L’incompresa personalità di Elvira Coda nella voce di Flavia Amabile
Elvira, edito da Einaudi, è la storia della prima donna regista e produttrice italiana. Scippata dagli onori che avrebbe meritato per via della forte censura imposta da Mussolini, il libro si presenta come un omaggio al suo talento e al suo essere, dove l’autrice è riuscita a penetrare nel profondo del suo animo
La sua vicenda umana è stata risucchiata nella generale dimenticanza.
Elvira Coda Notari, la prima donna regista e produttrice in Italia, torna alla ribalta grazie al libro della giornalista de’ La Stampa Flavia Amabile, autrice per Einaudi del romanzo biografico Elvira.
Le fanno da sfondo tre città campane: Salerno, Napoli e Cava dei Tirreni e un mondo, quello del cinema muto, che ha rappresentato il primo passo di quella che presto si guadagnò l’appellativo di Settima Arte.
Non è stato facile, per l’autrice, rintracciare gli elementi che le hanno consentito di ricostruire la storia di questa donna pugnace e piena di talento.
Il suo è stato un omaggio non solo alla protagonista di questa incredibile vita, ma anche a una studiosa Cavese, Patrizia Reso che, per prima, nel 2011, aveva tratto dall’oblio un’esistenza che meriterebbe un film o una fiction.
Pensateci: ai primi del ‘900, quando Elvira Notari, venuta al seguito della famiglia a Napoli dalla natia Salerno, con in tasca un diploma da maestra, ma ridotta a fare la sartina di supporto alla madre e al padre con un negozio di tessuti, in un’area povera, il quartiere Stella, nulla avrebbe fatto presagire che sarebbe diventata una precorritrice.
Il coup de foudre scatta per caso nel 1903: il neonato cinema, nato dai fratelli Lumiere alla fine del 1898, si diffonde con la velocità del fuoco, proiettato in baracchini, per la meraviglia del popolo, e nei locali à la page, il mitico Salone Margherita.
Attratta da un banditore, Elvira Coda, ventisettenne, più che matura e quasi zitella, entra incuriosita in una delle strutture precarie ove avvenivano le proiezioni e lì conosce i suoi due amori (mi risuona nella mente la melodia di Josephine Baker di 27 anni dopo, quando il cinema aveva già conquistato il sonoro, ossia J’ai deux amours…): i film e suo marito Nicola Notari, conosciuto per caso proprio in quell’occasione.
Ci sono pochissime testimonianze della vita di questa donna: quattro fotografie in tutto; due film e mezzo fra i sessanta che girò, insieme a un centinaio di documentari.
Una vera damnatio memoriae l’assediò su due fronti: da un lato, vi era la persecuzione perpetrata nei suoi confronti dal regime fascista, che non digeriva l’imprinting proto-neorealista del cinema di Elvira, che raccontava una scabra Napoli, dove emergeva la miseria, il popolo dei vicoli, la violenza sulle donne, laddove il Regime voleva dipingere un quadro rassicurante, per quanto irrealistico.
Dall’altro, vi era una crisi interiore di Elvira stessa, che aveva minato dal profondo i suoi rapporti familiari.
La scrittrice, così, ha trovato ben poco materiale documentario su cui lavorare, ma è prodigiosamente riuscita a penetrare nell’animo di Elvira, come se, davanti ai suoi occhi, si fosse proiettato un film biografico su Elvira, quello che sarebbe il caso di produrre per rendere onore a questa grande donna.
Sarebbe un dovuto risarcimento per una personalità incompresa e scippata dagli onori che avrebbe meritato, contro la quale Mussolini e suoi scatenarono una vera e propria guerra, a colpi di censura e persino con una legge ad hoc.
Un libro che ci apre un mondo e ci dice che una donna sola è in grado di sollevare il mondo, sostenuta da un marito che ne riconosce il talento e la spalleggia, finché non si scontra contro la manipolazione della realtà ad usum Dux e dalle sue questioni di coscienza che la portano a rinchiudersi in una sorta di monade in quel di Cava dei Tirreni, nell’area di Pianesi, ove si isola per 16 anni, fino alla morte.
In apertura, Elvira Coda
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