Saperi

L’odio di Putin per il nazismo: legittima competitività professionale

La sua totale mancanza di qualsiasi forma di umanità è fin troppo appurata. Ma ha saputo anche andare oltre quando, conferendo un’onorificenza di alto prestigio ai militari che a Bucha avevano proceduto a stupri, torture e a una macelleria di bambine e bambini, ha messo a disagio anche i suoi estimatori più calorosi. E seppur vengano riconosciute queste gesta come al di fuori di ogni tipo di senso e logica, sembra ancora non esserci una fine

Antonio Saltini

L’odio di Putin per il nazismo: legittima competitività professionale

È noto che il tirocinio di un agente del Kgb, l’acronimo del dipartimento per lo sterminio degli oppositori che Lenin aveva identificato con il titolo di Cekà, e cui Stalin impose la nuova sigla, si concludeva con una prova suprema: il candidato veniva inviato in uno dei campi di lavoro forzato in Siberia e gli veniva assegnato un oppositore per sperimentare le proprie doti professionali.

Il forzato veniva informato che un agente lo avrebbe ucciso, poteva rifugiarsi nella taiga, ma per una ciotola di “sboba”, l’unico alimento dei forzati (in Germania, Russia, Cina e paesi dalla medesima ispirazione civile), lo sciagurato doveva tornare, affamato, alla mensa del campo, per rifugiarsi, di nuovo nella taiga, costretto a dormire tra i cespi di erica dove costituiva preda, inevitabilmente, di orsi e lupi, eventualità di cui affrontava il rischio per non essere assassinato dall’apprendista-agente.

Il quale, per parte sua, doveva riuscire a sorprenderlo nel sonno e strangolarlo senza che il reo potesse emettere un gemito.

L’operazione poteva non riuscire perfettamente, nel quale caso l’apprendista avrebbe richiesto l’assegnazione di una vittima ulteriore per operare con maggiore competenza, ed evitare che il sovversivo potesse emettere un solo lamento.

È verosimile che chi aspirasse ad insediarsi ai vertici dell’organismo moscovita fosse, coerentemente, indotto a ripetere l’esperienza quante più volte possibile, che è quanto dobbiamo supporre di Vladimir Putin, che dell’organismo, capitale per la funzionalità del sistema sovietico, giunse, giovanissimo, a iscriversi tra i più determinati candidati alla sfera dirigente.

Non pochi, anche tra gli estimatori più calorosi del despota russo, hanno provato un certo disagio quando il medesimo premiò, con un’onorificenza di alto prestigio, i militari del reparto che aveva proceduto, a Bucha, a stupri, torture, macelleria di bambini e bambine, ma è sufficiente un attimo di riflessione per comprendere che, per chi avesse intrapreso, giovanissimo, il proprio curriculum professionale strangolando “nemici del popolo” tra le conifere della taiga, quei ragazzi erano autentici fratellini, per i quali è difficile immaginare che il grande Kzar abbia siglato il diploma d’onore senza versare qualche lacrima di commosso compiacimento.

Lettore attento, in anni lontani, di Plutarco, quindi ammiratore delle sue Vite parallele, confido di avere più di una volta ricercato, tra i personaggi che il grande Greco non poté, per ragioni cronologiche, includere nel proprio capolavoro, parallelismi tanto palesi da rendere obbligatoria l’inclusione della coppia nell’opera di un continuatore, e nessuna analogia mi è mai apparsa più evidente di quella tra Vladimir Putin e Heinrich Himmler, l’uomo che assolse, con assoluta diligenza, al supremo compito affidatogli dal Führer: apprestare e gestire, con un adeguato corpo di collaboratori, il corpo dei baldanzosi giovani denominati Schutzstaffelen (SS), un numero di campi di sterminio adeguato alla straripante moltitudine di uomini e donne che sarebbero stati indegni di sopravvivere in un mondo dominato dai più incontaminati discendenti dei Nibelunghi.

L’accurata analisi delle similarità fornisce, peraltro, la spiegazione più convincente di quella che pare essere stata l’opzione capitale dell’intera carriera del despota russo: la scelta esclusiva, quali collaboratori, di autentici imbecilli (nel senso etimologico del vocabolo: entità prive di un sostegno, nel caso una spina dorsale, una peculiarità che li rendesse, cioè, più simili a vermi che a uomini).

