Saperi

La passione è amore. La passione non è solo amore

Ovvero, il sottile confine interpretativo tra due forme mentis. Quando si discute dei problemi dell’anima e della mente diviene sempre complesso e complicato trovare il filo d’Arianna, la strada che conduce a una sola verità. La passione sembra consistere in intrecci sinaptici che faticano ad aprire una finestra di chiarezza sulla lucidità delle nostre azioni

Clara Benfante

La passione è amore. La passione non è solo amore

Dopo la “Magia dello sguardo e della parola” e la “Paura”, abbiamo discusso sul terzo elemento della trilogia che avevamo in mente e, inevitabilmente, siamo giunti al comune intento di esercitare la nostra ideazione sul concetto di “Passione”.

Sollecito Clara, appunto, a ragionare sulla passione e, immediatamente, Clara mi risponde: la passione è amore.

Ribadisco: la passione non è solo amore.

Clara: ma se fai una cosa che ti piace ci metti amore.

Questo ingenuo e spontaneo dialogo porta in sé il vero problema della differenza fra passione e amore, si comprendono una nell’altro oppure divergono in due possibili e slegate interpretazioni?

Certamente dobbiamo considerare che passione e amore non sono sentimenti imperituri ma legati alla fragilità dell’essere animale umano.

Anch’essi, quindi, rappresentano e presentano elementi di fragilità.

Passione e amore, forse, non sempre, appartengono solo all’animale umano, anche l’animale non umano può avere passione e amore, la differenza, forse, sta nel linguaggio.

Questa visione coglie, evidentemente, le sfumature che, pur nell’affinità mentale che corre fra Maestro e Allievo, rivelano il sottile confine interpretativo delle due forme mentis.

Prima di procedere, corre l’obbligo di separare le passioni dell’istinto umano dalla Passione per definizione, quella divina di Gesù, sofferenza e agonia.

Pur essendo Gesù uomo, quindi non scevro da manifestazioni proprie dell’animale uomo, ma, ricordiamolo, creatura divina, anch’egli manifestò sentimenti e sensazioni di tipo umano, come ben descritto in alcuni passi di un breve saggio “La Freccia dell’Arciere”.

“…Non c’è dubbio, come la Bibbia attesta, sulla natura umana di Cristo e, quindi, anche sul fatto che le sue espressioni di coscienza debbano passare attraverso il percorso molecolare che caratterizza tutti gli esseri viventi. Noi non siamo certamente in grado di verificare o di dire se il Cristo-Uomo fosse di natura normale, unipolare o bipolare, siamo comunque in grado di fare un’analisi abbastanza giustificabile, tenendo conto di una possibile direzione del nostro pensiero circa la plausibilità che, durante le ore del Getsemani, la sua natura fosse in una condizione prevalentemente bipolare (la più comune degli esseri umani), senza sintomi psicotici, e che potessero coesistere in lui i pensieri che portano al desiderio di porre fine alla sua vita…

…Egli si esprime attraverso un linguaggio specifico che sembra attestare il rifiuto di accettare ciò che potrebbe salvarlo dal destino di morte, che gli è riservato per il progetto “divino” della salvezza dell’umanità. Cristo, come uomo, non poteva non pensare alla morte senza coinvolgere aspetti particolari dello stato di coscienza…

…Con riferimento alle ore che hanno preceduto la morte, sulla scorta delle testimonianze riportate nelle Scritture, propendiamo, alla luce del nostro percorso molecolare relativo ai disturbi dell’umore, per una forma depressiva che alterna forme ibride di mania, del Cristo-Uomo, senza che questo, tuttavia, possa intaccare il discorso di fede sulla natura trascendente del Cristo-Dio…

…Nella misura in cui Cristo è stato uomo, lo è stato integralmente, in altre parole come sintesi di biologia e cultura, natura e irripetibilità di vissuti, radicamento biochimico ed esistenza. Dunque, Cristo ha sperimentato su di sé la radicalità dell’esperienza umana, tra cui l’angoscia, fino al suo tracimare nella depressione. Un punto, questo, colto con straordinario nitore da Kierkegaard: «Se l’uomo fosse un animale o un angelo, non potrebbe angosciarsi. Poiché è una sintesi, egli può angosciarsi, e più profonda è l’angoscia più grande è l’uomo; non l’angoscia, come gli uomini la intendono di solito, cioè l’angoscia che riguarda l’esteriore, ciò che sta fuori dell’uomo, ma l’angoscia che egli stesso produce…

