Saperi

La donna all’origine della vita

Spetta solo a lei il ruolo esaustivo e biologicamente dominante. È la donna, soggetto ed oggetto primario del dibattito sulla vita, ad essere portatrice di un messaggio così sofisticato per il quale paga un prezzo psicosociale molto alto. Ed è a lei che deve essere posta la massima attenzione nel rispetto del progetto biologico che la contraddistingue da ogni altro fenomeno della natura a noi nota

Massimo Cocchi

La donna all’origine della vita

Quando si pensa alla complessità della vita, del cervello, dell’organizzazione biomolecolare dell’organismo intero, c’è quel senso di impotenza che ci coglie come quando vogliamo ragionare di infinito.

Il fatto che di questo infinito noi conosciamo solamente pochi passi, dovrebbe indurci ad una presa di coscienza dei limiti della realtà dimostrabile e ad una condizione di grande disagio quando tentiamo di risalire all’origine del processo vitale. Tuttavia vi sono momenti in cui diviene impellente il desiderio di riflessione su eventi biologici minimi o massimi per i quali senti che, pur avendo raggiunto limiti di conoscenza importanti, quello che ancora sfugge ti appare chiaro nel disegno di qualche cosa di superiore e di cui non sai se ti sarà dato di cogliere.

La scienza può e deve passare alla filosofia nell’interpretazione di un fenomeno, la vita, con il suo patrimonio di pensieri, di sentimenti, di spiritualità, sul quale pesa il limite della conoscenza e della capacità a comprendere il significato di un messaggio e di un segnale biologico oggi imponderabile.

Il grande, affascinante capitolo della biologia, quello della vita, va affrontato e ragionato considerando dapprima le fondamentali differenze che ci sono fra uomo e donna rispetto al concetto di procreazione, successivamente nella interpretazione biologica ed etica che la differente condizione riproduttiva fra uomo e donna comporta.

La menopausa, con la cessazione della capacità procreativa, rappresenta il passaggio ad una condizione biologica irreversibile densa di problematiche molto complesse, che determinano una nuova condizione psicobiologica, alla ricerca di nuovi ruoli e nuove funzioni.

La sfida, che riporta la donna al significato di campione di un ruolo esaustivo e biologicamente dominante, è quella di ritenere che la centralità biologica le appartenga proprio in quanto portatrice del messaggio di fine della possibilità procreativa.

Come se ad uno solo fra i due, la donna, fosse stato riconosciuto il compito di trasmettere il messaggio che la capacità procreativa ha un limite, che quindi c’è un limite fisiologico al progetto vitale, mentre all’altro, cioè l’uomo, fosse richiesta la capacità di dotarsi del necessario patrimonio di conoscenza per comprendere le regole generali della natura.

La violazione artificiale od artificiosa di questo limite è oggetto di aspro dibattito bioetico e sociale, così come lo è il momento in cui l’embrione si identifica con il concetto di vita.Due facce di un problema che non possono essere disgiunte e che convivono l’una nell’altra in un concetto di assoluto della vita, nelle regole che riconoscono, in ordine con Monod, l’essere vivente dotato di un progetto, rappresentato nelle sue strutture, realizzato mediante prestazioni con la capacità di riprodurre e ritrasmettere l’informazione corrispondente alla sua struttura, integralmente, da una generazione all’altra nelle regole dell’invarianza.

È proprio in questo concetto che si evince l’intimità biologica del fenomeno vitale nella continuità di legame fra l’essere riproduttore e l’essere riprodotto.

La violazione artificiale od artificiosa di questo limite è oggetto di aspro dibattito bioetico e sociale, laddove la disgiunzione, in termini fisiologici, degli eventi che conducono alla procreazione, in realtà rompe non solo il legame di intimità biologica, bensì modifica anche quel patrimonio emozionale che, pur sempre, è espressione biologica, togliendo l’evento della fecondazione dalla casualità per riportarlo ad un atto tecnologicamente predeterminato.

Non è possibile ritenere che la cessazione della fertilità della donna possa essere riconducibile ad altro se non al progetto genetico ed al suo programma, non certamente a situazioni sociodemografiche che sicuramente non sono memorizzate nel progetto bensì sono legate alla casualità dei fenomeni condizionati dall’ambiente.

