che ci saremmo visti, se volevano, la domenica sera a Fougères. Altrimenti li avrei aspettati il lunedì perché mi accompagnassero dal padre. Restammo d’accordo per risentirci la domenica sera.
Quando salii in camera per prima cosa andai sul balconcino a guardare il mare. Il Canale della Manica era straordinario. Se non fossi stata così stanca sarei stata ore a guardarlo, immersa nel buio. Invece mi spogliai velocemente e me ne andai a letto. Avevo avuto una giornata estenuante, ma ero felice.
Non riuscii a dormire subito, però. Ero colma di riconoscenza. Non so se sia un sentimento ancora di moda la riconoscenza. So che io la provai sia per Claudio sia per mio padre. Poi per Galatea e per mio fratello Moreno.
Claudio mi aveva dato molto. Mi aveva assunta, aveva avuto fiducia in me, mi aveva voluto presentare a suoi clienti e non solo a Firenze, nelle Marche o, più semplicemente, in quello che viene chiamato ‘il comprensorio del cuoio’. Ma mi aveva portato, una volta, a Milano con lui. Dopo solo un mese dalla mia assunzione. Diceva a tutti che ero la sua fidata collaboratrice. E al ritorno aveva voluto che guidassi io la sua grossa Volvo. A Santa Croce mi faceva usare, invece, una Golf del ’79 che teneva in conceria e che sua moglie reputava troppo vecchia per lei. Mi fece fare subito molti chilometri su quella Golf. Di qua e di là, per uffici, concerie, clienti.
La mia gratitudine andò quindi, immediatamente, a mio padre. Era stato lui che aveva imposto ulteriori sacrifici economici in casa perché io potessi andare a lezione di francese da Madame Françoise Bertillon. Mia madre non era d’accordo. Non facevo già francese a scuola? Mio padre sapeva bene che a scuola non s’imparano le lingue e, più volte, aveva litigato con lei per mandarmi dalla Bertillon. Poi voleva a tutti i costi che io guidassi la sua 126. Anche su quello mia madre aveva da ridire: «Con quello che costa la benzina. E che! C’è bisogno che la nostra figliola giri in macchina? Io a far le ore e la signorina a giro in automobile?». Ci voleva la pazienza di mio padre per spiegarle che non andavo in giro a fare l’oca, ma per impadronirmi della guida. E come me ne sono impadronita! La mia prima giornata francese ne era la riprova.
Era giunto il turno di Galatea… del mio pensiero riconoscente per la mia amica. Galatea aveva condiviso tutto il mio entusiasmo per questo viaggio e, se possibile, ne aveva aggiunto altro. Sapeva che se avessi potuto avrei voluto fare anch’io i suoi stessi studi. Lei, con generosità, colmava così i miei vuoti culturali. Nonostante fosse di famiglia benestante e piuttosto colta non si era fatta problemi a scegliere me come amica e io le ero grata anche di questo.
Infine mio fratello Moreno. Moreno aveva dieci anni meno di me. «Un incidente di percorso», come spesso avevo sentito dire da mia madre. Ed era omosessuale. Ero l’unica a saperlo. L’unica a cui lo aveva confidato. Alla gente immagino apparisse effeminato ma, per la sua giovanissima età, non era stato ancora oggetto di vere e proprie critiche. Credo che in paese nessuno dicesse, in quel periodo, «quel finocchio del figlio del Pellegrini» come, tranquillamente, avrebbero detto in seguito. In quanto bravo a scuola e, soprattutto, in quanto maschio gli era stato permesso fare il liceo classico a Empoli. Così, sovente, era Galatea che, nel venirmi a trovare, lo riportava da scuola a casa nostra con la Ritmo di sua madre. Galatea, mio fratello ed io formavamo una specie di confraternita. Ero grata anche a lui perché, seppur giovanissimo, mi aveva sempre appoggiata e difesa, sia quando mia madre brontolava per le nostre finanze sia quando mio padre pensava male del Pocai. Ma soprattutto aveva condiviso i suoi studi con me, la passione comune per un italiano senza cadenze né intercalari troppo marcati ed era, infine, diventato il mio referente letterario.
Il mattino dopo pioveva. La pioggia fece sì che mi prendessi una giornata di riposo. Ne avevo bisogno, dopo tutti quei chilometri. Fatta colazione mi vestii. Misi addosso uno di quegli orribili, ma comodissimi, impermeabili trasparenti over-size e uscii. Vagabondai prima al “sentiero dei pittori” fino a la Plage d’Escluse, poi tornai al porticciolo, in un clima nordico che iniziai a capire che mi corrispondeva più della luce e del caldo del Mediterraneo. Mi vennero in mente certe caratteristiche di quelli del segno della Vergine che mio fratello – lettore clandestino di Pier Vittorio Tondelli che si faceva comprare da Galatea a Empoli – aveva trovato in non ricordo quale suo scritto o intervista: «Quelli della Vergine forse sono un po’ così: un po’ malinconici, un po’ autunnali, solitari, pignoli, pessimi partner e ottimi singoli. Hanno una grande vita interiore che non necessita di mondanità per esprimersi. Nello stesso tempo forse sono fin troppo preda di umor nero, di attacchi di atrabile, insomma di malinconia». Sì, era una descrizione perfetta anche per me. Ero malinconica, solitaria, pessima partner. Pessima partner… e chi mai aveva avuto un ragazzo? L’avevo mai desiderato? Ero poco attraente? E dove avrei trovato il tempo? In quanto a ottima singola sì, questo sì, e proprio qui, a Dinard, ne avevo la prova.
