L’imbarazzante “Senso della Vita”
Il cervello può esprimere categorie di vita, di pensiero, di impulsi, di emozioni completamente differenti fra individuo e individuo. Se il senso della vita può avere tante interpretazioni, allora significa che non ne esiste uno propriamente inteso, unico e definito. Quello di Hitler, per esempio, era probabilmente il dominio del mondo e della razza pura, ma per fortuna il suo senso della vita si è scontrato con quello di altri, che anelavano a libertà e democrazia
Credo che non ci sia domanda più imbarazzante che il chiedere o il chiedersi “qual è il senso della vita?”
Filosofi, letterati, religiosi, scienziati, eccetera, si sono posti questa domanda da secoli, così presi dal loro ego intellettuale, convinti che la loro personale interpretazione fosse sempre la più giusta, da non accorgersi che se il senso della vita può avere tante interpretazioni, allora significa che non esiste un senso della vita propriamente inteso, unico e definito.
Io stesso, da qualche parte, in qualche momento ho reso leggibile il mio pensiero sul senso della vita, quale errore!
Già, un grave errore perché se la vita è una sola, parliamo di quella terrestre, essa non può avere che un unico senso che vale per tutti ed è qui che si confonde il senso della vita con quanto ciascuno di noi fa quotidianamente per risolvere i mille problemi che si pongono in essere e che, fra tutti, solamente uno domina la scena: procurarsi il cibo.
Noi sappiamo che il cervello può esprimere categorie di vita, di pensiero, di impulsi, di emozioni completamente differenti fra individuo e individuo.
È sufficiente pensare al buon samaritano, al cattivo, al vanesio, all’imbecille, alle diverse condizioni mentali che inducono differenti risposte psicopatologiche eccetera, per rendersi conto che il senso della vita ciascuno lo vede secondo un proprio pensiero e che non c’è nessuna disciplina, di quell’assetto mentale che produce cultura, in grado di proporre una definizione che prevalga sull’altra.
Tutte le interpretazioni del senso della vita, quindi, si scontrano con l’individualismo del pensiero di ciascun essere umano, rendendo ridicoli i tentativi dei cosiddetti “dotti” di volere essere, per tutti, gli interpreti del senso della vita, nonché, di credere che ciascuno di loro abbia proposto la soluzione universale.
Ciascuno di noi, quindi, si ritrova nel proprio significato del senso della vita, si ritrova nel convincimento che il suo pensiero, il suo agire, il suo emozionarsi, il suo porsi davanti agli eventi della vita quotidiana sia il migliore possibile.
Il senso della vita di Hitler era, probabilmente, il dominio del mondo e della razza pura, tuttavia e, per fortuna, esso si è scontrato con altri che invece, vedevano nel senso della vita, la libertà e la democrazia.
Allora, possiamo aggiungere un’altra dimensione del senso della vita, a quella ricordata prima e che riguarda il cibo, quella della libertà, che poi, in qualche modo, coincide.
Devi essere libero e libero di procurarti il cibo altrimenti non soddisfi le condizioni che danno senso alla vita, cioè che essa duri per quel tempo che, ahimè, a nessuno è dato di sapere.
Affronto questo argomento perché è recente la lettera del Papa Samaritanus bonus laddove si dibatte sull’eutanasia, ecco che immediatamente giornali di diverso indirizzo politico, che forse, non c’entra nulla, ma conta il pensiero di ogni singolo direttore/editore, si sono letteralmente buttati a disquisire se essa, l’eutanasia, sia giusta oppure no.
Mentre erano tutti assorti a trovare giustificazione al loro illuminato pensiero, fosse esso favorevole oppure no al fenomeno eutanasia, una parola nella Samaritanus bonus ha sollecitato la mia attenzione, “innocente”.
