L’olio artigiano secondo Aifo
Abbiamo letto i due volumi editi da Agra con il titolo comune Il valore dell’olio e siamo rimasti contenti e nel contenpo delusi. La nostra recensione fa emergere alcuni aspetti che non ci convincono. Anche perché dopo poco meno di 500 pagine e tante erudizioni a buon mercato scopriamo che in fondo l’olio artigiano è semplicemente un olio a regola d’arte
Non uno, ma due libri. Stesso titolo, Il valore dell’olio, contraddistinti da un differente sottotitolo, il volume 1, a cura di Mario Pacelli e Giampaolo Sodano, reca la specifica L’olio artigianale e gli artigiani del cibo. L’espressione ricorre due volte, in modo da non lasciare spazio a equivoci. Abbiamo dunque a che fare con il mondo artigiano, i due volumi cercano di spiegare al lettore la differenza con il resto della produzione olearia.
Il volume 2 si esplicita con un sottotitolo altrettanto eloquente: Il manifesto dell’olio artigianale. Insomma, il lettore non potrà che arricchirsi di un sapere strettamente legato all’olio e alla sua genesi. Con una distinzione decisiva, però: chi legge dovrà in qualche modo addentrarsi in una posizione ideologica che si fonda tutta, a dire dello stesso direttore dei frantoiani di Aifo, Sodano, sull’homo faber. È stata sufficiente la lettura di Pico della Mirandola, per dar corpo a una nuova (pare) visione dell’olio, in un’ottica esclusivamente e segnatamente artigiana.
L’editore, Agra, ha confezionato molto bene i due volumi, proponendoli entrambi al prezzo complessivo di 25 euro. Io sarei del parere che si debbano leggerli. Anche se il mondo dell’olio si dimostra poco incline alla lettura, io lo consiglio.
Una premessa mi sembra tuttavia necessaria per quanti leggeranno questa recensione: io non sono amato da Aifo, anzi nutrono una aperta ostilità nei miei confronti. E neppure io, sia ben chiaro, apprezzo e stimo i vertici, e in particolare il Direttore, cui attribuisco la responsabilità di aver introdotto nel mondo dell’olio gli atteggiamenti meno nobili della politica, apportando così una riserva di pregiudizi e, soprattutto, una tendenza a fare lobby che porta a dividere anziché unire gli attori della filiera.
Veniamo ora ai due libri. Il primo volume è quello meno convincente, ma non per questo di minor valore. E’ interessante l’analisi introduttiva di Tiziana Sarnari, di Ismea, la quale ci introduce in maniera oggettiva nel mondo degli oli da olive, senza per questo aderire, come fanno altri autori dei testi, al verbo dell’olio artigianale, e questo, occorre riconoscerlo, le fa sicuramente onore.
Il primo capitolo, di cui risulta autore Giampaolo Sodano, ha un titolo che riprende tal quale il sottotitolo del primo dei due volumi. Sin dalle prime righe emerge una visione manichea, dalle spinte contraddittorie, con un sostrato popolano anziché popolare, dove non esita paradossalmente a emulare lo stesso linguaggio di Funari, proprio lo stesso linguaggio che un tempo non condivideva, avversando piuttosto aspramente lo stesso conduttore televisivo, fino a portare Funari a lasciare la Rai.
Il Direttore di Aifo non disdegna di ricorrere a una serie di frasi fatte e refrain cui siamo da tempo abituati. Emblematico quando scrive che non sarebbe possibile chiamare con l’appellativo di olio “le sostanze grasse che si ottengono per combinazione con prodotti chimici”. C’è da stupirsi di simili luoghi comuni? Sicuramente una persona con il ruolo ricoperto da Sodano, in qualità di direttore di Aifo, non dovrebbe certamente cavalcare modi di dire cosi grossolani ed estremi, anche sul piano scientifico.
Che cosa significa “combinazione con prodotti chimici”? Possiamo capire che deve in qualche modo agitare il popolo dell’Aifo, ma ha senso farlo sottraendo dignità a due volumi pur ben congegnati nella loro struttura?