Avrei voluto cercare anche il caffè della farfalla montaliana, ma non mi ero segnata il nome. Lasciai perdere. Vagai a lungo, seguii la Promenade de Moulinet e giunsi fino a la pointe du Malouine, lasciando liberi i miei occhi di catturare tutta la bellezza che si offriva loro.
La sera decisi di cenare in albergo. Continuavo ad avere bisogno di riposo e pensavo fosse meglio riordinare le mie idee anche in previsione dell’incontro del lunedì. Salii presto in camera. Andai sul balconcino a guardare la Manica avvolta in una nebbiolina di piccolissime gocce di pioggia. Qualcosa in me non andava. Mi sembrava di non avere mai vissuto prima. Se solo avessi potuto avrei cancellato tutta la mia vita precedente. Qui, non so perché, da questa nuova ottica, da questo metro quadro di balconcino sul mare, la mia vita mi appariva volgare. Volgare era il mio paese, volgare la gente che lo abitava, volgari anche i miei genitori. Mio padre con quel suo “uccello randagio” riferito a Claudio e mia madre coi suoi soldi… Ripensai a Tondelli e all’ “umor nero” di quelli della “Vergine”. Chissà, forse era solo per quello. Lo sperai. Fu in quel momento che suonò il telefono di camera. Rientrai a rispondere. Era Claudio: «E allora?».
«Claudio, è tutto magnifico qui. Ieri ho visto i figli Beauregard e ho cenato con loro. Sono stati gentilissimi. Ma questa sera ho preferito riposarmi e riguardare certe cose. Non vorrei mai farti fare una brutta figura lunedì a Fougères.»
«Ma che dici? Brutta figura? Mi farai fare ma un’ottima figura. Ora pensa a riposare e a divertirti». Avrei voluto dirgli ancora qualcosa, ma non feci in tempo, perché, come sempre, lui riattaccò immediatamente.
Chiamai allora Santa Croce sull’Arno. Volevo salutare i miei. Era il dovere che mi spingeva a quella telefonata. Il dovere di una figlia devota, ma in quel momento in fuga sia fisicamente che mentalmente. Al solito mia madre mi innervosì.
Vorrei veramente non aver perso l’agenda di quell’anno. La memoria ora non mi aiuta. Mi sembra di ricordare, però, che arrivai a Fougères – dopo essere partita nel pomeriggio della domenica da Dinard – verso le 20. Vagamente ricordo un viaggio di più di un’ora. Ormai consideravo la R5 la mia macchina. L’hotel Voyageurs era in pieno centro. Salii in camera e attesi la telefonata. Non dovetti aspettare troppo. Neanche cinque minuti e il telefono squillò. Era Jean-Paul. Si scusava, ma lui e la moglie avevano, per quella sera, un impegno. In ogni caso, mi assicurava, Pierre e Céline sarebbero stati felici di passare la serata con me. Gli dissi che non era necessario, ma lui mi rispose che erano già partiti per venirmi a prendere. Rapidamente mi cambiai e scesi.
Quando mi videro arrivare mi vennero incontro festosi. Mi accorgevo che nonostante venissimo da mondi diversi e loro avessero un’innata disinvoltura di movimenti, riuscivano a mettermi a mio agio. Ero diversa da loro, inelegante, rigida nel muovermi e tuttavia quando ero con loro mi sentivo con dei coetanei. Non mi era mai successo al mio paese. E la mia malinconia, la mia pensosità lasciava posto con Céline, ma soprattutto con Pierre, a una voglia di vivere che avevo sempre represso e che non credevo mi appartenesse.
Andammo a piedi al ristorante. Facemmo una camminata fino al castello feudale. Pierre mi fece notare le tredici torri e mi disse che Balzac aveva preso spunto da qui per il suo dramma storico “Les Chouans”. Rimasi stupita. Due sere prima i suoi argomenti preferiti erano le discoteche e ora si sentiva in dovere di farmi da cicerone al posto del fratello? Ebbi, però, prima del previsto, la spiegazione.
«Mia madre ci ha ossessionati, mio fratello e me, con la storia e la letteratura. Poi qualcosa per forza resta… ».
E sua madre, quando finalmente giungemmo al ristorante, fu l’argomento della nostra serata.
Nadine Razimbaud era un’insegnante di storia. Nonostante la posizione del marito aveva continuato il suo lavoro anche dopo la nascita dei figli.