Ne riporto la citazione nei brani salienti:
…Tutto il male fisico, di cui la croce, quale strumento di morte infame e infamante, è l’emblema; tutto il male psicologico, espresso nella morte di Gesù nella più tetra solitudine, abbandono e tradimento; tutto il male morale, manifestato nella condanna a morte dell’Innocente; tutto il male spirituale, evidenziato nella desolazione che fa percepire il silenzio di Dio…
…l’eutanasia è un crimine contro la vita umana perché, con tale atto, l’uomo sceglie di causare direttamente la morte di un altro essere umano innocente…
…L’affermarsi di una cultura ostile alla disabilità inducono spesso alla scelta dell’aborto, giungendo a configurarlo come pratica di “prevenzione”. Esso consiste nell’uccisione deliberata di una vita umana innocente e come tale non è mai lecito…
…Infatti, dal punto di vista morale, non è mai lecito cooperare formalmente al male. Tale cooperazione si verifica quando l’azione compiuta, o per la sua stessa natura o per la configurazione che essa viene assumendo in un concreto contesto, si qualifica come partecipazione diretta ad un atto contro la vita umana innocenteo come condivisione dell’intenzione immorale dell’agente principale…
A me, uomo di scarsa cultura letteraria e anche d’altra, e sicuramente in modo improprio rispetto al senso che il Papa dà al concetto, questa parola ha fatto immediatamente sorgere la reazione di un pensiero, come avviene difronte a un potente agente allergenico.
Forse che se uno non è innocente l’eutanasia, o, comunque, la soppressione della vita da parte d’altri è giustificabile?
Sono certo che non era questo il significato che il Papa ha voluto dare al suo scritto, tuttavia, avrebbe ben fatto a riflettere che questa lettera non è indirizzata solo a chi fruisce della possibilità di possedere il privilegio di ragionare criticamente, ma può essere letta da tutti.
Mi avvio alla chiusura ma non posso non ricordare un altro passaggio della lettera e, del quale, spiegherò perché mi ha colpito:
…Tutto il male fisico, di cui la croce, quale strumento di morte infame e infamante, è l’emblema; tutto il male psicologico, espresso nella morte di Gesù nella più tetra solitudine, abbandono e tradimento; tutto il male morale, manifestato nella condanna a morte dell’Innocente; tutto il male spirituale, evidenziato nella desolazione che fa percepire il silenzio di Dio…
Mi corre di ricordare come, ne la Freccia dell’Arciere, scritto in collaborazione con gli autorevoli amici Lucio Tonello (matematico), Fabio Gabrielli (filosofo) e con la prefazione di un illustre prelato, don Michele Aramini e la post fazione di un illustre letterato, Aldo Gerbino, esprimiamo, qui riportati gli stralci dal testo, il concetto che Gesù:
…durante le ore del Getsemani, la sua natura fosse in una condizione prevalentemente bipolare (la più comune degli esseri umani), senza sintomi psicotici, e che potessero coesistere in lui i pensieri che portano al desiderio di porre fine alla sua vita…
…Con riferimento alle ore che hanno preceduto la morte, sulla scorta delle testimonianze riportate nelle Scritture, propendiamo, alla luce del nostro percorso molecolare relativo ai disturbi dell’umore, per una forma depressiva che alterna forme ibride di mania, del Cristo-Uomo, senza che questo, tuttavia, possa intaccare il discorso di fede sulla natura trascendente del Cristo-Dio…
e tocchiamo il punto più critico del “senso della vita” quando commentiamo ciò che dice a Giuda: “Quello che fai, fallo presto” (Giovanni 13, 27).
…Nemmeno la terribile espressione di Cristo che mise in angoscia lo stesso Lutero quando predicava su di essa: “Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?” (Matteo 27, 46), nemmeno queste parole esprimono così fortemente il patimento; infatti coll’ultima si indica uno stato in cui Cristo si trova, la prima invece indica il rapporto con uno stato che non è»…
Seppur estrapolate dal contesto, queste parole sembrano indurre una forte riflessione sul senso della vita percepito dall’uomo.
