La destra italiana e l’elaborazione teorica sui temi dell’agricoltura
Cosa ci attende il futuro? Le svolte decisive sono state affrontate al meglio solo quando si sono incontrati in modo virtuoso politici e tecnici di valore. In un saggio dal titolo Tradizione ecologica, Joime e Righini si soffermano su alcuni aspetti cruciali del nostro Paese. La sfida della sostenibilità spinge ora l’Italia a dotarsi di una strategia nazionale capace di coordinare un percorso di innovazione e crescita comune
Fratelli d’Italia è il principale partito nel governo di destracentro, formatosi dopo le elezioni politiche del 25 settembre scorso. Esprime la presidente del Consiglio e molti ministri, tra cui il titolare del dicastero all’Agricoltura e sovranità alimentare. Ha un Dipartimento Agricoltura, il cui responsabile è il sen. Luca De Carlo. Inoltre, un centro di ricerca indipendente ma culturalmente vicino alla destra, l’Istituto di studi “Stato e Partecipazione” diretto da Francesco Carlesi, ha promosso un percorso di elaborazione culturale e politica sui temi dell’agricoltura e della sostenibilità.
Un prodotto di tale percorso è il volume di Gian Piero Joime e Sandro Righini: Tradizione ecologica. L’agroalimentare italiano e la sfida della sostenibilità (Eclettica Edizioni 2021). Lo studio si divide in due parti. La prima contiene il saggio di Righini “La difficile via dell’agricoltura italiana nell’era della post-globalizzazione”. La seconda parte è stata scritta da Joime e ha per titolo “La via dell’agricoltura italiana nell’era della sostenibilità”. Completano il volume la prefazione del sen. De Carlo e l’introduzione di Carlesi.
Righini traccia sinteticamente il profilo storico dell’agricoltura italiana dall’Unità ad oggi. Inizia con una particolare sottolineatura dei processi di ammodernamento indotti dall’istituzione delle prime scuole agrarie e della rete dei consorzi agrari. Affronta i nodi della politica agricola del fascismo con un approccio analitico in parte discutibile: sorvola, infatti, sull’involuzione delle istituzioni democratiche e sull’affossamento della gracile società civile che con Giolitti si stava ricostruendo anche nelle campagne. Ma riconosce che il regime tradì le aspirazioni dei contadini e dei ceti imprenditoriali dell’agricoltura. Condivisibili sono, invece, i richiami alla bonifica integrale così come viene impostata dal Serpieri e all’opera di modernizzazione svolta da valenti tecnici come Tassinari, Strampelli, Draghetti, Gibertini e Bassi, che lasciarono segni positivi in alcune aree del paese.
L’attuazione della riforma agraria, le agevolazioni fiscali per l’acquisto di terra, gli interventi della Cassa della proprietà contadina e le ricadute positive in termini di produttività indotte dalla rivoluzione verde sono indicati da Righini come elementi fondamentali di una politica agricola che permette all’agricoltura italiana di compiere un balzo formidabile fino ad avvicinarla alle più sviluppate agricolture europee. Ad accompagnare tale processo sono personalità politiche aperte all’apporto delle competenze tecnico-scientifiche, come Antonio Segni, e personalità del mondo accademico prestate alla politica come Giuseppe Medici e Manlio Rossi-Doria. Sono, a questo punto, sottolineate le contraddizioni di tale sviluppo che esplodono già agli inizi degli anni ’60, in pieno boom economico, quando si constatano l’ampliarsi dei divari non solo Nord-Sud ma anche tra montagna e collina, da una parte, e zone costiere dall’altra. La causa è individuata correttamente nella mancanza di un disegno di sviluppo armonico, agricolo e industriale, che coinvolgesse tutte le aree del paese, e collocasse l’intera penisola come centralità dinamica del Mediterraneo.
Acutamente lo studioso accenna anche, in tale contesto, alla tragica vicenda di Enrico Mattei che muore a seguito di un incidente aereo nel pieno di un’azione politico-diplomatica oltre che economica nei paesi rivieraschi del Nord Africa che avrebbe sconvolto gli equilibri geopolitici nel Mediterraneo a favore dell’Italia, facendole assumere un ruolo protagonista. A corollario di questa involuzione nel percorso di sviluppo del paese, Righini tratteggia la storia di Federconsorzi, che con Coldiretti e ministero dell’Agricoltura diventano nel secondo dopoguerra organizzazioni siamesi, strette in un patto che sembra indelebile. Da tale posizione di vantaggio, il presidente di Coldiretti, Paolo Bonomi, controlla il sistema politico interno alla Dc, diventando il finanziatore principale delle sue campagne elettorali e istituendo con essa una sorta di collateralismo alla rovescia. Stipula intese politico-sindacali con la Confagricoltura volte ad egemonizzarla e accordi economici con gli industriali finalizzati alla vendita dei mezzi tecnici per l’agricoltura, riservandosi condizioni di monopolio.
Scrive significativamente lo studioso: “Controllare la Federconsorzi, ancora intrisa del carattere para-statale impressole dal dirigismo fascista, significava avere in mano le sorti economiche del settore primario e dunque garantirsi l’appoggio di una massa elettorale imponente per il proprio partito di riferimento”. Ma ben presto scoppia lo scandalo dei 1.000 miliardi, a seguito di una inchiesta affidata dal Parlamento a Manlio Rossi-Doria, e il colosso federconsortile si avvia verso un lento declino che si conclude nel 1991 con il commissariamento e la sua messa in liquidazione. Gli strascichi giudiziari proseguiranno ancora per oltre un decennio a dimostrazione di quanto intricato fosse l’intreccio di interessi che si era affastellato intorno al principale strumento economico dell’agricoltura italiana.