«Non ti so dire perché si separarono, ma di certo per me fu un grande dolore. Jean-Paul era già all’università e viveva fuori casa. Io rimasi con mia madre solo, a finire il liceo. Quell’anno venni bocciato. Mia madre, che era molto severa, quella volta non mi disse nulla. Severa… forse furono proprio il suo rigore, la sua serietà e la sua severità ad allontanare mio padre. Forse se fosse venuta meno a certi principi per lei inderogabili… ».
«Quali?» lo incalzai incuriosita.
«L’orgoglio di non dipendere, il poter dire di essere indipendente nonostante il marito facoltoso».
«A me, Pierre, sembra una cosa degnissima. A Santa Croce le donne si fanno mantenere volentieri.»
«E fanno bene!».
«Perché, scusa?».
«Vedi, Luana, se usi la ragione non puoi non essere d’accordo con la parità dei sessi. Quindi con l’indipendenza della donna. Ma se invece della ragione prendi in considerazione il modo di sentire di un uomo che, attenta, non è ancora il mio, ma lo sarà – ne sono quasi certo – tra pochi anni, allora capirai che un uomo si sente tale se è lui e solo lui a mantenere la famiglia, lui, in modo più o meno diretto, a guidarla. È banalmente una questione di tradizioni, ma talmente radicate che qualunque variazione porta a una devianza. Mio padre è un uomo aperto, colto e serio. Ma, evidentemente, non ama le devianze».
«Tu ne hai sofferto molto?».
«Molto? Moltissimo! Ma ho tenuto tutto dentro di me. Neppure con Jean-Paul mi sono mai confidato. Sai, noi francesi restiamo comunque dei cartesiani convinti. A tutto diamo una spiegazione. E poi non sbandieriamo i nostri sentimenti. Peccato, però, che io ancora non me la sia data questa spiegazione e che ancora soffra a sapere mia madre a Fougères, nella nostra vecchia casa, e mio padre, in campagna, con Alphonsine e Raoul».
«Mio povero Pierrot», intervenne abbracciandolo Céline. Ma lui, quasi infastidito, le staccò le braccia dal collo.
La cena si concluse in modo più leggero. Toccammo addirittura il ‘fondo’ della leggerezza. Ci domandammo, seguendo quanto proposto da un settimanale, se eravamo uomini-bagno o uomini-doccia. Pierre ed io eravamo per la vasca da bagno, dove appisolarsi e sognare. Céline, senza il minimo dubbio, per la doccia: rapida, veloce, eccitante.
Iniziavo a capire che l’esuberanza di Pierre era solo un paravento dietro cui nascondere la sua sofferenza. Per questo ebbi l’accortezza di non chiedergli chi fossero Alphonsine e Raoul.
Il giorno dopo era il fatidico lunedì. Secondo gli accordi presi con Pierre la sera prima, alle 15 in punto trovai i due fratelli ad attendermi nella hall. Con la loro auto uscimmo da Fougères e ci dirigemmo verso la casa del padre, in campagna.
Il tragitto non fu lungo e, dal momento che i fratelli parlavano tra loro, io mi abbandonai alla bellezza del panorama.
Georges Beauregard abitava in una grande casa a un solo piano. Fu per quel motivo che non mi fu possibile vederla dall’esterno prima che qualcuno venisse ad aprire il cancello. Aveva delle enormi finestre ed era immersa nel verde. Il padre ci aspettava dentro una vasta sala e quando entrammo mi venne subito incontro. Era un uomo molto distinto. Stessa sobrietà nel vestire dei figli, stessi capelli, lisci e folti, di Jean-Paul, ma grigi. Mi sorrise e mi pregò di accomodarmi. Il sorriso era lo stesso di Pierre. Doveva avere all’incirca sessant’anni. Mi chiese di Claudio. Si disse dispiaciuto che non fosse venuto e che non avesse potuto godere, con la moglie, di un fine settimana a Dinard. Ma si dichiarò felice che una giovane come me avesse potuto sostituirlo sia nella breve vacanza che nel lavoro.
«Perché il signor Pocai non avrebbe mandato chiunque» concluse.
Mi sentii avvampare dalla vergogna e dalla paura della mia inadeguatezza. Lui intanto salutava i figli con un distacco che denotava la sua indiscussa superiorità. In modo diverso mi accorsi che sia Jean-Paul che Pierre lo guardavano con ammirazione e rispetto. Per il resto non ricordo nulla riguardo le trattative, solo che quando presi dalla mia ventiquattrore la mazzetta dei colori delle pelli disponibili alla Colorado mi accorsi che ne rivedevo i colori di Monet. Ogni pezzettino di pelle colorata una pennellata diversa. Non mi era mai successo prima.
«È proprio in gamba, signorina» concluse Georges Beauregard quando, dopo più di un’ora, giungemmo all’accordo. Mi sembrava impossibile eppure ero riuscita a ottenere quello che Claudio voleva.
