La casa di Gregorio
Racconto. Salirono i tornanti della collina e si fermarono fuori da un grande cancello. Ma la casa non si vedeva o meglio, dal viale, se ne intravedeva solo uno scorcio. Risalirono in macchina e ridiscesero lungo le curve della strada costeggiata da cipressi, quando lui, a un certo punto, si fermò perché, tra gli alberi, era apparsa, quasi all’improvviso, in una prospettiva inaspettata, chiara e visibilissima la “Casa di Gregorio”
Amelia vide per la prima volta la “Casa di Gregorio” quando Ezio la venne a prendere a scuola all’inizio di febbraio.
Se lo era trovato davanti inaspettato mentre si stava avviando alla bicicletta. L’emozione l’aveva fatta inciampare nell’ombrello chiuso e i libri le erano caduti sul selciato. Ezio sembrava calmo. Apparentemente.
Salirono sull’automobile di lui e partirono senza una meta. Poco distante dalla scuola un cartello indicava una strada privata. Lui rallentò. Le disse che in cima a quella strada c’era la sua casa estiva. La casa dove da anni si rifugiava, nei mesi più caldi, per scrivere.
Amelia sapeva poco di lui. Nulla, poi, di quella casa. Nel gruppo degli amici del padre scultore era l’unico letterato e l’unico che vivesse in città. Nell’ultimo mese era stato molto assiduo da loro. Veniva a mangiare la sera. E proprio durante quelle cene aveva parlato anche con lei. Amelia frequentava l’ultimo anno dell’Istituto d’Arte ma, a differenza del padre, studiava pittura. E amava scrivere. E dei suoi scritti, oltre che dei suoi acquerelli, Ezio si era interessato.
Salirono i tornanti della collina e si fermarono fuori da un grande cancello. Ma la casa non si vedeva o meglio, dal viale, se ne intravedeva solo uno scorcio. Risalirono in macchina e ridiscesero lungo le curve della strada costeggiata da cipressi, quando lui, a un certo punto, si fermò perché, tra gli alberi, era apparsa, quasi all’improvviso, in una prospettiva inaspettata, chiara e visibilissima la “Casa di Gregorio”. Chiara e visibilissima come per lungo tempo sarebbe rimasta nella mente e nel cuore di Amelia.
Ezio si mise a spiegarle: «Quella, vedi, è la mia camera. Quello lo studio. Quella, in basso, la finestra del fattore». Amelia ascoltava in silenzio. Finirono il breve tempo a loro disposizione in un caffè: ordinarono un succo di ananas e un Negroni. Poi Ezio la riportò alla bicicletta.
Passarono alcuni mesi da quel loro incontro. Amelia si accorgeva però, quando stanca usciva dall’aula, di cercare con lo sguardo la casa, come se qualcosa di inspiegabile l’attraesse. La casa non era visibile dalla sua scuola, ma lei, che non aveva senso dell’orientamento e sapeva di vivere di sogni, la immaginava ora in questa, ora in quella costruzione. E saliva poi in bicicletta e ritornava a casa più serena.
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Si ritrovarono nell’estate. Ma nei mesi in cui erano stati lontani lui le aveva scritto molte lettere. Lettere in cui indicava sul foglio, in alto a destra, il luogo, la data e, spesso, l’ora. Dalla metà di luglio si videro, invece, quasi tutti i giorni. Ugualmente continuarono a scriversi. E i loro incontri – limitatissimi nel tempo, forse un’ora o poco più – erano dedicati, quasi esclusivamente, alla lettura delle rispettive lettere.
Amelia non disse mai ai suoi del tempo che passava con il loro amico.
Una mattina, mentre sedevano intenti a leggersi nel luogo dove avevano preso l’abitudine di trovarsi, sulla solita panchina, Amelia vide scritto in alto a destra, sul foglio di Ezio, “Casa di Gregorio”, la data e l’ora. Ne chiese spiegazione. Lui le disse che quello era il nome di un contadino che aveva abitato la sua casa prima che i suoi genitori, all’inizio del secolo, la comprassero. E il fatto che lui le scrivesse dalla “Casa di Gregorio” la emozionò. Le sembrò presagio di qualche inaspettata felicità.
