Saperi

“Italo”, un omaggio al centenario della nascita di Calvino

Libri per l’autunno 2023. 15 ottobre 1923 – 15 ottobre 2023. Proprio in occasione di questo anniversario, Ernesto Ferrero ha pubblicato per Einaudi un vero e proprio ritratto di uno dei maggiori scrittori italiani del Novecento. Una biografia non appesantita da note e rimandi bibliografici, ma un romanzo in cui s’intrecciano vissuti dietro le quinte, nei tratti caratteriali meno noti, nei risvolti privati, e drammi esistenziali, politici e amorosi, che hanno inciso profondamente nella produzione letteraria dell’autore

Alfonso Pascale

“Italo”, un omaggio al centenario della nascita di Calvino

Nel centenario della nascita di Italo Calvino, che ricorre quest’anno, la casa editrice Einaudi ha pubblicato un bel libro di Ernesto Ferrero, Italo.

L’autore ha lavorato lungamente nell’editoria e ha scritto numerosi romanzi. E, appunto, come un romanzo si legge questa biografia che si snoda nei vent’anni d’impegno dello scrittore presso Einaudi.

Una biografia non appesantita da note e rimandi bibliografici. Ma un vero e proprio ritratto, in cui sapientemente s’intrecciano vissuti dietro le quinte, nei tratti caratteriali meno noti, nei risvolti privati, e drammi esistenziali, politici e amorosi, che incidono profondamente nella produzione letteraria dello scrittore.

Mi soffermerò esclusivamente sul breve periodo d’intenso impegno nella politica attiva per comprendere non solo un aspetto importante che caratterizza questa straordinaria figura intellettuale del secondo Novecento, ma anche uno snodo tragico della storia culturale del Paese.

Calvino entra nel Pci a vent’anni nel cuore della lotta armata di liberazione. Vive da comunista gran parte della sua formazione culturale e letteraria. Diventa scrittore lavorando non solo sulla miriade di bozze che passano per la casa editrice torinese, ma anche sulle colonne del giornale del partito.

La prima volta che parla con Giulio Einaudi ha da questi una proposta di lavoro: promuovere la casa editrice nelle fabbriche, nelle associazioni, negli uffici. Non c’era posto in redazione.

«Non un commesso viaggiatore – precisa l’editore – ma una specie di propagandista culturale, un mestiere per cui occorre un intellettuale».

Calvino crede che quel lavoro non sia il suo mestiere. Ma è sempre un modo per conoscere uomini e ambienti: tre mesi con un minimo di stipendio più una percentuale sugli incassi, poi si vedrà. All’”Unità” ottiene, invece, una «rubrichetta di spunti culturali analizzati marxisticamente».

Nel frattempo, scrive il suo primo romanzo, “Il sentiero dei nidi di ragno”. In esso traduce i primi mesi della guerra partigiana. Con questa opera prima, lo scrittore intende portare avanti una duplice sfida, ai «detrattori della Resistenza e nello stesso tempo ai sacerdoti d’una Resistenza agiografica ed edulcorata».

È consapevole delle possibili reazioni. Scrive infatti a Scalfari che “Il sentiero” è «un’esperienza di malvagità e schifo […]. Un boccone un po’ amaro da ingoiare per palati conservatori e benpensanti». Nelle edizioni successive, lo scrittore cercherà di sfumare le ragioni dell’odio antico che muove i partigiani. Attenua le ruvidezze e crudezze linguistiche. Sparisce il riferimento all’Unione Sovietica che «forse è già un paese sereno» e non conosce miseria umana. I terroni, «gente disprezzata che parla uno strano dialetto», diventano «poveri emigrati, guardati come estranei».

Negli anni successivi, Italo continua a dimenarsi tra editoria e giornalismo. Scrive per l’”Unità” «pezzi di colore» di cronaca politica ed entra nella redazione del giornale per dedicarsi alla terza pagina. Impagina i servizi del poeta Alfonso Gatto che segue il Giro d’Italia come inviato. Ma non gli piace commentare un fatto prim’ancora di averlo giudicato. È stufo della superficialità che spesso è attaccata al giornalismo. E della fretta nel leggere un libro per poterlo subito recensire.

Torna di buon grado da Einaudi a lavorare in un cenacolo collegato a filosofi come Norberto Bobbio e Felice Balbo, economisti come Piero Sraffa e Antonio Giolitti, musicologi come Massimo Mila, storici come Federico Chabod. E poi l’etnologo Ernesto De Martino e il filologo Gianfranco Contini. I rapporti di lavoro sono quasi sempre rapporti di intensa amicizia. E le attività sono più gratificanti: rivedere bozze e manoscritti, leggere libri stranieri, scrivere “risvolti”, schede bibliografiche e fascette. Diventa un comunicatore eccezionale. Nel frattempo, pubblica una raccolta di racconti, “Ultimo viene il corvo”. Viene assunto formalmente in casa editrice con uno stipendio di quarantaseimila lire.