Se questo limite alla fertilità è inscritto nel progetto genetico, allora l’interpretazione dell’atto di cessazione procreativa è più coerente con l’esistenza di un legame con gli aspetti etici che al progetto vitale sono intimamente legati.

Nel progetto genetico vi deve necessariamente essere la trascrizione di un’informazione biologica, dello stesso valore del progetto vitale, cioè quella etica. Essa, perpetuantesi come ogni altra informazione inscritta nel progetto genetico si pone quale strumento di controllo dell’uso improprio della ratio e del libero arbitrio.

D’altra parte, se non l’etica, cosa può essere ritenuto il controllore a ritroso delle azioni umane? Il problema è che, mentre nel progetto genetico esiste l’informazione dell’evento biologico immutabile ma adattabile all’ambiente nel soddisfacimento dei bisogni alcune volte vitali per la specie e dove si garantisce comunque la costanza e la similitudine dei processi del divenire, l’imprinting bioetico potrebbe essere adattabile e condizionabile dal libero arbitrio e dagli impulsi che ne derivano, ed in questo caso con un’apertura a comportamenti, che differentemente dall’ambiente sui caratteri genetici, possono risultare incompatibili con lo stesso ambiente e con l’equilibrio della natura.

In definitiva, se il libero arbitrio rappresenta un condizionamento irragionevole al principio etico, possono risultarne interpretazioni distorte delle leggi biologiche e dei loro messaggi. Ciò può condurre a modalità di intervento che violano legge e messaggio determinando nuove condizioni biologiche oltre il rispetto delle regole.

È proprio in questo momento che la Scienza normalmente usa a considerare un fenomeno come dimostrato quando esistono i principi fondamentali che debbono essere rispettati secondo le leggi sperimentali cioè fattibilità, metodo e ripetibilità del risultato, viene meno al patto d’onore quando si accinge non a studiare i fenomeni vitali, quindi ad osservare per migliorare, bensì si accinge a programmare la vita stessa.

In questo senso non sarà mai possibile produrre un numero sufficiente di casi utili a dimostrare il buon esito della ricerca e soprattutto a valutarne le conseguenze nelle generazioni successive. Certamente viene facile l’obiezione di dare regole ad un certo tipo di intervento e fissarne le opportunità di fruizione, in questo caso si esce dall’interesse generale per entrare in una particolarizzazione del fenomeno di cui non si intravede nessuna utilità.

Se ciò fosse concesso dovremmo ammettere che l’uomo può essere in assoluto il manipolatore della più importante legge biologica, quella della vita.Una legge che sembra volere dire all’uomo, attraverso un esempio di potente significato, quello cioè del limite procreativo della donna, che non è consentito di scippare la natura.

Si ponga l’uomo, anche nei confronti dell’origine della vita, la stessa consapevolezza del limite che ha rispetto alla possibilità di vincere la morte.Uno dei punti più aspri del dibattito bioetico sulla vita riguarda l’embrione ed il momento in cui l’embrione si identifica con il concetto di vita.

È su questo punto che si accendono le divergenze ideologiche, come se la scienza potesse essere ideologia, in una grande confusione di argomentazioni.Fino a che l’aborto era vietato certamente vi era una più decisa linea di demarcazione sul concetto di vita e di rispetto della vita. Il crollo di questa barriera, motivato da esigenze di etica sociale, ha liberalizzato e scatenato il desiderio di onnipotenza sperimentale sul concetto di procreazione.

In questo contesto anche la clonazione trova una sua ragione di essere.Quale è mai la differenza fra fecondare un ovulo con uno spermatozoo a caso o manipolarne il patrimonio genetico? Certamente viene meno, ed in modo lacerante, il concetto del legame di sangue fra il nascituro ed i genitori oltre che quella complessità di interpretazioni psicoanalitiche che nel rapporto fra madre e figlio, padre e figlio ha condizionato il patrimonio dei sentimenti, delle passioni e dei comportamenti per milioni di anni, in funzione, anche, di quel noto fenomeno che è l’influenza genetica sul comportamento; in ogni caso si produce un individuo in crisi di identità.