I paragrafi più densi sono dedicati allo stato attuale del settore primario e della catena agroalimentare con un interessante confronto fra Italia, Francia e Spagna da cui emerge una crisi molto profonda dell’agricoltura europea. Con particolare acume sono individuati gli interessi nazionali che sono in gioco sullo scacchiere mondiale: ad esempio, l’attenzione che gli Usa riservano all’evoluzione della Pac nel tentativo di raffreddare le potenzialità produttive dell’Ue, tentativo che inizia con James Starkey, sottosegretario all’agricoltura sotto la presidenza Carter, e che prosegue fino ai giorni nostri influenzando forse la stessa recente elaborazione della Strategia Farm to Fork, attraverso l’azione di lobby dell’industria alimentare e della grande distribuzione organizzata. In tale quadro sono affrontati i temi del biologico (“opportunità o rischio?”) e delle biotecnologie agrarie (“il grande tabù europeo”) offrendo un quadro davvero completo delle problematiche oggi sul tappeto.
Il filo conduttore dell’intero saggio resta fino alla fine il rapporto tra conoscenza scientifica, tecnologie e sviluppo dell’agricoltura, con una puntualizzazione molto rigorosa di tutti gli ostacoli che il potere politico e le burocrazie in Italia e a Bruxelles hanno frapposto alla ricerca e all’innovazione. Il tutto accompagnato sempre con un confronto non solo con altri paesi europei ma anche con gli Usa, la Cina, la Russia, Israele. E termina con il quesito di leniniana memoria: che fare? Non ci sono risposte precise perché esse ci vengono dalla stessa storia tratteggiata in questa parte del libro: l’agricoltura italiana ha potuto affrontare positivamente le svolte decisive della propria evoluzione quando si sono incontrati in modo virtuoso politici e tecnici di valore. La spinta innovativa è sempre emersa quando si è creata questa condizione.
Passando all’altro saggio che compone il volume, va detto che il lavoro di Joime è un’applicazione concreta dell’intreccio scienza produzione ambiente, guardando al ruolo che l’agricoltura può svolgere nella cosiddetta transizione ecologica. Lo studioso spiega il significato dell’espressione “tradizione ecologica” che è il titolo del libro. Si tratta dell’insieme di culture, saperi e relazioni che identificano una comunità locale agroalimentare sostenibile, individuata come fattore di successo del sistema agroalimentare nazionale.
La “tradizione ecologica” ha le potenzialità per essere riconosciuta e apprezzata nei mercati internazionali. Ma per far sì che questo avvenga la comunità deve utilizzare determinati strumenti: la sostenibilità e le eco-innovazioni. Strumenti utili a rafforzare il posizionamento competitivo globale della comunità a cui si aggiunge la cultura dell’innovazione che rafforza la “tradizione ecologica”. L’ideale di comunità pervade tutto il saggio come sottolinea nell’introduzione al volume Francesco Carlesi, richiamando opportunamente la figura di Adriano Olivetti e la sua “terza via”, i cui cardini erano il progresso scientifico e morale e l’amore per la natura. Joime tratteggia così la buona pratica che un insieme di imprese agricole e agroalimentari locali realizza proponendo una tradizione innovativa. L’aspetto rilevante che emerge in tale descrizione è l’inserimento della comunità in un processo di modernizzazione sistemico che va oltre gli ambiti produttivi aziendali, poggiando su reti energetiche, digitali e infrastrutturali.
La sfida per le nostre imprese e, in generale, per i sistemi locali è – suggerisce lo studioso – quella di riprendere l’azione intrapresa una ventina d’anni fa con la sperimentazione del distretto rurale e dilatare l’approccio alla dimensione ecologica e digitale. Tornano così in evidenza le complesse problematiche della governance che hanno sempre costituito l’elemento critico di tutti i tentativi di creare un’osmosi tra tradizione e innovazione. Ma oggi le tecnologie digitali permettono di superare uno scoglio che studiosi, come Giorgio Ceriani Sebregondi e Giacomo Becattini, hanno incontrato nei loro percorsi: conservare l’intimità delle relazioni anche nelle reti globali.
La prossimità non è più un elemento geografico, ma riguarda il grado di intimità della relazione tra i soggetti coinvolti in un percorso di sviluppo, indipendentemente dalla distanza fisica. Becattini contestava sia lo slogan “piccolo è bello” sia l’altro “grande è bello” e suggeriva un’alternativa: “intimo è bello”. Oggi questa intuizione si può finalmente realizzare come dimostra lo studio di Joime. Il volume si chiude con un auspicio: dotare l’Italia di una strategia nazionale capace di coordinare un percorso di innovazione e crescita comune e di una politica agricola e industriale decisamente diretta a difendere e rafforzare il posizionamento dell’agroalimentare del nostro paese. La lettura di questo libro è utile per comprendere le linee in cui si sta svolgendo una intensa opera di rinnovamento e adeguamento di una tradizione culturale che nell’Italia repubblicana è stata tenuta ai margini del dibattito pubblico.
È interessante notare un impegno particolare a collegarsi a filoni politici e culturali liberaldemocratici e progressisti che sono stati, anch’essi, fortemente combattuti dalle culture politiche dominanti, sia quella marxista, sia quella cattolica. La democrazia italiana trarrà grande giovamento se nasce finalmente una destra democratica, un nuovo pensiero conservatore che possa spronare anche altre culture politiche a rinnovarsi.
In apertura, foto di Olio Officina [da un’opera di strada]
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