Fu allora che entrò nella grande sala un piccolo e ricciuto bambino nero. Corse in braccio a Jean-Paul. Poi, al richiamo di Pierre: «Raoul, da me adesso» si staccò dal più grande per salire sulle gambe dell’altro. Era il nuovo fratellino. Ma non era figlio di Nadine Razimbaud. La madre, Alphonsine, ripetendo: «Raoul, Raoul, vieni qui, non dar fastidio» si avvicinò ai figli del marito che prontamente si alzarono e la baciarono. Aveva la loro stessa età. Le venni presentata anch’io. Ci volle offrire da bere. I fratelli chiesero un succo di frutta. Il marito ed io niente. Raoul continuava a correre da un fratello all’altro e anche verso il padre. Fu così che Alphonsine mi propose di fare un giro fuori con lei e il bambino. Era chiaro che non voleva che gli uomini venissero disturbati. Raccolse sulla porta la sua borsa – un cesto rigido delizioso – e si avviò in giardino col piccolo per mano e me dietro.
«È meraviglioso qui» non potei fare a meno di dire.
«Sì, è molto bello» confermò Alphonsine.
Ora, sole e all’aperto, mi era più facile guardarla. Era nera come Raoul e come quella di Raoul la sua testa era tutta un riccio. Non sapeva di parrucchiere: aveva ricci selvaggi e naturali. Era molto bella. Di una bellezza garbata. Ma quello che mi colpì di più fu il suo abito: un vestito di cotone di un azzurro intenso stampato a margheritine gialle. Senza maniche, aderente in vita, svasato sui fianchi, abbondantemente sotto le ginocchia.
Non riuscii a trattenermi dal dirle: «Mi piace molto il tuo vestito».
«È vostro» mi rispose Alphonsine.
«Come “nostro”?».
«Sì, è di Valentino. Me lo ha regalato Georges».
Fu così che iniziò a parlarmi di Georges e di lei. Si erano conosciuti nella Guyana francese, dove lei viveva e lui era in vacanza. Si era offerto di pagarle gli studi. Ma non c’era stato nulla tra loro. Tornato a Fougères aveva iniziato a telefonarle. Il loro unico contatto era stato quello telefonico. Costante e regolare. Dopo qualche anno era tornato e solo allora qualcosa era successo. Poi lui, con decisione, aveva chiesto di sposarla.
«Poco dopo è nato Raoul» mi disse guardando il piccolino correre nel prato.
«E chi hai lasciato in Guyana?».
«Mia madre che è vedova».
«E non la vedi mai?».
«Oh sì, una volta è venuta qui. Quando nacque Raoul. Ora vorrei andarla a trovare, ma Georges non vuole che mi allontani».
«E non può venire lei da te?».
«Mia madre non si può permettere un viaggio del genere. E io non voglio chiedere i soldi a Georges».
«Sei felice con lui?» non riuscii a trattenermi dal chiederle.
«Sì, ma sono anche molto sola. I suoi figli sono gentilissimi con me e affettuosi con Raoul. Ma io ho timore ogni volta che vado a Fougères di incontrare la loro madre. Colta, raffinata… Mi sento fuori posto. Ho timore che creda che il marito abbia chiesto il divorzio per volere mio. No, non è stato così. Loro erano separati da diversi anni. È che i francesi non parlano, sono superiori alle passioni … e io tutti questi miei tormenti li tengo per me. Non oso neppure parlarne con Georges».
«Perché? Non ti capirebbe?».
«Forse sì. Ma mi hanno contagiato con il pudore dei sentimenti, i Beauregard e i francesi tutti. E non ti scordare la differenza d’età. Ci sono più di trent’anni tra noi».
Poi volle sapere di me. Scoprimmo di avere la stessa età e la stessa modesta origine. Mi piaceva parlare con lei. Mi ascoltava con attenzione e con interesse. Ogni tanto mi prendeva sotto braccio. Ero attratta dalla sua grazia. Neppure Galatea aveva un modo di fare così.
Infine rientrammo e ci unimmo nella grande sala agli altri. Pierre era particolarmente gentile con Alphonsine. Me ne accorsi quando le disse: «Sei molto carina con questo vestito».
Capii che Pierre, che tutta la sera precedente non aveva fatto che parlarmi della madre, non doveva avere nulla contro la nuova donna del padre. Forse, al contrario, provava per lei un senso di protezione e di tenerezza.
La sera rifiutai decisamente il loro invito e decisi di starmene sola. Di scuse ne avevo e, tra queste, il viaggio del giorno successivo. Non feci fatica a convincerli. Jean-Paul rimase a casa del padre in attesa che Julie lo passasse a prendere. Fu così che a riaccompagnarmi in albergo fu Pierre. E i nostri discorsi furono quelli di due vecchi amici. Quando mi lasciò non tralasciò, infatti, di baciarmi.
Cenai rapidamente nel ristorante dell’hotel. Speravo di andare presto in camera per telefonare a Claudio. Ancora una volta fu lui a precedermi e, mentre ancora ero a tavola, un cameriere mi portò il telefono: «È per lei, signorina».
«Ciao, Claudio, è andato tutto come volevi. L’ordine è stato fatto e le tue modalità di pagamento sono state accettate. E Georges Beauregard ha detto che sono in gamba!».
«Mi vuoi dire perché parli così piano?».
«Sono a tavola, qui nel ristorante dell’albergo» bisbigliai nuovamente.
«E allora! Tira fuori la voce. Non fai mica male a nessuno».
