Saperi

L’Accademia Italiana della Cucina

Quando Orio Vergani la fondò, emerse, netta ed evidente, la valenza politica di una scelta culturale. Nulla nacque dal caso, vi era una precisa progettualità. Pensare a un’associazione che si battesse con tutte le forze per salvare le tradizioni gastronomiche italiane è stato indubbiamente un gesto politico. Al centro la salvaguardia delle identità nazionali, anche se tutelare le tradizioni non significa contrastare le novità, ma vigilare sul fatto che queste poggino su solide basi

Felice Modica

L’Accademia Italiana della Cucina

Era il 1953 quando Orio Vergani, fuoriclasse del giornalismo italiano con la disgrazia di esserlo stato anche durante il Ventennio, fondava l’Accademia Italiana della Cucina. Girava, Vergani, in lungo e in largo, in Italia e all’Estero – massime in Francia – come inviato di lusso, certo consapevole, da liberale, del fatto che la politica non sia tutto ma, inevitabilmente, anche dell’assunto marxista per cui tutto è politica…

Scriveva così bene, il nostro Orio, che sarebbe diventato il Maestro, o comunque il modello di tutti i futuri giornalisti sportivi: Gianni Brera in testa e, a seguire, Beppe Viola, per finire col mio amico Paolo Marchi.

Scriveva così bene che al toscanaccio Indro Montanelli dovette dar sui nervi, visto che lo dipinse con uno dei suoi ritratti al cianuro: “descrive in maniera tanto colorita le cronache del Tour de France che, alla fine di un suo articolo si resta affascinati, ma non si capisce chi abbia vinto la tappa…”

Certo, come tutti i giornalisti sportivi, Vergani girava, conosceva ristoranti e trattorie, bettole e sontuosi punti di ristoro (dalla stessa scuola proviene Paolo Marchi, l’inventore di quella cosa grande che è diventata “Identità Golose”). E alla sera, dopo il lavoro, cercava di mangiar bene.
Ma non è tutto qui.

Cominciava nel 1951 e, partendo da Bolzano, sarebbe durato tre anni e avrebbe coperto tutto il territorio nazionale, “il Viaggio in Italia” di Guido Piovene, il “conte rosso”, che dovette provare le stesse sensazioni di straniamento che si intuiscono in Vergani. Esisteva ancora la bella Italia di provincia, non ancora devastata dal boom, dall’alluminio anodizzato, da quella che, vent’anni dopo, Rosario Assunto avrebbe definito la “bancarotta estetica dell’Italia”.

Vergani – a costo di brutalmente semplificare e consapevole delle critiche che mi attirerò per questo – “confinato” nell’innocua riserva dello sport e della gastronomia, fonda, con un gruppo di amici, intellettuali, imprenditori illuminati (tra cui Dino Buzzati Traverso, Arnoldo Mondadori, Luigi Bertett), l’Accademia Italiana della Cucina. Ovvero, un’associazione che si batta con tutte le forze per salvare le tradizioni gastronomiche italiane. Le quali sono parte della cultura e dell’identità nazionali. Si tratta indubbiamente di un gesto politico.

Da non condividere, a mio avviso, la valenza conservatrice, a tratti perfino reazionaria, da qualcuno attribuita all’istituzione. Tutelare le tradizioni non significa, infatti, contrastare le novità, ma vigilare sul fatto che queste poggino su solide basi. Una vera innovazione è, in altre parole, sempre una tradizione rivisitata.

Di fronte alla transizione brutale, al dissolversi della civiltà contadina, con tutto ciò di negativo che essa ha comportato, ma anche con i suoi indiscutibili valori, Vergani, fondando l’Accademia, cerca di evitare – limitatamente alla “civiltà della tavola” – che, con l’acqua sporca, venga gettato il bambino.

Piovene, col “Viaggio”, fotografa una realtà che sta cambiando vertiginosamente. Non si sa ancora bene in cosa. Si intuisce che non sarà necessariamente meglio.

Altri, come Vittorini, di fronte al tanto auspicato cambiamento, avranno reazioni affatto diverse. Restiamo alla gastronomia. Ci furono tempi, non troppo lontani, anteriori agli slow food e alle Arci-gola, in cui si promettevano le bistecche dal petrolio e si sosteneva che “Archeologia e raffinerie sono complementari, non incompatibili”. Come sia andata a finire lo dice Vincenzo Consolo, descrivendo il paesaggio intorno a Siracusa ne “Le Pietre di Pantalica”: “una Dite infernale di ferro e di fuoco, di maligni vapori, di pesanti caligini…”

Né, appunto, sono tanto lontani gli anni in cui Vittorini – lo stesso che rifiutò la pubblicazione de “Il Gattopardo” per Einaudi (facendo la fortuna di Feltrinelli) – si augurava che “presto e per sempre sparissero il vino genuino e i polli di campagna”.
Infatti, erano questi ultimi, “prodotti disponibili per privilegiati mentre, migliorando la qualità degli artificiali, si sarebbe ottenuto il beneficio di tutti”.
Come si vede, tutto è politica…

Di recente, l’Accademia di Vergani ha celebrato una “cena ecumenica”, in tutto il territorio nazionale e nelle tante delegazioni estere. Il tema è stato “La cucina del riuso e di Amatrice”. Quest’ultima aggiunta deriva dal tragico terremoto che ha colpito l’Italia centrale ed ha coinciso con una raccolta fondi che intende portare un piccolo aiuto concreto all’istituto alberghiero di Amatrice e alle locali attività ristorative.

Diciamo che solo questo, a poco meno di Settant’anni dalla fondazione dell’Accademia, basta per provare la bontà dell’intuizione di Orio Vergani.

La foto di apertura è di Luigi Caricato

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