Un giorno Ezio le portò delle foto dei loro luoghi – del giardino dove s’incontravano, della panchina su cui si sedevano, del caffè che frequentavano – e della “Casa di Gregorio”. Gliele donò. Amelia le ripose come reliquie insieme agli scritti di lui e alle sue cose più segrete.
All’inizio di settembre lui chiuse casa e tornò in città. Lei partì con amici per un viaggio in Scozia, prima dell’inizio dell’università. Con la lontananza l’immagine di Ezio non si offuscò nella mente di Amelia. Né la “Casa di Gregorio” scomparve dai suoi sogni.
Per quindici giorni non lo vide. Lo sentì telefonicamente quando era possibile. E pensò che lui l’amasse. E fu certa, da parte sua, di amarlo.
Appena rientrata da Edimburgo Amelia lo chiamò. Si diedero appuntamento nei loro luoghi per il giorno successivo.
«Ma non staremo sulla panchina» le disse Ezio.
«Va bene» rispose Amelia. E si chiese se l’indomani, vedendolo, avrebbe avuto il coraggio di stringerlo forte a sé, come da tempo desiderare fare.
Si videro nel luogo previsto. Non si abbracciarono. Si incamminarono parlando alla macchina di lui, lei mostrandogli dei ricordi di viaggio, lui donandole libri e scritti. E quando giunsero in cima alla strada e lui aprì il cancello e percorsero in automobile il viale e lui entrò nella “Casa di Gregorio”, lei, entrando dietro a lui, capì di avere sempre, forse inconsciamente, desiderato essere lì.
Amelia aveva diciannove anni. Ezio più di quaranta. Ed era amico di suo padre. Ma vinse ogni titubanza di lei dicendo che tutto quello che sarebbe accaduto tra loro sarebbe accaduto solo «ad maiorem dei gloriam».
Risero ancora insieme, prima di lasciarsi, nel solito caffè davanti al succo d’ananas e al Negroni.
Non si sarebbero visti fino al giovedì successivo. Ma lei pellegrinò, nella sua memoria, a ritrovare tutte le immagini di lui, tutti i loro incontri, tutte le loro parole, tutte le loro felicità.
E mentre lei pellegrinava, pensava che anche lui stesse facendo altrettanto, chissà? forse nelle stesse ore, negli stessi momenti.
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Verso la metà di novembre Amelia iniziò a provare una certa insofferenza all’idea di vedere Ezio. L’estate era lontana. I mesi di settembre e di ottobre ormai un ricordo. Lei era adesso all’università e lui aveva ripreso il suo lavoro al Centro Culturale Francese.
Un giorno fisso per incontrarsi… L’idea, di Ezio, era stata accettata da Amelia. Forse subita. Per due volte consecutive la ragazza trovò delle scuse per non andare all’appuntamento. E quando il terzo giovedì lo rivide (e ormai erano in dicembre), stabilì che si sarebbero trovati al caffè dei loro incontri estivi e di quelli ottobrini, dopo l’amore. Non volle più salire alla “Casa di Gregorio”.
Trovò la scusa che aveva paura che i suoi scoprissero qualcosa. Ma era, appunto, solo una scusa.
Ezio gli apparve di colpo vecchio, troppo vecchio per lei e diverso dai suoi amici. Si ricordò, inoltre, che da tempo non aveva più mostrato interesse né per i suoi scritti né per i suoi acquerelli. L’idea di un appuntamento fisso, poi, le era insopportabile.
Pensò che tradiva la fiducia dei suoi genitori. Pensò che cercava, in lei, solo un corpo giovane. E glielo disse.