Soltanto in questo senso bisogna intendere il racconto del Vangelo quando si dice che Cristo fu angosciato fino alla morte (Matteo 26, 38),come pure quando Egli dice a Giuda: “Quello che fai, fallo presto” (Giovanni 13, 27). Nemmeno la terribile espressione di Cristo che mise in angoscia lo stesso Lutero quando predicava su di essa: “Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?” (Matteo 27, 46), nemmeno queste parole esprimono così fortemente il patimento; infatti coll’ultima si indica uno stato in cui Cristo si trova, la prima invece indica il rapporto con uno stato che non è»…

…La spaventosa angoscia di Cristo nel Getsemani, tanto che la morte sembra configurarsi come liberazione, viene ulteriormente amplificata dalla solitudine del morente, dall’interruzione di ogni comunicazione umana: come ricorda Barth, Gesù è senza compagni e aiuto. In lui, per usare i termini di Marcel, viene meno sia l’espérance, sia l’espoir: la speranza come orizzonte assoluto, unificante, escatologico, e le singole, concrete, quotidiane speranze. La disperazione di Cristo, che tracima nella depressione, esprime a tutto tondo l’irrompere dello straordinario nell’ordinario, della malattia nel quotidiano, nel tempo ordinario: ecco perché cessa la comunicazione con i discepoli, ormai appartengono a mondi diversi. Il dolore, o meglio la sofferenza come articolazione di senso sul dolore (sulla sofferenza come radicale passività, cfr. Lévinas), ci individualizza, ci fa sentire, nella radicale separatezza dalla casa comune dei sani, nulle possibilità, pietrificate solitudini: «Qualcosa di terribile, di nuovo, e di significativo come null’altro nella sua vita, stava avvenendo dentro di lui. E lui solo ne era a conoscenza, tutti quelli che lo circondavano non capivano o non volevano capirlo, e pensavano che tutto, al mondo, andasse come prima»…

…Nella sofferenza del Cristo angosciato, triste fino alla morte, del Getsemani sono drammaticamente presenti questi trascendentali, espressivi di dinamiche biologiche e di vissuti: i vissuti del Cristo-Uomo non sono essenze disincarnate, bensì sintesi profondamente umana con acidi grassi, viscosità di membrana, tubulina… E gli acidi grassi del Cristo-Uomo coabitano, senza contrasto, con il mistero del Cristo-Dio.

Da questo complesso intreccio di biologia, vissuti e mistero, che nel Getsemani tocca i suoi abissi antro-teo-logici, ci pare emerga, quanto segue: nella vicenda storica di Cristo, che noi, lo ripetiamo, ammettiamo come autentica, ma che potrebbe essere oggetto di confronto, sia pure solo sul piano dialettico, anche per il non credente, si ricapitolano i due marcatori biologico-culturali della condizione umana, l’empatia/solidarietà e il sentimento della tragicità dell’esistere…”

[Da: La freccia dell’Arciere – Ipotesi biologiche e letture antropologico – esistenziali della vita. Massimo Cocchi, Fabio Gabrielli, Lucio Tonello, Plumelia edizioni, 2013].

Ecco, noi animali nella loro radicata essenza umana, possiamo, come Gesù, provare angoscia, senza, tuttavia eleggerla al significato della nobiltà della passione cristiana.

Non c’è dubbio che passione e amore possano confondersi nella vita materiale e riversarsi nella piacevolezza del fare, tuttavia, ne dobbiamo interpretare anche il senso carnale, laddove, cioè, non si tratta di “fare” ma si coinvolge quell’offuscamento della mente che può scivolare nella perdita di razionalità e creare visioni immaginifiche del piacere o del dolore.

Quella passione, laddove l’impulso dei sensi determina le reazioni, anche le peggiori, come la sofferenza morale e carnale di chi subisce la passione.

La passione, solitamente, è un sentire costretto nel tempo, non ha futuro consolidato perché straripa e spazza via la ragione, perché la passione contiene la sua stessa fine e deve essere limitata temporalmente perché non travolga anche il destino di altri.

È a questo punto che mi riesce difficile comprendere se passione e amore siano coincidenti e sta qui quella sottile differenza interpretativa sulla quale ci siamo confrontati, io con esperienze a lungo vissute e Clara con l’ingenua, immediata innocenza della gioventù.

Quando si discute dei problemi dell’anima e della mente diviene sempre complesso e complicato trovare il filo d’Arianna, la strada che conduce a una sola verità.

La passione mi sembra che consista in intrecci sinaptici che faticano ad aprire una finestra di chiarezza sulla lucidità delle nostre azioni.

