L’odore della muffa
Narrazioni. La vera storia del signor Paolo Poli in un racconto scritto nel 1988 e che rileggiamo ora che il grande attore ci ha lasciati. Aveva l’aspetto di un bambino. E anche qualcosa di femminile, di aggraziato: fu così che iniziò una storia, la storia più lunga della mia vita, la mia unica vera storia d’amore
La stanza era piuttosto fredda, ma la vecchia signora, preso lo scialle da una poltrona, si mise ugualmente allo scrittoio e iniziò a scrivere, come aveva deciso, la lettera che già da tempo aveva in mente.
Mio caro buon amico, volete proprio sapere la storia mia e del signor Poli? Allora sappiate che è una storia strana, anomala, come strani e anomali sono i due protagonisti, che si perde nella memoria del tempo, negli anni lontani della mia giovinezza, agli albori di una vita che si andava a poco a poco formando. Una storia legata a odori particolari: a quello della muffa e a quello di un vecchio profumo, Baghari.
Sapete, mio caro, anche se gli anni miei sono tanti, mi sembra di ritornar fanciulla, ora che voi vi interessate a me e a questa mia curiosa vicenda. E, se mi guardo allo specchio, non vedo il mio volto coperto dai solchi profondi delle rughe, la mia canizie raccolta sulla nuca con tante forcine. Vedo, invece, il mio viso di ragazza felice, quando i miei folti capelli, se non erano stretti in una treccia, facevano cornice, sciolti sulle spalle, ai miei tratti minuti e, non ridete, vi prego!, alle mie piccole rughe, perché, nonostante la giovane età, i miei occhi sempre avevano avuto, tutt’intorno, queste sottili e, all’epoca graziose, ragnatele.
Vi parlavo di ragazza felice e devo dirvi, in tutta sincerità, che ebbi degli anni in cui fui molto felice… forse… forse solo quattro anni, tra i diciannove e i ventitre anni, tra la muffa e Baghari.
Ma lasciate che vi spieghi.
Avevo, fin dalla più tenera infanzia, sognato di fare l’attrice. Oh, non quella di cinema! Sognavo di calcare… le scene teatrali. E, come tutte le bambine, alternavo questo mio sogno a quelli sentimentali.
Avevo visto in televisione, un pomeriggio, il signor Poli che interpretava
un bambino sciocco e tontolone in balia degli scherni di una… bambinaccia (sì, sì: lui si sarebbe espresso così).
Beh, vi devo confessare che lo trovai bellissimo e, con l’amore che può provare una bimba di cinque o sei anni, me ne innamorai.
Era bello, ma non solo… aveva, ai miei occhi, qualcosa che mi avrebbe, anche in seguito, affascinato in altri uomini. Aveva, pur essendo già, per età, uomo, l’aspetto di un bambino. E poi… poi qualcosa di femminile, di aggraziato, di così lontano dal prototipo della virilità che io trovai allora – e avrei trovato anche in seguito – particolarmente consono alle mie esigenze di donna.
So che voi comprenderete, che non farete della facile e, permettetemi la parola, sciocca ironia su un discorso di virilità per il signor Poli. So che non siete così conformista! E credo di conoscervi ormai troppo bene se tutti i martedì venite in visita da una vecchia pazza come me, se accettate il mio desinare monotono, le mie chiacchiere ininterrotte, se vi immergete con me nelle mie carte, nelle mie foto, nella polvere del mio studio… se sembrate gioire di questa mia infanzia rugosa!
A diciannove anni, dunque, decisi di conoscerlo.
E’ strano come io che sono sempre stata fatalista, che aspetto ancora oggi, nonostante l’età, che i sogni si avverino (e si avverano, credetemi, basta aver pazienza, basta saper aspettare!), a volte decida di essere io stessa a guidare il destino e di colpo diventi artefice dell’accadere degli eventi.
E così, quella volta, andai nel suo camerino con la banale scusa di complimentarmi per il suo spettacolo.
Credo, tuttora, che la mia presenza lo rallegrasse, e insieme uscimmo nella notte della triste città e insieme andammo a cena.
Fu così che iniziò una storia, la storia più lunga della mia vita, la mia
unica vera storia d’amore.
“Una storia d’amore con… con un uomo così?” mi chiederete. Eppure vi assicuro che fu una storia d’amore, anche se particolare, se fuori da ogni norma e da ogni schema.
La vecchiaia mi permette di parlare chiaramente di argomenti che forse, un tempo, mi sarebbero parsi imbarazzanti, sui quali una certa educazione e, non da ultimo, il fatto di essere donna mi avrebbero imposto il silenzio.
Invece da vecchi, se solo si è un po’ più saggi, si è sicuramente molto
più liberi e senza tanti falsi pudori.
