La durezza contadina
Siamo abituati a considerare la civiltà del mondo agricolo con uno sguardo perennemente viziato da un sentimento bucolico che non è mai coinciso con la realtà. Lo scrittore Andrea Di Consoli racconta in poche righe una vicenda affettiva personale, rendendola pubblica, e consentendo con ciò di notare la sostanziale differenza tra due modi distinti di vivere: da una parte, chi esibisce con fierezza la forza; dall'altra, l'apparente fragilità figlia di una civiltà minore

Mio padre soffre di una grave malattia al pancreas – sin dal 1978, in Svizzera. Ogni mese circa ha per vari giorni crisi violente: febbre, tremori, dolori lancinanti, collassi.
Ci siamo abituati, in famiglia – noi figli siamo cresciuti con la costante presenza di questa malattia.
Non siamo soliti farci carezze, nella mia famiglia contadina – è stato sempre così, niente di nuovo per noi.
Oggi però, vedendo mio padre tremante nel letto, gli ho accarezzato la testa – era come assente nel suo dolore. Eppure ha trovato la forza di dirmi con gli occhi chiusi e con voce esile: “Nun me tuccà ca me dola tutto” (“Non mi toccare che mi fa tutto male”).
Ho partecipato a tanti funerali, nelle mie contrade, e solo ai funerali ho visto baciare e accarezzare persone morte che in vita si erano sottratte al contatto fisico con una durezza che rasentava l’insensatezza.
Sin da ragazzo la mia rivoluzione è stata quella di combattere questa durezza contadina con il calore.
Ho continuato ad accarezzarlo sfidando una grande civiltà cadente con la mia civiltà minore, sentimentale, e dunque fragile, decadente.
Lui è sì più forte, ma io non ho torto.
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