Il 1950 è l’anno della tragedia di Pavese. L’amico e il maestro di Calvino. Einaudi sarà costretto a riorganizzare completamente la casa editrice, disegnata in ogni minimo particolare dal poeta-scrittore. Arrivano Giulio Bollati e Daniele Ponchiroli. Forse per reagire al trauma provocato dalla morte dell’amico, Italo si getta con impeto nella stesura del “Visconte dimezzato”.

Gli elogi che riscuote gli sembrano esagerati, ma gli appare «sproporzionata anche la faccia arcigna di alcuni compagni». Lavora ad un altro romanzo, “La collana della regina”, e apre il cantiere delle “Fiabe italiane” che lo assorbe completamente per un paio d’anni, dal ’55 al ’56, e che dedica a “Raggio di sole”, la sua fiamma di quel periodo, Elsa De’ Giorgi.

È a questo punto della sua vicenda intellettuale che sopraggiunge la tragedia ungherese. Italo ne è scosso completamente e non ci sono fiabe o racconti fantasiosi che possano distrarlo. Inizialmente prova sollievo quando apprende – nel febbraio 1956 – che Krusciov denuncia i crimini di Stalin al XX congresso del Pcus. Ma è una sensazione che dura pochissimo. Presto giungono le notizie da Poznan di un’insurrezione operaia repressa nel sangue dall’esercito.

Calvino era appena intervenuto sul “Contemporaneo” per descrivere il clima culturale italiano come «paludoso e smorto». Aveva denunciato la mancanza di quel «fervore secco, teso, onnivoro» che avrebbe dovuto caratterizzare un tempo di profondi mutamenti. Avvertiva la crisi irreversibile del marxismo vecchio e nuovo. E aveva dipinto la dirigenza del partito italiano e, in particolare quella che si occupava della cultura, come un “ancien régime”. Aveva chiesto di «scientifizzare il partito, dotarlo di tutti gli strumenti di ricerca, di studio, di analisi, di previsione, di conoscenza storica che gli sono indispensabili, pena il mancare il suo compito di oggi, pena perdere il contatto con la realtà, avviarsi sulla china della decadenza».

Aveva scritto senza peli sulla lingua che il partito non si occupava di economia, di sociologia, di scienza. Lo sport preferito erano le liturgie verticistiche. Il partito – questa la sua impressione – non rappresentava più gli operai. Non rispettava le regole della democrazia. Praticava una politica che era diventata una teologia dogmatica, opprimente.

Il 24 ottobre scoppia la rivolta a Budapest e il giorno dopo i carri armati sovietici aprono il fuoco sui ribelli, definiti «fascisti» e «controrivoluzionari».

Tutto il gruppo di intellettuali che ruota intorno alla casa editrice Einaudi insorge indignato contro la dirigenza del Pci che invece di schierarsi con quei comunisti orientali impegnati nelle battaglie contro lo stalinismo e per la democrazia traccheggiano, o addirittura giustificano la repressione. Gli appelli al partito però non vengono pubblicati dall’”Unità”. Escono articoli di Pajetta e Longo definiti «pietosi».

Nelle continue riunioni torinesi, Italo urla, protesta, mette a nudo la sua angoscia. Togliatti definisce «controrivoluzionari» anche gli einaudiani, invia minacce di scomunica, sbeffeggia i loro appelli come «la solita roba da preti».

Si arriva al congresso nazionale e Calvino viene indicato dalla cellula “Giaime Pintor” della casa editrice torinese come il delegato che dovrà svolgere un intervento inattaccabile, «scientifico». Ma non potrà pronunciare il suo discorso meticolosamente preparato poiché Pajetta porrà formalmente il proprio veto. Due giorni dopo l’inizio del congresso, lo scrittore incomincia a scrivere “Il barone rampante”. Le lumache che Cosimo si rifiuta di mangiare gliele ha cucinate il partito, lui ha deciso di salire su un albero e di restarci.

La cellula einaudiana insiste: la mancanza di democrazia all’interno dei partiti resta il problema fondamentale, la dirigenza ha tradito la base. Occorre «un radicale rinnovamento dei metodi e degli uomini». Centouno intellettuali, docenti, artisti, cineasti, architetti, giuristi e scienziati firmano un manifesto che deplora l’intervento sovietico.

Dirà Calvino nel 1980 in un’intervista a Eugenio Scalfari: «L’Urss appariva da tempo anche a noi come un luogo cupo, retto da regole ferree, da una austerità inflessibile, da castighi tremendi e da una logica spietata. Si metteva tutto questo sul conto dell’”assedio”, della lotta rivoluzionaria. Ma quando Krusciov denunciò Stalin dinanzi al Comitato centrale e poi dinanzi al Congresso del partito, pensammo: ecco la pace fiorisce, ora i frutti del socialismo arriveranno, quell’oppressione, quell’angoscia segreta che sentivamo, scompare».

La fase del distacco di Italo dal Pci non sarà immediata ma durerà diversi mesi. Non si cancellano facilmente dieci anni di militanza attiva, centinaia e centinaia di articoli. Ma nel gruppo dirigente del partito, dopo il congresso, prevale chiaramente la tendenza all’intolleranza.

