Saperi

L’attesa, un dialogo

Ogni attimo della nostra vita è governato dall’attesa, anche quando ci sembra che nulla possa accadere. È un tempo futuro, senza dimensione, ed è una condizione che dipende da fattori esterni, non da noi. Stare all’altezza dell’attesa, significa stare all’altezza della vita, non di un’esistenza qualsiasi, ma della nostra esistenza. Come ogni gesto umano, è ambivalente, sospesa tra paralisi e creatività, a indicare che sta a noi, con capacità sartoriale, custodirne senso e tragitto di vita

Massimo Cocchi

L’attesa, un dialogo

Massimo Cocchi

Cosa è l’attesa? È, forse, il momento più intimo e drammatico dell’uomo, perché solo dopo che si conclude l’attesa, egli saprà se gioire o disperare.
Quanti sono i momenti della vita che l’uomo consuma nell’attesa? Penso infiniti, ogni attimo della nostra vita è governato dall’attesa, anche quando ci sembra che nulla possa accadere. E noi spendiamo questa vita, breve o lunga che sia, aspettando qualche cosa che non conosciamo e che appartiene a un futuro incerto e non prevedibile.

È in quel lasso di tempo che conclude l’attesa che percepiamo che il tempo assume una dimensione diversa da quello scandito dalla convenzione con la quale lo misuriamo.
L’attesa è un tempo futuro senza dimensione, del quale percepiamo solamente l’attimo presente e lo percepiamo attraverso il groviglio di sensazioni che si aggirano velocemente nel cervello.
È il momento che ci accompagna verso una predestinazione ignota, verso qualcosa che vorremmo corrispondesse al nostro desiderio, qualunque esso sia, e cerchiamo di convincerci che sarà come vogliamo che sia. Ma non è così, il più delle volte, dentro a quel profondo che chiamiamo anima, la sede della percezione, sappiamo già se l’attesa avrà l’esito desiderato, ma è il momento in cui l’uomo realizza che esiste qualcosa che non dipende dalla sua volontà e, qualunque sia l’aspettativa dell’attesa, si scatena una tempesta molecolare invisibile, incontrollabile e il cui percorso non ci è dato di conoscere.
Ecco che questa tempesta molecolare si trasforma in ciò che non è misurabile e che rende vano e vacuo il trascorrere del tempo, il sentimento.
Già, perché in ogni attesa ci giochiamo le sensazioni, i sentimenti, ci sentiamo pervadere dal turbinio dell’imponderabile.

Mi sono posto più volte il problema dell’attesa rispetto alla vita. Mentre si materializzava sotto agli occhi, dato su dato, l’individuazione dei diversi stati di coscienza rispetto alle varie condizioni psicopatologiche dell’uomo, non potevo non pensare a come l’attesa si manifesta nelle alterazioni di uno stato mentale, già, non del cervello, ma della mente, quel sito laddove deponiamo gli stati d’animo e le percezioni, pensavo a tutte quelle condizioni in cui non siamo in grado di sapere se vi è oppure no percezione dell’attesa.
Pensavo per quei soggetti, fortemente provati da un’anomalia della funzione nervosa rispetto a quanto riteniamo convenzionalmente la normalità, quale dimensione aveva l’attesa.

Pensavo, ad esempio a due dei casi più drammatici che possono abbattersi sull’uomo, la privazione della libertà e il danno verso sé stessi come è il caso del suicidio, cioè i due eventi più intimi, quei momenti che non sappiamo se li possiamo definire come “qualia”.
Pensavo, senza trovare risposta, alla drammaticità del momento in cui, cosciente o non cosciente, si vive l’attesa in quelle condizioni.
Pensavo al momento in cui si attende il giudizio che ti priva della libertà e a quello in cui ti privi della vita.

Che dimensione ha quel tempo d’attesa?
È un tempo finito o un tempo infinito?
È un tempo in cui ripercorri lo scenario dei ricordi o è il tempo in cui non sei in grado di utilizzare la capacità riflessiva, è un tempo in cui la percezione del tempo ti abbandona?
Ecco che si ripresenta prepotente il conflitto fra cervello e mente che, attraverso ignoti meccanismi, conduce all’anima e al pensiero.

Nel tempo d’attesa è possibile fruire dell’esperienza?
Non credo, perché l’attesa è una condizione che dipende da fattori esterni, non c’è “attesa” che dipenda dal nostro fare o dal nostro dire, noi aspettiamo l’accadere d’altro.
Ricordo un episodio accaduto a Venezia, stavo con un amico, valente matematico, in attesa di un vaporetto e, dopo un periodo che mi sembrava già lungo e il battello non arrivava, decisi di accendermi una sigaretta e, naturalmente, alla terza boccata, il battello attraccò.
Mi rivolsi all’amico e, apostrofando sulla sfortuna, gli chiesi, con sarcasmo, se era possibile calcolare il tempo della sfortuna.
Molto serio si mise a scrivere un’equazione sulla copertina di una rivista e mi mostrò un calcolo, a me incomprensibile, che voleva dimostrare che il tempo della sfortuna, cioè il tempo che intercorreva fra il prendere una decisione, fumare, e l’arrivo del battello che mi costrinse a buttare la sigaretta, era misurabile, prevedibile.
Non gli chiesi come aveva fatto per non essere preso in giro, ma verosimilmente lo ero stato, quindi non saprò mai se aveva misurato non il tempo dell’attesa ma il tempo della sfortuna. Anche questa, comunque, può essere una funzione del tempo.