No, io la voce non l’avrei proprio tirata fuori. Se fosse riuscito a sentire bene altrimenti avrebbe dovuto aspettare che gli dicessi tutto mercoledì in conceria.
In camera ripensai con nostalgia ai Beauregard. Tutti avevano ai miei occhi qualcosa di attraente. Loro come persone, le loro vite, i loro modi di fare. Erano un altro mondo per me. Un mondo da cui mi costava fatica distaccarmi.
Chiamai casa: «Arrivo a Pisa alle 18. Mi puoi venire a prendere, babbo?».
«O che ti sembra? Quant’è vera la Madonna alle 17 e 30 sarò già lì» mi rispose affettuoso, ma quella sua voce così sgraziata e forte mi infastidì.
Il martedì mi aspettava un viaggio di quasi quattro ore per Orly. Scesi presto nella hall. Pagai il conto. Quando stavo per andarmene un cameriere mi fermò: «Hanno portato questo per lei, signorina» e mi consegnò un bouquet di roselline rosa. Aprii il biglietto che lo accompagnava. «Faccia un buon viaggio! Georges, Jean-Paul e Pierre Beauregard» e più sotto «È stato un piacere averti conosciuta. A presto! Pierre B.». Mi misi in macchina. La R5 era ormai la mia fedele amica. Solo allora trovai il tempo di infilare nel mangianastri la cassetta che mi aveva regalato Galatea.
Viaggiai fino a Chartres sentendo ininterrottamente Caruso di Dalla. Quella canzone struggente ero lo specchio fedele dello struggimento che provavo a lasciare la Francia. Feci una rapida visita alla Cattedrale. Ora ero decisamente “malinconica e autunnale”. Poi, in compagnia della mia R5 e di Dalla giunsi a Parigi.
Rientrare in conceria dopo il viaggio fu piuttosto pesante. Le altre impiegate mal digerivano che la scelta di Claudio fosse caduta su di me e non su una di loro. Io, l’ultima arrivata. Non tenevano conto che io parlavo un francese quasi perfetto e che loro masticavano solo poche parole d’inglese. La loro invidia era palese. Verena, ormai, mi chiamava con scherno “la francese”. «Ditelo alla francese», «Portatelo alla francese» erano le frasi con cui quotidianamente dovevo convivere. Ma il mio titolare continuava a trattarmi bene e a coinvolgermi in molte delle sue trattative. Si era creata, ormai, tra noi una certa intimità. Un’intimità lavorativa, ovviamente. A volte mi succedeva persino di entrare nel suo ufficio senza bussare. Me ne scusavo prontamente. Lui non se ne faceva né in qua né in là, come dicono al mio paese. Erano sempre telefonate di lavoro quelle che mi succedeva di ascoltare quando distrattamente entravo senza bussare. Solo una volta lo sentii dire ridendo e con tenerezza: «La Girmi dei miei coglioni». Stava sicuramente parlando con una donna.
Rimasi alla Colorado per quattro anni fino a quando non conobbi Luciano. Avevo trent’anni. Un’anomalia della natura, una scheggia impazzita: ecco quello che ero io che fino ad allora non avevo mai neanche baciato un ragazzo. E, anomalia per anomalia, neppure ne sentivo il bisogno. Forse ero compensata dalla mia capacità di vivere la vita degli altri, oltre che, come “Vergine”, dal fatto di avere “una grande vita interiore”.
Il vivere la vita degli altri era, soprattutto, il vivere la vita e gli amori di Galatea. La mia amica, a differenza mia, passava da un ragazzo all’altro. «Sto cercando quello giusto» si giustificava. Per mio padre era una poco di buono: «O che vuol dire una ragazza che cambia sempre? Ricorda, nina: l’uomo che cambia è ganzo, la donna è troia». Lo odiavo quando mi faceva questi discorsi. Avrei voluto gridare in faccia a lui e a mia madre perché non si fossero mai fatti delle domande. Due figli: uno omosessuale, l’altra una scheggia impazzita. Cos’ero io altrimenti? Che donna ero? Brava, buona, affidabile: questo voleva dire essere donna? Può una donna essere una donna senza fare i conti con il proprio corpo?
Luciano Masini aveva tre anni più di me. Era venuto un giorno alla Colorado per una prova di colori. Claudio mi aveva avvertita del suo arrivo e mi aveva detto di interessarmene. Lo avevo così accompagnato io alle spruzzatrici. Io lo avevo presentato a chi se ne occupava. Ero l’unica disponibile in quel momento. Era venuto poi su, negli uffici, per ringraziarmi. Era già tardi e me ne stavo andando. Ero abituata a camminare veloce verso casa quando, come quella sera, non avevo la Golf di Claudio a disposizione. Scendemmo insieme nel piazzale e lo salutai. Mi vide allontanarmi a piedi. Allora si accostò con la sua Uno nera e si offrì di darmi un passaggio. Era un ragazzo educato e sapevo che stava cercando di mettersi in proprio con una sua piccola conceria, la Vascello.