Nel verbale della riunione della direzione l’8 gennaio ’57 (ora disponibile nell’archivio dell’Istituto Gramsci di Roma), Ingrao ammonisce: «Vi sono compagni di cui la stampa borghese ripete continuamente i nomi e che dobbiamo richiamare alle loro responsabilità (Gullo, Giolitti). Non si può ammettere la tolleranza [sic]. Anche Di Vittorio e Terracini non devono lasciar sussistere dubbi». E Pajetta di rincalzo:

«Ogni compagno deve sentirsi offeso di essere citato e consigliato dalla stampa borghese». Lo stesso atteggiamento intollerante viene manifestato nei confronti degli altri intellettuali dissenzienti.

Si moltiplicano gli incontri con singole personalità per ottenere un ravvedimento. Con interrogatori a carattere inquisitorio. Per porre fine a quell’inutile tormento, gli interessati si vedono costretti a consegnare memoriali. Che si trasformano spesso in saggi. E vengono pubblicati nella collana dei “Libri bianchi” di Einaudi. Prevale, infatti, nei dissenzienti l’illusione di far valere un dissenso aperto in un partito comunista che si vantava pubblicamente di essere tollerante e non dogmatico. Ma presto vengono isolati. E prendono atto della impossibilità di far accettare una posizione di dissenso sia pur duramente criticata e però rispettata e tollerata all’interno del partito.

È Giolitti a dimettersi per primo. «Le risposte che sulla stampa del partito e il resoconto dell’ultima riunione del comitato centrale – recita la lettera che egli invia alla direzione il 19 luglio del ‘57 – mi tolgono ogni residua speranza nella possibilità di aprire nel partito il dibattito intorno ai problemi politici e ideologici che da oltre un anno io mi sono ripetutamente sforzato di affrontare. Le idee da me esposte vengono ormai additate come esempio tipico, e unico nel Pci, di “revisionismo senza principi” e addirittura come concessioni consapevoli all’anticomunismo».

Calvino segue l’esempio di Giolitti poiché senza di lui si sente «solo e nemico in terra nemica». Il 1° agosto appare una sua bellissima lettera sull’”Unità” che egli definisce «una lettera d’amore».

Un amore deluso, da cui si congeda con accorata dignità. Scrive di aver sperato che il Pci «si mettesse alla testa del rinnovamento internazionale del comunismo, condannando metodi di esercizio del potere rivelatisi fallimentari e antipopolari, dando slancio all’iniziativa dal basso in tutti i campi, gettando le basi per una nuova unità di tutti i lavoratori, così che in questo fervore creativo ritrovasse il vigore il rivoluzionario e il mordente sulle masse».

Invece di rinnovarsi, il partito si era schierato coi dogmatici, aveva perso una grande occasione. «La drastica e sprezzante stroncatura del lavoro di ricerca di Antonio Giolitti», cui si sentiva legato da «profonda stima e fraterna solidarietà», gli avevano tolto ogni residua speranza di poter svolgere una funzione utile, sia pure ai margini del partito. Ricorda puntigliosamente quanto il partito avesse contato nella sua vita. Aveva sempre patito la pena di chi soffre gli errori del proprio campo ma avendo costantemente fiducia nella storia. Non credeva e non aveva mai creduto che «la letteratura fosse quella triste cosa che molti nel partito predicavano».

Proprio la povertà della letteratura ufficiale del comunismo gli era stata di sprone a cercare di dare al suo lavoro di scrittore un segno di felicità creativa. La scelta non era tra lo stare nel partito o «il pensare allo stipendio e alle gioie dell’Occidente». Si può essere rivoluzionari dentro o fuori il partito, a seconda delle circostanze storiche e della propria coscienza. Lui non si sente né un socialdemocratico né un olivettiano. Non ha i rancori e i sarcasmi degli ex, ma l’amarezza del lavoro sprecato.

Nei giorni successivi scrive a Giolitti: «La mia maniera di dire le cose è scrivere racconti e che gli altri le interpretino e ognuno ci può trovare quello che gli interessa. Il mio modo di partecipare alla vita politica è questo e per fare discorsi politici più diretti aspetto di avere qualcosa di più chiaro da dire».

Intanto, esce Il Barone rampante in cui lo scrittore spiega la sua nuova vita in solitudine. Ma il suo vivere sugli alberi è quanto di più vitale ci sia poiché gli consente di vivere a fondo dentro il proprio tempo per modificarlo. Come Cosimo si ribella ai genitori, Calvino si ribella a quella madre-matrigna che è il partito, ingessato nel cinico calcolo politico dei suoi dirigenti.

L’albero su cui si rifugia è quello della libertà intellettuale, della dignità: non è una monade, è una cellula anomala dell’alveare. Non abbandona la scena, resta sul campo, soltanto in una posizione defilata che gli consente di vedere e intervenire meglio. Continua a ritenersi un militante, un uomo impegnato, «più di quelli che stanno a terra».

In apertura, foto di Alfonso Pascale

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