Io credo che il tempo d’attesa non sia mai un tempo di serenità ma di angoscia, qui, tuttavia, mi addentrerei in un campo, quello così ben presente in tanti pensieri filosofici, del quale non ho sufficiente cultura per addentrarmi e lascio la parola all’amico filosofo perché mi conforti del suo pensiero e, se può, mi liberi dall’angoscia dell’attesa.

Fabio Gabrielli

Le parole sono posizione, peso, mondo. L’uomo, infatti, esiste nella forma dell’abitare dando un nome alle cose. Dare un nome alle cose, nel segno della decisione e della scelta, significa aprirsi al mondo – l’uomo è un animale aperto – in modo sempre diverso e creativo.

Decidere rinvia alla volontà di potenza con cui noi “tagliamo in due con la spada” (questo il tratto semantico) il mondo, operiamo una disgiunzione che è una presa forte sulla realtà di cui pensiamo di impadronirci, scartando la parte che riteniamo insignificante, superflua, un mero resto da ritagliare e gettare via. Insomma, sono io, soggetto supposto padrone, supposto sapere, che decido cosa prendo e cosa getto via del mondo.

La scelta, invece, indica un fragile accostamento ai possibili, espressione dell’umana libertà abitata dall’angoscia del mai compiuto, del mai definitivo, dell’incerto.
Se la decisione rimanda a una postura verticale, padronale, autocentrata, la scelta abita la sporgenza, la postura inclinata sulle cose: la definirei una geografia esistenziale.

Mi spiego, ci sono due diversi livelli geografici:

  • Il primo, è l’iscrizione delle cose nella carne del mondo: alberi, fiori, ruscelli, fontane, sassi, ecc.

  • Il secondo, è la nostra iscrizione su queste cose, la nostra attitudine a dare loro un nome, a fare di esse un fascio di relazioni, a imprimere in esse la nostra vocazione, a fare presa sulla realtà con la nostra creatività, il marchio irripetibile delle nostre biografie.

L’uomo, in questo senso, è un animale aperto: il suo orizzonte è il mondo, il suo corredo esistenziale la possibilità. In altri termini, l’animale umano ha come tratto specifico l’ideazione, la progettazione, la resa operativa di possibilità che, proprio perché tali, abitano l’attesa che le innerva nel momento in cui le dispieghiamo sulla scena del mondo.

Siamo un fascio di possibilità, esistiamo in quanto animali pregni di possibilità, ma prima che la loro realizzazione si manifesti, dobbiamo attendere nel presente del futuro che il loro tragitto si faccia progetto incarnato o precipiti nel non realizzato.

L’attesa, in tal senso, da un lato, si alimenta di paralisi, di timore, di angoscia ad agire poiché nessun esito delle nostre idee è certo; dall’altro, si alimenta della creatività, della messa in moto di tutte le nostre risorse ideative e passionali, intessute di impegno e fedeltà, affinché la buona attesa produca frutto, affinché la vita che abbiamo immaginato e progettato germogli.

Stare all’altezza dell’attesa, significa stare all’altezza della vita, non di un’esistenza qualsiasi, ma della nostra esistenza, proprio la nostra, per questo straordinaria non perché eccezionale, semmai unica, irriducibile, innumerabile.

Se un uomo, libero da qualsiasi vincolo, relazione, impegno, dipendenza, entrasse in un aeroporto con la possibilità di scegliere qualsiasi destinazione, sarebbe preso, in un primo momento, da angoscia paralizzante, poiché per ogni scelta fatta ne dovrebbe scartare molte altre, senza sapere a priori quale sarà la destinazione migliore, se si concretizzerà, quali effetti avrà sulla sua vita, ecc.; tuttavia, tutto questo lo spinge anche ad essere creativo, ad adoperarsi per progettare al meglio – la destinazione più conforme al suo desiderio – la partenza, cioè il suo progetto di vita.

Insomma, anche l’attesa, come ogni gesto umano, è ambivalente, sospesa tra paralisi e creatività, a indicare che sta a noi, con capacità sartoriale, custodirne senso e tragitto di vita. Naturalmente, il nostro custodirne il senso è sempre segnato dall’incompiutezza, dall’improgrammabilità dell’evento che irrompe e tutto spariglia, dalla estrema fragilità del nostro stare al mondo a cui siamo consegnati da sempre.

Massimo Cocchi

Grazie, caro Fabio, ora posso attendere meno angosciato, consapevole che attendere significa essere all’altezza delle scelte di vita, perché in ogni scelta c’è attesa e guai a non capire quello che mi hai detto, altrimenti continuerei a trasformare le attese in percezioni devastanti.

Murales a Milano, particolare. Foto di apertura di Luigi Caricato

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