Non farò certo l’esegesi di tutti i capitoli, poiché altrimenti non sarebbe piu una recensione ma un saggio. Alcune considerazioni di Sodano sono però condivisibili, per esempio quando sostiene che il termine “industria” sia “assolutamente inadeguato al comparto degli oli da olive”. Peccato che dopo poche righe se ne dimentichi troppo in fretta, pur di lodare un fantomatico quanto presunto olio artigianale. Ma cos’è l’olio artigianale? Leggendo il primo volume non lo si comprende. Si susseguono parole su parole, ma andando al nocciolo della questione non appare una differenza tra gli oli ricavati dalle olive: se appertengono alla categioria degli extra vergini sono extra vergini. L’eccellenza la produce chi coltiva bene le olive e chi ne sa estrarre con sapienza il prezioso succo. Non c’è una distinzione reale, si tratta sempre di un prodotto frutto del lavoro dell’uomo. Da qui dunque una tra le tante contraddizioni che non trovano alcuna giustificazione, se non nel fatto che Sodano si muova strumentalmente, con furbizia, solo per arringare il proprio pubblico, facendo scatenare un sentimendo di odio verso chi non si allinea nelle posizioni ideologiche dell’olio artigianale che non c’è.
Già, l’artigiano, ma chi è davvero costui? Di cosa e di chi stiamo parlando, se l’olio lo si estrae comunemente dalle olive, in tutti i frantoi del mondo? Non esistono di fatto distinzioni sostanziali tra i frantoi, dal momento che in Italia di frantoi dalle grandi dimensioni, sul modello di quelli spagnoli, ne esiste semmai solo uno, in Puglia. La distinzione è pretestuosa.
Ecco allora il senso, strutturalmente debole, di un primo capitolo che si presenta zoppo. C’è da osservare tuttavia che quando il Direttore di Aifo ha da denigrare, è senza dubbio un maestro. Di conseguenza, l’olio lampante che i tanti olivicoltori italiani producono diventa per lui un obbrobrio, nel momento in cui l’olio di oliva vergine lampante si muta merceologicamente in olio di oliva. Sodano per essere più gradito all’uomo senza solide basi culturali sostiene che l’olio lampante viene “raffinato con l’aiuto di soda caustica”, mentre ci vuole una “pioggia di esano” per l’olio di sansa. Usare espressioni forti fa scena. Si tratta di chiarire se gli oli di oliva e gli oli di sansa di oliva siano da considerare alimenti sani oppure no, da quanto scrive Sodano è evidente che no, eppure aziende cosiddette artigiane non hanno esitato a vendere tali prodotti. Non è forse una lacerante contraddizione? Resta da chiedersi, intanto, a cosa serva un simile atteggiamento. Sicuramente a gettare discredito all’interno del comparto.
Il Direttore di Aifo, sempre in questo lungo capitolo iniziale, dapprima sostiene che non si può parlare di industria, salvo poi liquidarla qualche passo più avanti come cinica e bara, aggiungendo inoltre che se questa non truffa fa comunque “qualcosa che ci somiglia”. Un attacco frontale, nel classico modello importato dalla politica. Non solo, l’artigiano alla guida di Aifo se la piglia anche con il legislatore, giudicandolo “superficiale e distratto”, solo perché si permette di chiamare “olio” l’olio di semi. Sodano si dilunga poi su temi a lui cari, e parla perfino di “coscienza”, materia in cui evidentemente si ritiene maestro.
Il linguaggio è ora tranquillo, quando c’è da elogiare gli artigiani, ora invece livoroso quando c’è da attaccare chi artigiano non è. Sembra per certi versi il Bossi degli esordi, a volte, con un linguaggio spiccio, duro, aspro, salvo poi vederlo diventare candidamente poetico, soprattutto quando scrive di olio. E’ un brodo di giuggiole, dalla scrittura affettata: “quando – scrive – lo sguardo si appoggia su di lui (l’olio) gli occhi si riempiono di verde”; e ancora: “quando la bocca si apre vogliosa entra delicato e prepotente”. Insomma, una autentica vena poetica, dall’animo nobile, tanto da arrivare a citare, oltre a Pico della Mirandola, sempre per sostenere la sua fissa dell’homo faber, anche Lorenzo de’ Medici, il quale tra l’altro definiva gli artigiani “i fratelli dei grandi artisti”. Se è così, così sia.
