Saperi

La compagnia degli ulivi tra terra e cielo

Quel che abbiamo ereditato, che coltiviamo e che lasceremo ad altri. Un saggio – storico, letterario e spirituale – ispirato all’olivicoltura ligure

Giorgio Barbarìa

La compagnia degli ulivi tra terra e cielo

Per tutti noi, incontrarsi oggi qui, tra terra e cielo, è un’esperienza nuova. Oggi qui s’incontrano persone che credono nella terra e nel cielo, nella compagnia degli ulivi e nella cultura dell’olio. Noi oggi siamo qui perché attratti dalla terra e dal cielo: la terra che abbiamo ereditato, che ora stiamo coltivando e poi lasceremo ad altri; il cielo di cui godiamo per grazia di qualcun Altro, che invita a dirigere il nostro sguardo verso gli altri e ci ispira a pensare in grande, oltre l’orizzonte.

Terra, che copre la nuda roccia, terra tenuta su da muri fatti di quella stessa roccia, pietre di roccia necessarie a fondare una cattedrale a cielo aperto, la cattedrale di ulivi che uno scrittore di questo «bel angolo di Liguria», Giovanni Boine, in uno scritto del 1911, La crisi degli olivi in Liguria[1], ha definito «l’opera trionfale di uomini pacifici e ricchi». Queste le sue parole:

«Terrazze e muraglie fin su dove non cominci il bosco, milioni di metri quadri di muro per quindici per venti chilometri dal mare alla montagna, milioni di metri quadri di muro a secco che chissà da quando, chissà per quanto i nostri padri, pietra per pietra, hanno colle loro mani costruito. Pietra su pietra, con le loro mani, le mani dei nostri padri per secoli e secoli, fin su alla montagna! Non ci han lasciati palazzi i nostri padri, non han pensato alle chiese, non ci han lasciata la gloria delle architetture composte: hanno tenacemente, hanno faticosamente, hanno religiosamente costruito dei muri, dei muri a secco come templi ciclopici, dei muri ferrigni a migliaia, dal mare fin su alla montagna! Muri e terrazze e sulle terrazze gli olivi contorti a testimoniar che han vissuto, che hanno voluto, che erano opulenti di volontà e di forza; i muri e le terrazze a testimoniare che han vinto contro la natura la loro battaglia ordinata; gli olivi contorti a mostrarci la generosità e l’opulenza delle anime loro. Anime piene, anime pingui, anime vive nella lor tenace forma conchiusa, vive di tutti noi che non eravamo ancora e di tutti i padri che già eran vissuti. Perché gli ulivi! lentissimi a crescere, tardissimi a dare, solo i popoli ricchi li han coltivati; solo le generazioni a cui altre generazioni han tramandata una ricchezza sicura; solo le razze sicure della sopravvivenza loro, piene della sopravvivenza loro, piene e sicure della perpetuità della loro vita».

«Come il popolo di una città medioevale, la cattedrale sua, così noi nei secoli. Secoli di stenti, secoli di fede chiusa. Colpi di bidente, pietre l’una sull’altra a fatica: pareva avidità di possesso ed era nell’oscuro, nelle torpide profondità del volere, la coscienza di una razza, la forza di una razza, la sicura religione della razza. La nostra cattedrale! […] E noi fummo fra gli ulivi come un popolo antico nella sua cattedrale: ogni nostra speranza era lì, ogni nostra sicurezza era lì, negli ulivi. Ora dunque gli ulivi ci furono come una benefica divinità che manda l’abbondanza e la pace sopra il popolo suo. Noi fummo ricchi e pacifici. Noi lavorammo ciascuno sul suo, come uomini non come servi, ciascuno sul suo, mangiando del nostro pane, abitando la nostra casa, pregando la domenica, nelle chiese, com’è d’uso il Signore, ma credendo in noi, nei padri nostri, nei nostri figli e nella terra feconda. E noi fummo dunque, per fatica dei padri, uomini in cospetto del mondo e pacifici e ricchi».

Lo stesso Giovanni Boine spiega che la ricchezza di cui parla è «la ricchezza degli uomini sobri, non quella di chi ha i tesori in rifugio alle banche», vale a dire non è la ricchezza economica, ma quella umana, storica e architettonica, rappresentata dalla campagna coltivata ad ulivi, per contro al mondo del commercio, imperniato sulla città e indifferente alle fatiche dei contadini.

Boine non è un sentimentale, è un intellettuale di stampo tragico e di forte tempra morale. Non apparteneva a quelle «classi colte» che in Italia hanno preso «il vezzo di scambiare l’amore per la villeggiatura per la vita agricola», come registrava con disappunto nel lontano 1884 Stefano Jacini, presidente della Giunta per l’Inchiesta agraria[2]. Non era nemmeno come quei borghesi dei nostri tempi che fuggono dalla città per andare a vivere in campagna e poi ricostruiscono in campagna l’ambiente da cui sono fuggiti.