Mi parlò della sua vita. Era perito conciario. Poi, con fatica, si era laureato in chimica. Aveva lavorato e studiato. Ora era tormentato e al tempo stesso entusiasta di tentare il grande salto: un’attività solo sua. Non era di famiglia ricca, tutt’altro. Ma era molto stimato e le banche si erano rese disponibili a concedergli prestiti. Mi accorsi che si infervorava quando parlava del suo progetto. Se ne accorse anche lui e ne ridemmo insieme.
Me lo trovai in seguito altre volte ad attendermi nel piazzale quando uscivo dalla Colorado e non uscivo mai alla stessa ora né, soprattutto, presto. Stavo a disposizione di Claudio o dei clienti fino all’ultimo e senza mai guardare l’ora.
Una sera mi invitò ad andare al cinema a Empoli. Davano «L’attimo fuggente». Entrambi rimpiangemmo di non aver mai incontrato un professore come Robin Williams. Ci furono poi altre uscite e sempre al cinema che piaceva a entrambi. Vedemmo, su consiglio di Galatea, «Romuald e Juliette». «Guarda che quella Juliette non ha nulla a che vedere con la tua Julie, ma il film è una delizia». La mia amica alludeva a Julie Beauregard, la moglie di Jean-Paul. Come sempre riusciva a ricordare tutto quanto mi riguardasse e, anche quella volta, non si era scordata di come io avessi subito il fascino di Julie oltre quello, ovviamente, di Alphonsine.
Ci divertimmo molto. Poi fu la volta de «La guerra dei Roses» e nella scena finale in cui esplode tutta la violenza tra i due coniugi, Luciano, appoggiandomi una mano sulla spalla, mi bisbigliò all’orecchio: «Non vorrei mai una cosa del genere tra noi».
Luciano non era una scheggia impazzita come me. Aveva avuto le sue ragazze e diversi amici. E quella fu la prima avance che mi fece.
Me lo sono chiesta per molto tempo e anche ora non mi so rispondere di come tutto sia successo. In ogni caso, senza passioni travolgenti, con la calma e la pazienza di Luciano, io scoprii di avere anche un corpo. Ma tuttavia la serietà e l’entusiasmo per il lavoro erano le cose che più ci unirono. Non so proprio dire perché, se per fare finalmente qualcosa di gradito a mia madre o per dare una svolta alla mia vita, ma nel giro di breve tempo ci sposammo, andammo a vivere per conto nostro, lasciai la Colorado, iniziai a interessarmi alla Vascello. Mio marito non avrebbe più permesso che io lavorassi fianco a fianco con Claudio né, addirittura, che lavorassi, se non per dare una mano a lui. E, nella sua nuova e ambita veste di piccolo – piccolissimo – imprenditore, mi volle a casa.
Tre anni dopo nacque mio figlio. Non so se fu una grande felicità come del resto non so se lo era stata sposare Luciano. Mi sembrava che alla mia età certe cose andassero fatte. E se per mio marito, pur non avendo una grossa passione, avevo stima e rispetto, per mio figlio sapevo esattamente cosa volevo: che la sua vita fosse diversa dalla mia, ma anche da quella di tutti quelli di Santa Croce. Mi sarei impegnata con tutte le mie forze perché se ne andasse a vivere via. La Francia, Dinard e i Beauregard non mi si toglievano proprio dalla mente. E, da ultimo, trasgredendo le tradizioni, volli essere io – io sola – a decidere il suo nome.
Ieri pomeriggio ero con mio figlio Pietro (sì, proprio il nome del giovane Beauregard) “sui fossi”, come a Santa Croce viene chiamata una delle due grandi piazze. Quando ero ragazza, quando ancora lavoravo alla Colorado, “i fossi” erano un luogo per soli uomini. Non si sarebbe vista nessuna donna, in quel periodo, entrare al caffè da Renata senza suscitare pettegolezzi. Ora i tempi sono decisamente cambiati ed io ero lì per prendere un gelato in attesa di accompagnare mio figlio alla lezione d’inglese. C’era sole, quel sole di giugno già estivo e insopportabile sull’asfalto delle città. Il sole tremendo delle cittadine industriali. Vidi in lontananza due figure. Forse un uomo e una donna. Camminavano verso di noi o noi verso di loro. Non feci in tempo ad accorgermi che erano il Pocai e la moglie che lui subito mi chiamò: «Luana, dio bono, ma dove eri finita?». Non ricordo cosa gli risposi. So solo che mi buttai tra le sue braccia, senza pensare se lo facessi come con un padre, con un fratello o… Non pensai neppure a quella sua moglie, bionda e scipita. Una ex bella donna. I colori della Madonna, con quegli occhi azzurri… Ora, appesantita per gli anni, se ne stava in disparte e, come sempre, sulle sue. Certo essere la moglie di Claudio non doveva essere stato facile, ma a lei bastava avere un ruolo in società e, soprattutto, avere soldi. Ma Claudio? Matto, donnaiolo, stravagante, originale e geniale nel suo lavoro non sarebbe stato meglio con un’altra? Con un’altra forse… forse come me? Così, nella frazione di secondo in cui restammo abbracciati, mi accorsi di averlo sempre, inconsapevolmente, amato e, di più, che anche lui aveva provato qualcosa per me in quanto donna. Capii che gli piacevo. E di certo non per la bellezza, né per la grazia o la femminilità. No, non sono doti che possiedo. Ma di sicuro per il mio riserbo, la mia tenacia e, soprattutto, per l’entusiasmo che metto in ogni cosa che faccio.