E allora vi devo dire, senza più tergiversare, che ci sono molti modi di fare l’amore: è solo, come dire?, una questione di testa. Perché il segreto di tutto è solo qui, in questa ‘scatoletta’ sotto i capelli.
Pensate che, per merito della ‘scatoletta’, io ancora l’ho con me, il signor Poli, in questa grande casa dove io ormai mi muovo a fatica e dove lui fu solo poche volte, ma che felicità, quelle volte!
Mi sembra ora: lo vedo entrare, fare come se questa fosse la sua casa, gioire per le mie tavole apparecchiate con cura, per il rosso di una tovaglia, per il lume di una candela.
Ma è meglio che adesso torni al mio racconto.
A diciannove anni ero piuttosto robusta. L’essere grassa o magra erano sempre stati, per me, segnali dei miei umori e dei miei turbamenti.
A quell’epoca, prima di conoscerlo, ero inquieta e vivevo gli smarrimenti di chi, volente o no, si sta trasformando in donna.
Ero stata molto corteggiata, ma, per chissà quali motivi, la cosa mi annoiava. Non m’interessava fare la vita delle altre ragazze, non mi interessava avere un ragazzo al fianco.
Così declinavo con finte scuse ogni invito e, a poco a poco, mi ero isolata.
Vivevo – a parte la scuola il mattino – tutta la giornata in casa. Studiavo di mala voglia, leggevo senza passione e annegavo quella mia noia esistenziale nel mangiare senza ritegno, a qualunque ora, qualunque cosa.
Quando conobbi il signor Poli avevo finito il liceo e portavo le conseguenze floride del mio essermi lasciata andare.
Ebbene, mio caro, pensate! Lo conobbi in ottobre; per i morti lo andai a trovare a Roma; in dicembre, quando tornò per il suo mese di spettacolo nella mia triste città, io non ero più la stessa.
Ero magra, incredibilmente cambiata, ritornata con la mia gioia di vivere.
E mi ero (ma mi sembra che voi già l’abbiate capito e – del resto – che cosa non capite voi, mio amato interlocutore?) trasformata per lui, perché ormai ogni mio gesto era studiato, ogni mia decisione era presa, per far piacere a lui, per avere la sua stima e la sua ammirazione.
In dicembre, dunque, quando arrivò, mi trovò iscritta alla Facoltà di Lettere, libraia il mattino – per il periodo natalizio – in una grossa libreria, marionettista – nei fine settimana – nel teatro dei Lupi.
Sì, ero riuscita, in modo un po’ particolare, dietro le quinte, a fare teatro, muovendo i fili e dando la voce a marionette antiche, in un teatrino antico e, potrei dire anche con gente antica, perché quando scendevo negli scantinati della chiesa di Santa Teresa – dove era il teatrino in miniatura con platea, galleria, barcacce, sipario in velluto rosso – tutto era immerso da un profumo di muffa e di passato: gli arredi, i muri e gli uomini stessi.
E chi vi entrava, chi vi lavorava, si staccava quasi dal mondo reale, quello esterno, quello che frettoloso percorreva le strade della città, per fare parte di questo altro mondo, mondo fittizio e pur vero a un tempo, mondo che sapeva di muffa, con uomini che sapevano d’antico.
Avevo, dai Lupi, un mio camerino – essendo l’unica donna -, una specie di ripostiglio scavato nei grossi muri. L’odore della muffa era qui più intenso che mai.
Mi serviva, il camerino, per indossare i miei abiti da lavoro che erano pantaloni in velluto e maglia blu, roba andante che non correva il pericolo di sciuparsi, sfregandosi contro il ponte da cui muovevamo i nostri ‘bambini con fili’.
Il vecchio Lupi, suo figlio e tutti gli altri si cambiavano sotto, in una specie di scantinato.
Quei signori, con cui lavoravo, erano attratti da me e ognuno a suo modo, e con i suoi mezzi, aveva cercato di corteggiarmi: chi portandomi a teatro per farsi ammirare come scenografo; chi cercando di commuovermi con la sua infelicità coniugale; chi facendomi da autista quando andavamo, per qualche motivo, in trasferta.
Anche il vecchio, scorbutico signor Lupi non mi aveva fatto mancare qualche complimento, ma erano complimenti garbati, da vecchio gentiluomo.
Quello che nessuno di loro – e nessun uomo in generale – riusciva a capire, è che una donna possa decidere di essere sola, possa da sola ( ma non sola) essere nel mondo.
Il signor Poli venne naturalmente a vedere gli spettacoli e, con la signorilità che lo distingueva, si aggirava tra quelle bambole di legno, si interessava, mandava pubblico.
E i miei colleghi, che non avevano, prima del suo arrivo, risparmiato le solite pesanti battute sul suo conto, ammutolivano alle sue parole e io, dopo lo spettacolo, me ne andavo con lui (io sempre sola) con l’orgoglio di essere con una persona unica.