No, uno così non avrebbe scritto, per gli ulivi e per l’olio, parole d’amore come queste:

«Oh il morbido olio dei nostri frantoi quand’io era ragazzo: olio chiaro, olio dolcissimo, olio vellutato al palato; olio limpido, olio d’oro. – Ma in America ed in Germania l’olio italiano arriva ancora coll’etichetta di qui: di qui o di Lucca o di Nizza. E cosa sanno gli americani e i tedeschi del tenuissimo oro ch’io ho visto, fanciullo, con gioia gorgogliare e fluire di sotto le mole; gorgogliare e fluire dalle bacche pingui e nere mentre la ruota di pietra girava a tondo ritta sicura e pesante».

Uno così non avrebbe scritto, nel 1911, che «l’anima della politica nostra», è quella «della fluida, beffarda, impersonale, internazionale vita del Danaro», che avvantaggia solo la «tribù del commercio, dei negozianti al mare», mentre dovrebbe essere «quella della conservazione della terra, della lenta, salda, conservatrice e tenace vita della Terra». Uno così non avrebbe scritto che

«è questo cieco, ostinato, religioso attaccamento alla terra, la trave più salda, la base più salda della nostra nazione. Perché questa è religione, perché questa è saldezza, questa è immutabilità religiosa, il segno, nella torbida cecità ostinata, della saldezza, della sicurezza, della stabilità profonda dell’anima, di ogni anima religiosa che sente oltre la sventura di oggi, oltre la mutevolezza dell’oggi mutevole e sventurato la realtà sicura di sempre. […] Ed io dico – è sempre Boine che parla – che senza la religione del sempre non avrà vita la nostra nazione, ed io dico che se vorrete solo edificare, sull’anima e per l’anima e coll’anima avida e vagula dei servi del Danaro, avrete inutilmente faticato come chi, secondo i Vangeli, ha voluto costruire sulla mobile arena».

Questo vuol dire credere nella terra, vivere la terra, conservare la terra, in questo «bel angolo di Liguria».

Ma la compagnia degli ulivi non si accontenta di ancorarci, tenacemente, alla terra. Come nessun altro albero, l’ulivo e il suo frutto indirizzano al cielo.

Nei miti greco-romani è la dea della sapienza Atena/Minerva, a vincere il forzuto dio del mare Poseidone nella lotta per il possesso dell’Attica, la regione di Atene, piantando un albero di ulivo, dono divino che, scrive Sofocle, «nessuno mai annienterà, strapperà dal suolo», perché lo veglia eternamente «Zeus protettore dell’ulivo e Atena dagli occhi azzurri»[3], chiari come gli ulivi «frondadargento», per dirla col poeta e industriale dell’olio, Mario Novaro[4].

Nelle Sacre Scritture del popolo ebraico, la «foglia di ulivo» che la colomba «ha strappata con il suo becco» (Genesi 8,11) rappresenta, insieme all’arcobaleno, la pace fatta e ratificata tra Dio e cosmo. L’ulivo riunisce terra e cielo in nome di un nuovo ordine. E uno scrittore dei primi tempi cristiani, Minucio Felice, vede nel raccolto delle olive uno dei segni evidenti «dell’esistenza di una divinità dall’intelligenza superiore, che anima, muove, conserva e governa l’intera natura»[5]: «Quando si succedono le stagioni e i prodotti con una costante varietà, la primavera coi suoi fiori, l’estate con le messi, l’autunno con i frutti maturi e l’inverno con il raccolto tanto necessario delle olive, non testimoniano forse essi dell’esistenza di un loro autore e padre?».

Se nelle Scritture ebraiche il Mashjah, il Messia, l’Unto di Dio, è consacrato con «l’olio della gioia» (Salmo 45), con l’olio sono unti e consacrati i re di Israele, come Saul, Davide e Salomone (1Samuele 10,1; 16,12-13; 1Re 1,39-40), e i sacerdoti come Aronne e i suoi figli (Esodo 29,7; 30,30), la manna che ha nutrito il popolo eletto nel deserto ha il «gusto di pane all’olio» (Numeri 11,8), e con «olio puro di olive schiacciate» è alimentata la menorah, il candelabro che ardeva davanti all’arca dell’alleanza (Esodo 27,20), il Dio-Uomo dei cristiani è il Christòs, “l’Unto”, cosparso di unguento sui piedi, sul capo, e nella tomba (Luca 7,36-50; Marco 14,3-9; 16,1), e «cristi», cioè «immagine di Cristo»[6], sono tutti i battezzati come noi, anche noi re e sacerdoti, e non solo i re di Francia, Inghilterra, gli imperatori di Bisanzio o del Sacro Romano Impero.