Scrive l’amico don Michele Aramini, nella sua prefazione:
…La lettura fatta nel saggio sulla coscienza è supportata più da una visione filosofica brillante, ma meno da una considerazione teologica dei dati biblici. Basti citare due elementi decisivi per il Cristo, non adeguatamente considerati: la solitudine di Gesù non è mai assoluta, infatti molte sono le espressioni nelle quali si afferma il continuo dialogo tra Gesù e il Padre suo, Dio. A proposito del cosiddetto ‘sentirsi abbandonato’ di Gesù, espresso dalle parole del salmo 22: “Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?” deve essere letto nel contesto dell’intero salmo che, contrariamente a quanto appare a prima vista, è espressione di certezza della liberazione, infatti esso continua “Ma tu Signore, non stare lontano, mia forza, vieni presto in mio aiuto”…
…Il secondo elemento da ricordare è che dopo il dialogo del Getsemani, Gesù acquista una signoria sugli avvenimenti che non ha nulla di nevrotico o depressivo. Queste modeste osservazioni servono solo a indicare che la strada è aperta. Gli Autori hanno fatto un tratto che invita alla discussione. Altri studi e altre ipotesi potranno aiutare una migliore comprensione dell’umanità di Cristo…
Risponde criticamente Aldo Gerbino, dopo una profonda disamina scientifica, nella sua post fazione:
…dalla polimorfa schedatura biocritica di Cocchi, Gabrielli e Tonello, il sacro, il volto santo della umanità del Cristo e d’una anamnesi, o meglio d’una ispezione di quel travaglio della Passione in cui biologia, psicologia e trauma vengono sottoposti al confronto/scontro umano/divino, nel tentativo di mostrare l’affinità carnale della umana filiazione col supremo stampo. A Cristo pertiene la natura umana e quindi la sua molecolarità divaricata sul fronte della natura e della trascendenza: così la citazione kierkegaardiana sul Cristo-Uomo produttore di angoscia, avvinto dal desiderio di colmare una solitudine transitoria, oscillante nel binario della depressione, attestata però sull’heideggeriano “essere per la morte”, mostra in tutto il suo espressionismo, quell’umanità che traspare dalle pagine giovannee del Vangelo, per quel tendere, afferma Leonzio De Grandmaison nel suo Jésus Christ (1928), «a spiegare, far brillare nella sua parola e nelle azioni la dignità trascendente e la verità della carne del Figlio di Dio».
Un velo mortale cosparso di pigmenti notturni e irraggiato dal dolente “motivo dei Getsemani”, le cui radici descrittive vengono rintracciate nei lirici greci (Alcmane, in primo piano, nella pertinente traduzione di Manara Valgimigli, grecista e sodale di Quasimodo) a Teocrito a Virgilio, alla spasmodica ricerca della centralità ontica. Forse è, ancor più, Leopardi a soccorrerci sulla lastra dello sconforto e dell’umana angoscia, nell’incipit nobilissimo dell’idillio La sera del dì di festa (1819-1821): «Dolce e chiara è la notte e senza vento, / E queta sovra i tetti e in mezzo agli orti / Posa la luna, e di lontan rivela / Serena ogni montagna.» Senza dubbio un rasserenante paesaggio, ma, ricorda Mario Fubini, interrotto «da un drammatico ritorno alla coscienza del proprio disperato ‘affanno’», più esplicitamente dichiarato nella lettera inviata dal recanatese al Giordani in cui il poeta riferisce in che modo, “gridando come un forsennato” invochi disperatamente la “misericordia della natura”. Così in questa freccia scoccata dall’Arciere, Massimo Cocchi, Fabio Gabrielli e Lucio Tonello, in opposizione all’annaspare nel vuoto di Henry Louis Mencken «cercando di afferrare mani che non ci sono», espungono la sacralità proprio attraverso la mediazione umana (tra ‘molecole/ metafore’ evolutive e la ‘parola’ messaggero tra anime). L’io-carne, dunque: dalla gioia all’angoscia, alla sofferenza, al desiderio di ritrovare centralità nel corrusco bagliore che lega, con pertinacia, corpo e cielo.
Il senso della vita, dunque, va ben oltre rispetto alla banalità della risposta umana, anzi, non credo ci sia risposta.
In apertura, una foto di Luigi Caricato ©
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