E al suo braccio percorrevo le strade della mia città che, da quando conoscevo lui, non era più triste, anzi, mi accorgevo che era una città molto bella e come lui l’amava, io l’amavo. E tanto parlavamo in quelle nostre camminate! Prima d’arte e di letteratura, poi, a poco a poco, i nostri discorsi si fecero sempre più personali e tra noi si creò sempre più una vera e propria intimità.
Io vissi con il signor Poli tutti gli episodi più importanti della mia vita e lui solo seppe di me cose che mai nessun altro avrebbe saputo.
Fummo insieme, nella notte profonda, a passeggiare nel parco del Valentino, in quei suoi Natali torinesi, in questa città che io ora amavo.
Noi due, sotto la neve, sotto il suo ombrello, eleganti dopo una serata da comuni amici, con i piedi bagnati nelle nostre scarpe da sera. Stretta a lui, sotto l’ombrello, mi sentivo donna, felice e appagata, mi sentivo amata e stimata.
E fummo insieme in molte altre occasioni. Fui nella sua casa di campagna, fummo più volte a Firenze e a Milano.
Mi fu vicino quando mi nacque mia figlia, in un inverno gelido, sotto la neve, a Torino.
Mi fu quasi marito… se con questo termine non lo sminuissi: mi donò fiori, gioie, mi offrì denaro in momenti di bisogno.
E, come se realmente fosse mio marito, lo seguii nella sua camera d’albergo, io, allo stremo delle mie forze, con la pancia immensa di un nuovo bambino e il portiere mi donò una rosa, mentre mi vide, serena, salire con lui.
E, giunti in camera, mi aiutò a spogliarmi, mi offerse una sua vestaglia e, dopo avermi fatta sdraiare, si sdraiò lui pure accanto a me, accarezzandomi con grande tenerezza e con un po’ di pena per il mio stato felice e infelice a un tempo e, alla voce di lui che leggeva per me, mi assopii in uno dei sonni più sereni e dolci della mia vita.
Fedele amico, quando giungerà il giorno del nostro prossimo incontro, quando ancora una volta voi sarete qui per dividere con me le mie follie, ricordatemi, vi prego, di mostrarvi la bottiglietta del mio Baghari.
E se vorrete continuare a essere pazzo con una pazza come me, aprirò per voi quest’ultima ampolla (non ne esistono più in commercio, sapete?) e insieme sentiremo questo elisir, questa magica pozione che mi riporta ai miei anni più felici, a quando, dopo essermene spruzzata abbondantemente le vesti e il collo e i polsi, al suo braccio, al braccio del signor Poli, percorrevo le vie della mia città che non era più solo una città triste e fumosa, ma… l’universo stesso!
E vi farò anche vedere la mia camera, con il suo cuscino di raso a forma di cuore sul mio grande letto matrimoniale. Perché, forse non ve l’ho mai detto, e forse può non sembrare, un tempo lontano fui anche una donna sposata, ebbi un marito e sarei stata – credetemi! – un’ottima moglie se lui avesse saputo non solo sposarmi, ma anche amarmi. E credo, con quel mio matrimonio, di aver portato tristezza in molte persone (non solo nel signor Poli) soprattutto in quelle per cui ero stata fonte di inesauribile letizia.
Questa, mio caro, è la curiosa vicenda, fatta di odori e di profumi, fatta di testa e di cuore, ma così ricca, così vissuta, così fondamentalmente essenziale nella mia vita, che al confronto tutto il resto sparisce.
E anche ora che non lo vedo più (ma chissà dove siamo quando semplicemente non ci vediamo più!) la vicenda curiosa e dolce, la sua piena tenerezza vivono sempre e comunque in me.
A presto, a martedì, e credetemi
vostra aff.ma *****
P.S. Aggiungo ancora qualcosa e lo aggiungo per dirvi che vorrei tanto che voi esisteste davvero, amico caro, fedele interlocutore, e vorrei già vedermi vecchia, già tutta rivolta a guardare il passato, già con una vita interamente, o quasi, compiuta.
Invece no! Voi non esistete e io vi immagino e vi cerco, io che ancora brancolo nel mezzo della vita, e non sono vecchia, e non so se mai lo sarò o se la sorte mi riserverà la fine precoce di molte donne della mia famiglia.
E mi dispero, in questo marasma, follemente, e mi dispero e sono disperata a volte come non mai.
Ed è per questo che vi cerco ed è per questo che parlo di lui, di Paolo Poli, per voler dire di lui “quello che mai non fue detto d’alcuno”.
Fiumetto – Lucca, settembre/ottobre 1988
La foto di apertura è di Mariapia Frigerio e ritrae l’autrice insieme a Paolo Poli
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