Se la lucerna di Dio brilla sul capo di Giobbe come segno della sua protezione e amicizia (Giobbe 29,3), l’olio impiegato nelle lucerne delle vergini sagge della parabola evangelica (Matteo 25,1-13) viene interpretato simbolicamente da Sant’Agostino come «olio interiore», «olio interno della coscienza», il luogo in cui un uomo deve piacere a Dio[7]:

«L’olio è il simbolo di qualcosa di grande, di molto importante. Non è forse la carità? L’Apostolo Paolo dice: ‘Io v’indico una via più sublime’. Quale via più sublime addita? ‘Se sapessi parlare le lingue degli uomini e degli angeli, ma non avessi la carità, sarei come una campana che suona o un tamburo che rimbomba’. Ecco la via più sublime, cioè la carità, che a giusto titolo è simboleggiata dall’olio. L’olio infatti rimane al di sopra di tutti i liquidi. Se si mette dell’acqua in un vaso e vi si versa sopra dell’olio, l’olio rimane alla superficie. Se ci metti olio e vi versi sopra acqua, l’olio rimane a galla. Se lo lasci al suo posto naturale l’olio sta sempre al di sopra; se tu volessi cambiare la sua posizione naturale tornerebbe sempre a galla. ‘La carità non cadrà mai’».

Nella cattedrale medioevale di Albenga, sede della nostra diocesi, una “pigna” di metallo alimentata ad olio posta sul lanternino della cupola veniva accesa in occasione di alcune festività principali[8], proprio come una lampada d’oro assai capiente, riempita d’olio una volta all’anno soltanto, ardeva giorno e notte all’interno del Partenone di Atene davanti alla statua della dea che aveva donato agli uomini l’ulivo[9].

Nelle Scritture ebraiche, se l’ulivo fa la sua prima apparizione nel becco della colomba di Noè, l’olio, simbolo di ricchezza e di abbondanza a tal punto che vi si può tuffare il piede (Deuteronomio 33,24), esordisce all’interno di un’azione liturgica (Genesi 28,10-22).

Il patriarca Giacobbe, costretto a fuggire dalla propria terra a motivo dell’ira di suo fratello Esaù, si dirige verso Harran, dove incontrerà la sua futura moglie, la cugina Rachele. Durante il viaggio, si ferma a pernottare nel santuario di Bet-El e vi si corica usando come cuscino una pietra: in sogno vede una scala che poggia sulla terra e raggiunge il cielo, e gli angeli che salgono e scendono su di essa, segno della presenza divina e delle sue benedizioni, mentre Dio gli parla assicurandogli protezione durante tutti i suoi spostamenti.

Giacobbe per prima cosa riconosce che quel luogo è «la Casa di Dio e la porta dei Cieli», cioè il santuario terreno formato dal recinto sacro e il santuario celeste attraverso il quale il dio scendeva sulla terra, poi «prende la pietra che si era posta come cuscino del suo capo e la rizza come stele sacra e versa olio sulla sua sommità». In ultimo fa voto di trasformare la stele sacra in un tempio coperto e di offrire una libagione di olio, vino e grano se Dio lo assisterà nel viaggio e lo farà ritornare in pace nella propria famiglia.

Come Giacobbe, anche noi verseremo olio su pietra.

Pietra di roccia che significa fedeltà di tutti noi a questa terra «rivestita di ulivi» (così la vide Petrarca[10]), terra di Liguria che oggi qui rappresenta il «Mediterraneo dell’olivo»[11], il centro del nostro mondo, l’Occidente, un’identità plasmata lungo i secoli da Greci e Romani, ebrei e cristiani, nella compagnia degli ulivi e nella cultura dell’olio.

Terra che ama l’olio, sapore, unguento, balsamo, profumo, e ancora fuoco, calore, pace, luce, in una parola: «simbolo di tutto ciò che è sacro e felice»[12], ci apre verso il cielo degli altri e innalza verso il cielo di Dio.

NOTE

[1] Pubblicato sulla rivista fiorentina “La Voce” il 6 luglio 1911, si legge ora in: G. Boine, Il peccato. Plausi e botte. Frantumi. Altri scritti, a cura di D. Puccini, Milano 1983, pp. 395-414.

[2] S. Jacini, I risultati della Inchiesta agraria. Relazione pubblicata negli atti della Giunta per la Inchiesta agraria, Torino 1976, p. 116.

[3] Sofocle, Edipo a Colono 701-706.

[4] M. Novaro, Proda d’erba, in: Murmuri ed echi (1912), Milano 19756.

[5] Minucio Felice, Ottavio 17.

[6] Cirillo e Giovanni di Gerusalemme, Catechesi prebattesimali e mistagogiche. Catechesi mistagogica 3,1.

[7] Agostino, Discorsi 93,4,5; 9,13; 10,17.

[8] Gli Statuti di Albenga del 1288, a cura di J. Costa Restagno, Collana Storico-Archeologica della Liguria Occidentale, XXVII, Bordighera 1995, pp. 161-162 (I 165).

[9] Pausania, Guida della Grecia I 26,6-7.

[10] F. Petrarca, Lettere Familiari XIV 5,23-24.

[11] F. Braudel, Civiltà e imperi del Mediterraneo nell’età di Filippo II, vol. I, Torino 1953, p. 263.

[12] M. Rosenblum, Storia delle olive. Vita e tradizioni del frutto più nobile (1996), Roma 2007, p. 5.

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