Il secondo capitolo lo firma invece Mario Pacelli, professore di diritto pubblico all’Università di Roma. Egli esamina il percorso storico compiuto da legislatore in materia di olio da olive. Si tratta di un excursus molto interessante, salvo quando ci si rende conto che il pur pregevole lavoro è inficiato da una strisciante connotazione ideologica. Allo studioso oggettivo e distaccato si sostituisce lo studioso di parte, e così ci si trova davanti a un giurista che prende deliberatamente una posizione, perdendo in oggettività.
Alcune affermazioni di Pacelli tolgono quella serenità scientifica attribuibile al suo studio, soprattutto quando gli capita di affermare che la “miscelazione degli oli rettificati con oli ottenuti con procedimenti meccanici e posti in commercio come tali hanno una etichetta chiaramente menzognera”. Menzognera? Insomma, il Pacelli sarà pure un docente universitario, ma non può certo esprimersi in modo così parziale. Se esiste la categoria merceologica degli oli di oliva, non la si può contestare attribuendogli una connotazione menzognera. Se lo prevede la legge, un giurista deve pur accettare ciò che la legge riporta. Mi sembra inoltre azzardato scrivere che le etichette contengano “indicazioni spesso incomprensibili, fatte di termini tecnici e di numeri di difficile apprezzamento”. Resterebbe da chiedergli quale sarebbe una sua etichetta tipo, così da chiarirci le idee al riguardo. Insomma, leggendo il pur interessante capitolo, c’è da rimanere sbalorditi per l’imprudenza nell’esprimere certe valutazioni, soprattutto appare anacronistico quando si spinge quasi a evocare un periodo d’oro, che non a caso, secondo il Pacelli, riconduce dritto al Medioevo. E’ questa età dell’oro che noi dobbiamo avere come modello? A me sembra di vivere nell’anno del Signore 2015, e non possiamo certo guardare con nostalgia al passato, anche perché la società si evolve, come pure la scienza, dal momento che la stessa qualità degli oli prodotti è senza dubbio migliore. Ha senso, pertanto, che un professore di diritto pubblico abbandoni i panni dello studioso per indossare quelli del tifoso di un mondo che non c’è più? Se oggi la tecnologia ci permette di produrre un olio di oliva, accanto a meravigliosi extra vergini, perché disdegnarli? Non sono sempre figli della medesima materia prima? Che si fa, si gettano via le olive che non ci consegnano oli di qualità?
Il primo volume poi prosegue con una serie di interviste alle più diverse figure professionali. Si va dall’immancabile Colomba Mongiello, parlamentare vicina a Coldiretti, a diversi giovani chef, fino a una consolidata colonna portante della cucina italiana qual è Alfonso Iaccarino, ed altri soggetti ancora, fino a concludere la serie di testimonianze sugli oli da olive con un improbabile quanto patetico dialogo immaginario di Fabrizio Mangoni con tre bottiglie d’olio.
Il volume 1 si conclude infine con una selezione di testi normativi, i quali recano senza dubbio l’unico elemento di oggettività che caratterizza l’intero volume.
Il volume 2, invece, ve lo anticipo, attrae molto di più, e contiene una lunga serie di interventi, alcuni dei quali parecchio interessanti, il migliore dei quali è a firma di Andrea Giomo, peccato soltanto che a un testo incontestabile, chiaro, pienamente condivisibile di Giomo, vi siano continui riferimenti a una parola, “artigiano”, troppe volte ripetuta solo per giustificare un’aderenza al sottotitolo del libro, Il manifesto dell’olio artigianale, quando in realtà non ce ne sarebbe stato bisogno, e sarebbe stato sicuramente un capitolo più avvincente e più credibile, come comuque lo è. D’altra parte, sono sempre più convinto che un professionista, soprattutto se prende parte come autore in un volume collettivo, deve limitarsi a comunicare il proprio sapere, senza doverlo per questo giustificare richiamando a ogni pie’ sospinto una presunta artigianalità che dopo aver letto primo e secondo volume a me sembra appaia solo presunta ed esibita, ma per niente affatto reale e concreta. Del secondo volume però ne scrivo la prossima settimana.
Per commentare gli articoli è necessario essere registrati
Se sei un utente registrato puoi accedere al tuo account cliccando qui
oppure puoi creare un nuovo account cliccando qui
Commenta la notizia
Devi essere connesso per inviare un commento.