Io sua moglie… Mi avrebbe tradito né più né meno di quanto non avesse fatto con Desirée, ma io non me ne sarei lamentata e non per tacita sopportazione. Che sarebbe stato, del resto, un marito come Claudio senza donne, senza fughe, senza libertà? Io l’avrei amato così, senza angosciarlo né con i soldi né con la gelosia né mostrandogli un volto da martire. E lui? Lui mi avrebbe dato la sua stima e mi sarebbe stato accanto ogni volta che avessi superato una prova per lui. E per lui io avrei superato qualsiasi ostacolo.
Quando ci staccammo si rivolse a Pietro: «E questo giovanottino?».
«È mio figlio» risposi con un certo imbarazzo, come se quel figlio fosse la prova tangibile di un tradimento, «lo sto portando a lezione d’inglese».
«Per il francese non avrà problemi con una mamma come te! Ah, Desirée, questa è Luana, in assoluto la migliore delle mie impiegate. Poi si è sposata e mi ha abbandonato… ».
«Tutte facciamo, prima o poi, lo stesso errore» mi disse la moglie mentre mi porgeva la mano con un bellissimo anello. Pensai a un dono di Claudio perché non era l’anello di una ricca qualunque. Claudio aveva decisamente buon gusto. Certo sulla mia mano corta quell’anello non avrebbe fatto la stessa figura… Che donna scostante, che freddezza, però! D’accordo, in conceria tutti dicevano che la Pocai era laureata in legge, ma poi nessuno si commuoveva più di tanto dal momento che non aveva mai lavorato. E perché uscire con quella stupida affermazione? Lo stesso errore… Non riuscivo a considerare un errore neppure l’avere sposato Luciano. Se poi, anziché Luciano, fosse stato Claudio mio marito tutto avrei potuto dire, ma mai avrei parlato di errore. Sarebbe stato un matrimonio difficile. Di questo sono convinta. Ma sono altrettanto convinta che sarei stata orgogliosa della mia scelta, della scelta di un uomo non comune.
Solo adesso lo capivo però. Adesso che ormai i giochi erano fatti e che nessuno sarebbe più tornato sui suoi passi. Galatea, all’epoca della Colorado, mi aveva in effetti chiesto come mi sentissi a lavorare con lui. Poi era uscita con un: «Non è che te innamorerai?». Mi chiedevo ora perché me l’avesse chiesto. Intuizione femminile? Forse aveva capito già allora quello che io avrei messo a fuoco solo dopo ventitré anni?
Claudio volle offrire a me e a Pietro qualcosa da bere. Io, con una scusa, non accettai. Sentivo insopportabile la presenza di Desirée accanto a noi. E così, come ci eravamo incontrati, ci lasciammo. Senza abbracci, questa volta.
Portai mio figlio alla lezione d’inglese. Rinunciai al gelato. La sera, a casa, mi sentivo strana. Luciano se ne accorse e mi chiese se non stessi bene. «Sarà il caldo» mentii. Ma quando fummo nel letto e lui allungò una mano verso di me fui io a dirgli, questa volta, di non sentirmi bene.
Oggi, usciti Luciano per andare alla Vascello e Pietro a una partita di calcetto, ho preso la decisione. Ho sollevato la cornetta (odio i cordless) e ho fatto il numero della Colorado. «Bah, chi si sente! La francese!» mi ha investito con la sua voce volgare Verena. Le ho chiesto di Claudio. Mi ha detto che era nel suo ufficio e che me lo avrebbe passato.
«Senti, Claudio, sono passati molti anni e io sono ormai una signora âgée… ».
«Che non perde occasione per parlare francese… ».
«No, no… è che cerco di ironizzare per riuscire a farti una domanda».
«E che domanda?».
«Insomma… ».
«Insomma?».
«Ecco: vorrei sapere perché non ci hai mai provato con me. Sono così brutta?».
«Ma che dici! Senti, Luana, perché non si va a bere un caffè così… ».
«E chi avrebbe il coraggio di guardarti dopo quello che ti ho chiesto? No, ho bisogno di distanza. Già sono imbarazzata così. Figuriamoci a trovarti davanti. Però rispondimi e sinceramente».
«Non voglio dire che tu hai messo me in imbarazzo ora, ma di certo non mi aspettavo una simile domanda».
«Hai ragione, scusami. Fa come se non ci fosse mai stata questa telefonata. Ciao».
«E no, non riattaccare. Io ti voglio rispondere e, ci puoi giurare, ti dirò la verità».
«La verità. È importante, Claudio».
«Non ti ho mai considerata brutta. Guarda che un donnaiolo è un donnaiolo, non un esteta. E per un donnaiolo non c’è donna che non meriti di… ».