Nella propria straordinaria avventura, Himmler soffrì, infatti, di un rovello che, rientrato, la sera, al proprio tetto, sfinito per l’opera compiuta, lo rodeva con la pervicacia di un tarlo di cui era assolutamente incapace di liberarsi: il continuo risuonare, nella sua mente, di un acronimo: HHHHH, composto dalle inziali delle parole tedesche Il cervello di Himmler si chiama Heidrich. Sapeva, tragicamente, che i suoi ragazzi lo ripetevano, uno all’altro, senza una parola di commento, ma accompagnando il messaggio cifrato con sorrisi di connivenza.

Einhard Heirech era, nella realtà, il suo vice, ma l’intero corpo, circostanza intollerabile, era convinto che senza l’assistenza del vice, l’SS Führer, professionalmente modesto ispettore agrario, non avrebbe mai combinato nulla. Si illuse di essersi liberato dal demonio persecutore quando partigiani slovacchi assassinarono chi si premurava di catturarli e torturarli, ma, a disilluderlo, fu l’autentico culto che, per il defunto, si accese in tutto il corpo.

E l’ossessione lo avrebbe perseguitato fino a quando un sergente americano, che lo arrestò con divisa e documenti di un soldato semplice defunto, interrogandolo parve avere capito, e l’eroe germanico estrasse, con un gesto fulmineo, il dente che conteneva la pastiglia di cianuro che gli consentì di evitare gli incomodi di Norimberga.

Gli incomodi ai quali milioni di uomini civili auspicano possa essere sottoposto il Führer della Gestapo russa al tribunale dell’Aia.

Il quale ha evitato di ricalcare l’amara esperienza del predecessore, pagandone il prezzo nella costrizione ad assistere al crollo della Russia, che ha sfidato l’intera civiltà planetaria guidata da una torma di profittatori incapaci.

E quando giungesse, anche per lui, il momento di estrarre la pastiglia dalla fatidica protesi, il Piccolo Padre potrebbe rivivere, nei pochi minuti necessari all’effetto del farmaco, l’esaltante sensazione di avere percepito, tra le proprie mani, lo spegnersi di una vita, prima tentando di rivoltarsi all’orrore della morte, poi, in pochi minuti, assoggettandosi alla legge della sopraffazione che pretende di disporre della vita e di amministrare la morte.

Sensazione travolgente, che l’autentico assassino riprova, estasiato, al solo ricordo, e di cui si impegna a fare percepire il fascino gli intimi cui confida i segreti della vita. Immaginiamo, tra quegli intimi, il cavalier Berlusconi, compare, come provano gli atti degli innumerabili processi, di cento delinquenti, che, personalmente, la travolgente percezione non ha, probabilmente, mai vissuto.

E non è possibile terminare queste note senza un appunto di biasimo al ministro Di Maio per gli ostacoli che frappone alla missione (?) che il signor Salvini anela compiere a Mosca.

Seppure riconoscendo l’assoluta coerenza del Ministro, straordinario esempio del genio italico, da sfaccendato frequentatore del Gambrinus, (di fronte al napoletano Palazzo reale, senza dubbio il più elegante caffè italico) convertitosi nel Ministro degli Esteri dalla lucidità che dall’incarico pretende una grande Nazione, non si può che suggerirgli di attenuare il proprio rigore: a Mosca, dove andrebbe con la Tshirt con effige di Putin, Salvini non pronuncerebbe una parola sola cui riconoscere qualunque senso politico.

Ormai definitivamente squalificato (nonostante la stima professata per lui da cardinali di notoria professione massonica) andrebbe, sconsolato, a cercare conforto.

Quale consolazione più rasserenante, per chi ha condannato ad essere travolti dalle onde uomini, donne e bambini, di una cena con chi ha assaporato l’ebbrezza di percepire la vita spegnersi tra le sue mani? Il Ministro non tema: l’antico, sfaccendato, frequentatore del Gambrinus sta rappresentandoci egregiamente nell’orrenda vicenda scatenata dal successore di Stalin: non si preoccupi se un ridicolo fallito vada a Mosca, a rinfrancarsi, tra fiumi di vodka (ricavata da grano sottratto all’Ucraina), con un altro fallito.

In apertura, un’opera di Cesare Inzerillo (Palermo, 1971), “Infermiere n.1”, esposta al “Museo della Follia”, Lucca, 2019, mostra a cura di Vittorio Sgarbi. Foto di Olio Officina ©

Per commentare gli articoli è necessario essere registrati
Se sei un utente registrato puoi accedere al tuo account cliccando qui
oppure puoi creare un nuovo account cliccando qui

Commenta la notizia