L’uomo rimase esterrefatto. Erano tre giovedì consecutivi che non la toccava. Che non toccava la sua pelle liscia.
«Sei fatta di pelle liscia» le diceva sovente mentre la carezzava.
«Le donne non hanno forse tutte la pelle così?» gli rispondeva Amelia.
«No, hanno dei nei, dei peli, delle pieghe… non so. Insomma non hanno la pelle liscia come la tua». Tre giovedì consecutivi in cui lei non accostava le labbra al suo orecchio per parlargli, con quella voce che per lui aveva lo stesso incanto di quella di Nausicaa su Ulisse. E Nausicaa, infatti, spesso la chiamava.
L’essere definito vecchio lasciò Ezio indifferente. Si giustificò, invece, del suo disinteresse per i lavori di lei. Mostrò dispiacere per il tradimento all’amicizia di vecchia data. E, riguardo all’appuntamento fisso, le spiegò che una volta la settimana voleva dire quattro volte al mese per circa nove, dieci mesi. E i tempi dell’attesa di quel giorno, stabilito per gli impegni di entrambi, non erano altro che un prolungamento del loro amore.
Ma riguardo al corpo giovane rimase muto. Muto e adirato. Per troppo tempo era stato privato di quel contatto così piacevole, talmente piacevole da sembrargli, ora, irrinunciabile. Non riuscì a trattenersi e sbottò: «Non mi sembra che ci siamo visti, nei mesi scorsi, solo per parlare».
Un’affermazione infelice, ma per Amelia un’ancora. Un’ancora di salvezza che le si offriva inaspettata, a cui si sarebbe prontamente aggrappata per rompere quella relazione che ora le appariva solo squallida. Squallida e, soprattutto, noiosa.
Quando fece per andarsene, liberata da quello che per lei era ormai un peso, lui cercò, con un gesto disperato, di trattenerla. Lei rapidamente si liberò dalla stretta. Non provava più la benché minima emozione per lui né ricordava d’averla mai provata. Intravide della sofferenza sul volto dell’uomo. Forse davvero l’amava? Aveva importanza per lei? No, era solo importante sapere che era lei a non amarlo più. Era solo, per lei, importante – indispensabile – liberarsi di lui.
Lo lasciò nella piazza alberata. Avrebbe fatto molta strada a piedi. Poi cercato un pullman che la portasse alla bicicletta.
E sarebbe tornata dai suoi. A casa. Finalmente alla sua di casa. Avrebbe fatto visita al padre nel suo studio, commentato con lui i suoi ultimi lavori. Sarebbe stata felice di sentire le sue mani carezzarle i capelli. Poi avrebbe raggiunto la madre nella grande cucina con terrecotte sulle mensole di legno. Avrebbero ricordato insieme le volte in cui la donna le aveva insegnato a mescolare i colori prima di stenderli sulle ciotole (che le fosse venuto da lì il suo amore per la pittura?).
Si rivide bambina. Pensò che tra poco avrebbe riassaporato anche i sapori della sua infanzia. Sapeva che la madre quel giorno avrebbe preparato i necci. I necci con la ricotta. Sulle pareti, vicino alla grande cappa, erano appesi i testi di ferro scuro. Tra poco sarebbero stati usati. E fu presa, nel pensiero, mentre veloce pedalava, dal desiderio di abbracciarla, di stringerla forte, quando l’avrebbe trovata indaffarata davanti al grande acquaio di pietra.
Desiderava solo ritornare ad essere la sua bambina. Una bambina senza uomini che, come Ezio, la sporcassero.
Quella era la sua casa. Lì stava la sua serenità. Non altrove. Tutto quanto era accaduto non era stato «ad maiorem dei gloriam», ma solo un equivoco. Un insopportabile, angoscioso equivoco.
La “Casa di Gregorio” rimase a lungo per Amelia un incubo. Poi, come per miracolo, sparì dalla sua mente.
Lucca, 26 maggio 2009
In apertura, foto di Mariapia Frigerio
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