«Tralascia le volgarità e cerca di spiegarmi. Ma soprattutto rispondimi… rispondi in modo sincero alla mia domanda».
«O dammi tempo, benedetta figliola! Non fare la frulla coglioni come tutte le donne».
«Già! Frulla coglioni. Una volta ti sentii dire a una al telefono “la Girmi dei miei coglioni”. Mi facesti ridere. Se non è un segreto, chi era?».
«L’unica donna che ho amato».
«E perché non l’hai sposata?».
«Perché lei non mi ha voluto. Di sicuro mi ha amato, ma ha amato di più la sua libertà. Sarei stato pronto a lasciare Desirée per lei. Come vedi anche i donnaioli piangono. Ma adesso ascoltami. Tu non sei quello che si dice una bellona, ma non sei neppure brutta. Negli anni in cui hai lavorato per me io ti ho ammirata molto. Eri seria, lavoratrice, piena di entusiasmo. L’entusiasmo è contagioso, sai. Io sono un ricco di seconda generazione. Mio padre ha fatto la fortuna e aveva entusiasmo. Io sono un viziato, non ho mai saputo cosa fosse la fatica, ma non ho neppure avuto entusiasmi più di tanto».
«Ma hai sempre lavorato anche tu!».
«Sì, certo. Ho lavorato e non ho dissipato. Ma è diverso, credimi, che creare tutto dal nulla. Io vedevo in te qualcosa che mi ricordava mio padre».
«Allora mi vedevi come un uomo?».
«Ovvía, non fare la stupida che non lo sei. Vedevo e ammiravo le qualità di chi non è stato privilegiato dalla vita. E poi, non credere, ti vedevo anche come donna. Ogni uomo che non sia il padre guarda una donna come donna, mai come una figlia. È di tutti gli uomini. Non solo dei donnaioli. Lo ricordi quando andammo insieme a Milano? Mi piaceva sbirciare come ti muovevi con i miei clienti, come superavi certe riottosità del tuo carattere per essere all’altezza della situazione».
«Per me era una cosa impensabile: andare col mio titolare fino a Milano. E solo dopo il primo mese di assunzione».
«Andare e tornare e… guidare. Al ritorno guidasti tu quel mio cassone di Volvo».
«Non avevo mai guidato una macchina così grande, ma ero felice che tu me lo avessi chiesto. Ti ho mai detto che mio padre mi metteva sempre in guardia nei tuoi confronti?».
«Tuo padre… Chiunque avrebbe detto che aveva ragione, ma nel tuo caso si sbagliava. Io avevo rispetto per te. Io non mi sarei mai permesso di fare lo stupido con te. E non per i vent’anni o più che ci separavano. È che non eri il tipo con cui divertirsi una sera. Mi sembravi di un’altra pasta. E, in ogni caso, con te sarebbe stata una faccenda diversa. Mi suscitavi tenerezza e ho avuto, per una volta, un po’ di buon senso. E ho preferito lasciar perdere».
«Ti ringrazio, Claudio, della tua sincerità e della tua franchezza».
«Comunque ieri eri anche bella. Con quel vestito anni ’40. Così semplice e così di classe. Così sciolta nel muoverti. Mi chiedevo chi fosse quella donna che veniva verso di noi. Non ho perso, come vedi, il vizio di guardarle le donne, neppure ora che navigo sulla settantina. E questa volta eri tu ad attirare la mia attenzione».
«Sai, il viaggio in Bretagna mi è servito molto. Anche per capire cosa sia la vera eleganza».
«Non vuoi proprio che ci vediamo per un caffè?».
«No… è meglio di no».
Ho riattaccato il telefono. Ora avevo coscienza di avere un corpo. Ora sapevo che il mio corpo aveva dei desideri e che suscitava dei desideri. Claudio. Claudio… Sarebbe bastato così poco per avere un attimo di nostra felicità. Bastava che ti dicessi di sì per un caffè e tutto il resto sarebbe venuto spontaneamente… e non solo per te. Ma, ho continuato a ripetermi, è meglio di no. Ancora una volta la vecchia brava ragazza ha avuto la meglio… e questa volta sulla nuova donna.
Ho preso la borsa, controllato di avere i soldi e mi sono preparata per uscire a far la spesa. Poi è stato più forte di me. Ho rifatto il numero della Colorado. Mi ha risposto direttamente Claudio.
«Scusami, sono sempre io. Non è una scusa per risentirti, credimi. Volevo farti questa domanda. Li vedi ancora i Beauregard?».
«No. È molto tempo che non lavoriamo più con loro. Ho saputo solo che Pierre, il più giovane dei due fratelli, si è sparato un colpo. Per il resto nient’altro».
La cornetta del telefono mi è caduta dalle mani. L’ho raccolta e rimessa al suo posto. Ho preso la borsa e ho chiuso la porta. Poi sono uscita nel sole di giugno, quel sole di giugno tremendo nelle cittadine industriali, insopportabile sull’asfalto delle città.
Fiumetto, 30 agosto 2009
La foto di apertura è di Mariapia Frigerio
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