Saperi

La fragilità, cos’è la fragilità?

È misurabile? Non misurabile? È forse il punto di rottura dell’animale uomo nella relazione fisica del “sé con il resto”? Ed è corretto ricondurre l’appellativo “fragile” - estrapolato dal concetto di materia - all’anima? Nel gesto profondamente umano di portare il pane alla bocca, alla nostra e all’altrui, per arginare una penuria, si radica la fragilità del nostro vivere malcerto. Ora, però, quale misura, quale calcolo, quale algoritmo può dire di questa penuria?

Massimo Cocchi

La fragilità, cos’è la fragilità?

Massimo Cocchi. Sia il lessico italiano, sia quello anglosassone riferiscono il significato di fragilità, di fatto, a “qualche cosa che si rompe facilmente”, con qualche variabile terminologica di riferimento alla consistenza di un evento, di un sentimento, attraverso i concetti di instabilità, inconsistenza, transitorietà, fugacità. Ovviamente, non entreremo nel merito esplicativo di questi termini, quotidianamente abusati, quando ci si vuole riferire alla caducità della vita e delle “cose”.

Ho anche letto, per caso, uno stralcio riferito a uno psichiatra-filosofo che, sugli aspetti della fragilità della vita, recita: “… al fascino stregato del pregiudizio che nasconde in sé un segreto disprezzo per la debolezza che si manifesta nella vita incrinata dalla malattia, dagli handicap e dalla condizione anziana”.

Sembra che non si possa uscire dal riferimento della condizione umana, evocato dalla stessa parola “fragile”, come a qualcosa di materiale che è facile a rompersi, comunque che manifesta debolezza.

In pratica, nel contenuto della parola “fragile” è implicito un giudizio.

La fragilità, certamente, è una caratteristica generale, costante, percepibile, il punto di rotturadell’animale uomo nella relazione fisica del “sé con il resto”. Qui mi sovvengono dubbi e riflessioni, ad esempio, quando penso all’animale non umano e al creato inteso come organizzazione delle componenti non carnalidella natura, cioè il cosmo.

C’è fragilità nell’animale non umano e nel cosmo?

Questa riflessione deriva dal fatto che il termine “fragile” si associa, in me, a quelle entità, come anima o coscienza, che sfuggono alla nostra capacità di collocarle in un “loco” anatomico del cervello.

Se, pertanto, penso che il termine fragile, al di là del suo riferimento a cose materiali, sia riconducibile anche all’anima e alla coscienza, ecco che “fragile” diventa un parametro di qualche cosa che non riesco a misurare, per cui “fragile” è non misurabile.

Potrebbe la fragilità rappresentare la caratteristica di un “qualia”?

Potrebbe essere quel qualcosa che, appunto, incrina l’esperienza cosciente?

Se così fosse, allora, dovremmo ripensare all’animale non umano nel suo rapporto con il creato – non tanto al fatto che possegga una coscienza, cosa peraltro già ampiamente dibattuta, ma come entità non umana che esprime in un differente linguaggio la sua fragilità.

Dal documento di Trapani [Massimo Cocchi, G. Bernroider, Mark Rasenick, Lucio Tonello, Fabio Gabrielli, and Jack A. Tuszynski. Document of Trapani on animal consciousness and quantum brain function: A hypothesis.J Integr Neurosci. 2017; 16 (Suppl 1): S99–S103)]:

… “Alla luce delle differenze delle capacità cognitive e della complessità della coscienza tra uomo e animale, il problema è se il concetto di funzione cerebrale quantistica abbia due interpretazioni diverse (uomo e animale) o se la funzione cerebrale quantistica sia una caratteristica comune a entrambi e per quest’ultimo, a quale livello di coscienza manifesta sé stesso?” …

D’altra parte, dalla Dichiarazione di Cambridge sulla coscienza (7 luglio 2012) sappiamo che:

“L’assenza di una neocorteccia non sembra impedire a un organismo di sperimentare stati affettivi. L’evidenza convergente indica che gli animali non umani hanno i substrati neuroanatomici, neurochimici e neurofisiologici degli stati coscienti insieme alla capacità di esibire comportamenti intenzionali. Di conseguenza, il peso dell’evidenza indica che gli esseri umani non sono unici nel possedere i substrati neurologici che generano coscienza. Anche gli animali non umani, compresi tutti i mammiferi e gli uccelli, e molte altre creature, compresi i polpi, possiedono questi substrati neurologici” …

…”Crediamo che la dichiarazione di cui sopra sia un vero punto di svolta nell’interpretazione del comportamento animale dal momento che ne suggerisce una relazione precisa con la coscienza” …

[(Massimo Cocchi, G. Bernroider, Mark Rasenick, Lucio Tonello, Fabio Gabrielli, and Jack A. Tuszynski. Document of Trapani on animal consciousness and quantum brain function: A hypothesis.J Integr Neurosci. 2017; 16 (Suppl 1): S99–S103)].

Possiamo, altresì, riconoscere una caratteristica di fragilità al “cosmo” o non dobbiamo, piuttosto, pensare che le apparenti manifestazioni di fragilità siano relate alla necessità di mantenere l’ordine?