Oggi pur in regime di liberalizzazione dell’aborto, anche quando si può e si deve trovare giustificazione all’aborto cioè in caso di indicazione terapeutica, si utilizza ogni moderna tecnologia disponibile per fare sopravvivere organismi che hanno la certezza scientifica della non sopravvivenza, in un rigurgito di ipocrisia etica schermo a quotidiane evasioni bioetiche, sollevando situazioni emozionali che sono un inganno alla logica, al buon senso e alla speranza di genitori inconsapevoli e di una società alla continua ricerca di emozioni forti.

Credo che sia reale l’esigenza di una revisione e di una rilettura critica delle riflessioni all’interno dei comitati etici e che si ponga anche la necessità di un nuovo dibattito sul problema della vita con maggiore attenzione alle implicazioni scientifiche piuttosto che a quelle ideologiche.

Quello di dare la vita ad ogni costo è, fra i capitoli della scienza biomedica, certamente quello meno importante rispetto alla vocazione di un’etica biomedica che è primariamente quella di alleviare le sofferenze, prevenire le malattie, individuare strumenti che garantiscano il mantenimento della dignità.

Manipolare la vita con l’ingegneria genetica fino alla clonazione, non darà mai la certezza della risposta definitiva né al desiderio di eternità, né alla eliminazione totale delle malattie, né alla creazione di geni.

È certamente più impellente utilizzare la tecnica dell’ingegneria genetica per correggere, nel patrimonio genetico, quegli errori che, lungi da un concetto di predestinazione, sono solo errori e possono compromettere la buona qualità della vita fino all’esaurimento del suo fisiologico percorso biologico, nella garanzia di un preciso progetto di identità e di dignità.

Non è accettabile la creazione della vita con artifici di ingegneria biologica; se vogliamo, il problema non dovrebbe neppure scomodare la religione ma anche rimanendo squisitamente scientifico vi è consapevolezza che il concetto di vita non può essere discusso nei termini di una quantificazione da microscopio o di dimensioni dell’aggregato cellulare.

Quando sono giunti a congiunzione gli elementi che avviano il percorso vitale, nella risultante di questo evento cè il potenziale rigorosamente programmato per definire la vita globale nella sua manifestazione più organizzata che è quella dell’organismo compiuto e pensante, adattato all’ambiente e controllato dal principio etico.

Se riportiamo l’attenzione al concetto di limite della capacità procreativa della donna, il problema che ci dobbiamo porre è se essa sia o no spia biologica di un fenomeno proprio del genere umano e delle sue regole quindi violabile oppure di un fenomeno intimo alla natura quindi inviolabile a naturale conferma del valore superiore e determinante del processo di fusione dei gameti.

Ecco, la Scienza passa alla Filosofia nell’interpretazione di un fenomeno, la vita, sul quale pesa il limite della conoscenza e della capacità a comprendere il significato di un messaggio e di un segnale biologico superiore. Laddove, infatti, finisce la capacità umana della comprensione di un fenomeno e quindi non vi è possibilità di dare risposte strumentalmente mediate, allora si apre il dibattito filosofico del quale bisogna riconoscere l’umano limite del condizionamento.

Personalmente ritengo che nel progetto genetico sia inscritta non solo la fine del progetto vitale ma anche il concetto del perché biologico di fine del progetto vitale e che esso si riconosca nel fenomeno di cessazione procreativa che appartiene solo alla donna.

Alla donna soggetto ed oggetto primario del dibattito sulla vita e portatrice di un messaggio così sofisticato, per il quale paga un prezzo psicosociale molto alto, deve essere posta la massima attenzione nel rispetto del progetto biologico che la contraddistingue da ogni altro fenomeno della natura a noi nota.

Per gentile concessione dell’Autore, questo testo riprende in toto il saggio “La centralità biologica della donna e il progetto vitale”, apparso sul numero 1, marzo 2004, della Rivista Italiana di Ostetricia e Ginecologia, Vol. 1 – pp. 3 e 4.

In apertura, particolare di una foto di Gianfranco Maggio ( Studio Pace 10, “Aspettando Noè”). La foto integrale è stata pubblicata sul numero 12 della rivista OOF International Magazine, edita da Olio Officina

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