Questo dialogo, di cui lascio la continuazione a Clara, mi richiama in modo forte Il vecchio e il mare. L’uomo di matura esperienza che affronta il pesce più grande della vita, la passione, e che rientra a fatica dalla tempesta della sua esistenza con i resti che la passione gli ha lasciato, divorandolo a poco a poco, la lisca, cioè lo scheletro dei suoi sentimenti.

Se la passione è carne, ecco che può essere divorata, se è amore lascia spazio ad essere coltivata.

Perché la passione si fa coincidere etimologicamente con la sofferenza? perché si domanda spesso, quando si conosce una persona, “qual è la tua più grande passione”?

Passione è tutto ciò che comporta fatica, sofferenza ma anche gioia e felicità e quindi Amore.

Mi è sempre piaciuto “giocare” con il significato dei termini, capire la loro origine, comprendere il particolare per giungere al generale e il termine Amore è il protagonista di questo ragionamento induttivo.

A-MORS, assenza di morte, è il sentimento per antonomasia, la malattia più comune al mondo, quella che si presenta con vari sintomi incurabili che manifestano vari effetti collaterali, tra cui la perdita della mente, della ragione.

Ma se l’amore è l’assenza della morte e quindi del buio, perché lo si fa coincidere con la passione?

La risposta è semplice: l’uomo è apparentemente una creatura perfetta, così perfetta da essere, ancora oggi, incompresa in toto.

In realtà, l’essere umano è una creatura che oscilla sullo stesso ritmo del pendolo di Schopenhauer, fra noia e dolore, dimezzato proprio come il Visconte di Calvino.

La figura del visconte di Calvino riesce a spiegare, con la semplicità dei bambini, la composizione, o meglio, la scomposizione dell’essere umano: dimezzato tra il bene e il male, tra il bianco e il nero.

O Pamela, questo è bene dell’essere dimezzato: il capire d’ogni persona e cosa al mondo la pena che ognuno ha per la propria incompletezza. Io ero intero e non capivo, e mi muovevo sordo e incomunicabile tra i dolori e le ferite seminati dovunque, là dove meno da intero uno osa credere. Non io solo, Pamela, sono un essere spaccato e divelto, ma tu pure e tutti. Ecco ora io ho una fraternità che prima, da intero, non conoscevo: quella con tutte le mutilazioni e le mancanze del mondo.”

[Il visconte dimezzato, Italo Calvino]

Ognuno di noi, proprio come il visconte, è stato colpito in pieno da una palla di cannone così da essere diviso, interiormente, in due parti che combaciano perfettamente tra loro: Dr. Jackill e Mr. Hide.

E quindi? non bisogna dimenticare il punto di inizio: l’amore e non il conflitto interiore dei sentimenti!

In realtà l’amore è anche questo, un “odi et amo” di cui non si conosce l’origine ma si prova semplicemente questa sensazione e … si soffre e quindi Passione.

Si potrebbe dire che l’essere umano, oltre che imperfetto, è anche incosciente! È come se fosse perennemente in uno stato di fanciullezza, come se fosse un eterno bambino che ha bisogno di sperimentare il dolore della fiamma del fuoco, per capire che il mondo è un posto pericoloso.

Però, in materia d’amore, l’uomo reagisce diversamente: sa che “chi mette il piè su l’amorosa pania”deve necessariamente “ritrarlo” perché “non è in somma amor, se non insania”.

Eppure, continuamente, come un fesso, cade sempre sulla trappola amorosa che, come una droga, oscilla tra momenti di estasi pura e momenti di dolore per l’astinenza, con brevi momenti di consapevolezza.

Si può parlare di masochismo? si può parlare di incoscienza? si parla di impulsi, quelli che rientrano nel Super-io, quelli che la ragione, che controlla sempre tutto, non può tenere a bada! ma perché la ragione, come Pilato, se ne lava le mani? perché non cerca di frenare queste onde magnetiche che ci spingono verso l’ignoto? Non si sa! Però ci avverte, tenta di metterci al riparo dalle “pene d’amore”, quelle che nessuna medicina può curare e che, molte volte, lasciano un’impronta indelebile: l’insicurezza.

Non possiamo trovare tutte le risposte alle nostre domande, “arcano è tutto fuor che il nostro dolor”e, sicuramente, vi è un motivo per l’esistenza di questi impulsi contrastanti.

Però l’amore, assenza di morte, e la passione, sofferenza, hanno un punto di incontro che li fa combaciare: qualsiasi felicità è anticipata da tantissimi sacrifici, però, se non vi fossero i sacrifici che sapore avrebbe la felicità?

Se si crede profondamente in qualcosa, allora, c’è amore e, se c’è amore, c’è anche passione.

In apertura una foto di Olio Officina. Murales a New York, 2019

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