A me, “di persona personalmente”, come dice l’Appuntato Catarella nel Commissario Montalbano, la fragilità di quanto abita nella “carne” appare come una condizione che trascende l’attribuzione descrittiva di una caratteristica materiale, misurabile; di contro, sembra insinuarsi in una dimensione che ancora non ci è dato di cogliere.

Mi chiedo se sia corretto ricondurre l’appellativo “fragile”, estrapolato dal concetto di materia, all’anima, alla coscienza dell’animale umano e non umano.

La mia mancanza di cultura filosofica mi impedisce di fornire risposte autonome, ed è per questo motivo che ho il privilegio di potere usufruire dell’aiuto di un grande del pensiero, l’amico Fabio Gabrielli, al quale giro le domande e mi accingo a leggerlo con rispetto e attenzione.

Fabio Gabrielli. L’esperienza umana, su cui mi concentrerò, è punteggiata di parole essenziali, la cui natura è di rendersi ingovernabili, inaggirabili. Nel momento in cui eserciti una presa concettuale su di esse, hai l’immediata consapevolezza che non si consegnano mai al linguaggio in modo compiuto: c’è sempre un resto, un’eccedenza che la grammatica umana non può mai esaurire, una riserva di senso incolmabile.

Fragilità è una di queste parole essenziali, per cui confesso subito la mia arrendevolezza nel porla a tema del nostro dialogo.

Proverò, al limite, a ritagliarne, in povertà di carne, qualche fioca voce, qualche timida forma di vita.

Che l’animale umano sia fragile, cioè abitato da un vuoto incolmabile, una mancanza strutturale, una lacuna d’essere, è di accecante evidenza, anche, e soprattutto, dove la cosa viene negata. Il problema, semmai, è che ne facciamo di questa mancanza, come possiamo starne all’altezza, e soprattutto come si annuncia questa interruzione ontologica, con quali figure, gesti, posture la fragilità abita gli umani.

Essa rinvia sempre a una sporgenza, un’inclinazione, un flettersi in avanti della postura umana verso un’alterità che non si alimenta degli elementi eterei di un cielo lontano e nascosto, al limite luogo di un’attesa, bensì dei frutti sempre provvisori della terra, luogo incarnato di vita, nel segno sempre urgente della sincerità della fame e della sete.

Nel gesto profondamente umano di portare il pane alla bocca, alla nostra e all’altrui, per arginare una penuria, si radica la fragilità del nostro vivere malcerto.

Ora, quale misura, quale calcolo, quale algoritmo può dire di questa penuria?

Quale esattissima scienza può perimetrare, circoscrivere, calcolare l’estrema nudità della nostra pelle, il tremolio della nostra voce, la domanda e l’offerta di ospitalità, il solo dono possibile, la nostra fragilità?

La fragilità, allora, non riguarda la persona disincarnata, neppure l’individuo, termine che rinvia a una nitida geografia, con confini stabili e mappature certe, bensì alla inindividuabile singolarità sempre spalancata sull’ineffabile che, a differenza dell’indicibile, ha una tale sovrabbondanza di significati che la parola, per quanto compia torsioni su sé stessa, non può mai colmare.

Quello che del volto fragile – della sua singolarità esposta e vulnerabile – possiamo sperimentare in modo meno approssimativo è la nudità della pelle, la sua richiesta di accoglienza, la sua dipendenza dalla nostra sporgenza, dalla nostra immisurabile pietas; una pelle che non è mai essenza, sostanza, ipostasi metafisica, profondità contrapposta alla superficie, ma relazione: pelle su pelle, superficie su superficie, contatto alla mano, della mano, che sfiora l’intoccabile, nomina nell’ombra l’ineffabile, dà ristoro alla vedova , all’orfano, allo straniero.

In questo senso, la carezza è figura per eccellenza della fragilità, un approssimarsi sempre incompiuto, un gesto sovversivo che abbatte le logiche padronali del soggetto autocentrato nella sua presunta trasparenza, un contatto che non sperimenta misura, oggettivazione, chiarezza di sguardo, ma accoglimento di una mancanza, di una primigenia frattura d’essere, che, sospesa tra il godimento e la morte, si sottrae al nostro possesso, al nostro occhio che osserva o redime, pianifica o fissa il dettaglio, per consegnarsi alla nostra stessa pelle, alla nostra comune vulnerabilità, senza dire e pensare nulla, in una condivisione che si vorrebbe senza fine.

Massimo Cocchi. Ecco, Fabio, hai dato misura alla non misurabilità della fragilità, una misura immisurabile nella fragile vocazione della carne umana.

In apertura, foto di Olio Officina con particolare di due opere tratte da una mostra al Mu.Sa di Salò, in occasione dell’esposizione “Da Giotto a De Chirico” – I Tesori nascosti, che si svolse dal 13 aprile fino al 6 novembre 2016, a cura di Vittorio Sgarbi

Per commentare gli articoli è necessario essere registrati
Se sei un utente registrato puoi accedere al tuo account cliccando qui
oppure puoi creare un nuovo account cliccando qui

Commenta la notizia