La scomparsa di Giovanni Russo
È stato l'amico dei contadini meridionali e aveva condannato la proliferazione "degli enti burocratici parassitari", arrivando a scrivere che i centri urbani del Sud erano cresciuti alla rinfusa "come funghi velenosi". Voleva a ogni costo privilegiare l’agricoltura di qualità, il turismo e la piccola e media industria legata alle risorse locali, maa a cavallo degli anni Cinquanta e Sessanta erano in pochi a pensarla come lui
Ho voluto bene a Giovanni da quando lessi, nei primi anni Settanta, la sua opera “Baroni e contadini”, una raccolta di reportage realizzati nelle campagne meridionali e pubblicati sul “Mondo”. Un libro fondamentale nel percorso di formazione di noi giovani dirigenti del movimento contadino del Mezzogiorno, accanto ad altre opere come “Contadini del Sud” di Rocco Scotellaro e “Le parrocchie di Regalpetra” di Leonardo Sciascia.
Tra le vicende raccontate da Giovanni, una in particolare mi stava a cuore: “L’avvocato dei contadini”. Era la storia di Gennaro Laus, figura storica del Pci e dell’Alleanza contadini, che nelle campagne potentine era conosciuto da tutti come “l’avvocato” ed a cui ricorrevano migliaia di coltivatori affittuari per farsi assistere nell’applicazione delle tabelle dell’equo canone dei fondi rustici.
Egli aveva formato nei principali comuni lucani una rete di capipopolo capaci di assicurare ogni forma di assistenza alle famiglie agricole. Se nei rapporti coi proprietari il contadino aveva torto, i collaboratori di Laus suggerivano un accordo e cercavano un compromesso il meno sfavorevole per lui. Se la causa era buona mandavano l’interessato presso lo studio dell’avvocato di fiducia. Giovanni era rimasto colpito dal fatto che, in ogni contrada della provincia di Potenza, l’Alleanza contadini si era conquistata la fama di vincere tutte le cause agrarie. E volle andare a scoprirne il segreto. Da quando c’era Laus e la sua rete di capi contadini nessuno più si recava, come prima, dal padrone a pagare il canone, col rischio di dover affrontare spiacevoli discussioni. Gli spedivano il denaro per vaglia postale. Il conto al centesimo lo faceva Laus. Così anche quest’ultimo contatto tra contadino e proprietario, che era pur sempre un rapporto personale, veniva a cessare. Si attendeva l’autunno con trepidazione per svolgere il rito del pagamento dell’equo canone: un atto concreto e insieme simbolico per sottolineare la dignità conquistata. Quando fui eletto presidente provinciale dell’Alleanza dei contadini di Potenza, Laus era già passato alla Lega delle Autonomie Locali, ma veniva spesso a trovarci per parlare coi suoi contadini. Ed era orgoglioso – quando ne parlavamo – che la sua storia comparisse in un classico del nuovo meridionalismo post-bellico.
Conobbi personalmente Giovanni Russo dopo il sisma del 1980. Egli aveva scritto “Terremoto” a quattro mani con Corrado Stajano. E presentammo il libro a Tito.
Accettò volentieri il mio invito a partecipare a Tricarico, il 10 aprile 2003, ad un convegno organizzato dalla Cia nazionale sul tema “L’attualità di Rocco Scotellaro. Dal declino della civiltà contadina alla rinascita della ruralità”. Aveva pubblicato qualche anno prima “Lettera a Carlo Levi” e volle venire a parlarci del rapporto tra lo scrittore piemontese e Rocco. Tra i relatori c’erano anche Giuseppe Avolio, Antonio Landolfi, Michele De Benedictis, Pancrazio Toscano, Massimo Pacetti, Nicola Manfredelli e Paolo Carbone. Giovanni era quasi coetaneo di Rocco e, insieme, avevano frequentato, dopo la fine del fascismo, Carlo Levi e Manlio Rossi-Doria.
Al convegno parlò dell’amicizia di Rocco con quelli che egli definiva “i suoi due fratelli maggiori”. Lesse alcuni brani delle lettere inedite che Rocco aveva scritto al professore di Portici e all’autore del “Cristo si è fermato a Eboli”. Volle mettere in risalto il legame profondo tra Rossi-Doria e Scotellaro il quale gli confidava i suoi problemi e gli esponeva l’esigenza di trovare un impegno fuori regione. E il professore lo coinvolse nelle attività del Centro di Portici per un’inchiesta sulle campagne meridionali. Sul rapporto tra Carlo Levi e Rocco, Giovanni osservò che era stata profonda l’influenza che aveva avuto il primo sul secondo, ma che sarebbe sbagliato considerare lo scrittore lucano una filiazione dell’intellettuale torinese. Disse testualmente: “Mentre per Levi il mondo della ‘civiltà contadina’ era immerso nel mito della memoria, per Scotellaro era una realtà di cui egli interpretava il dramma presente, le aspirazioni, le contraddizioni”.
Giovanni è stato un meridionalista militante, controcorrente e ha saputo mantenere per tutta la vita l’entusiasmo che aveva caratterizzato il periodo giovanile della sua adesione al Partito d’Azione. Nei colloqui che ho avuto con lui, sempre molto intensi, ho compreso il motivo di fondo dello sviluppo distorto del Mezzogiorno: Egli era stato fortemente critico verso la creazione di grandi insediamenti chimici e siderurgici (le famigerate “cattedrali nel deserto”). Mi diceva che avrebbe preferito scelte che privilegiassero l’agricoltura di qualità, il turismo e una piccola e media industria legata alle risorse locali. Ma a cavallo degli anni Cinquanta e Sessanta erano in pochi a pensarla come lui e quei pochi erano stati isolati da un fronte largo e trasversale che voleva ad ogni costo un’industrializzazione forzata dall’alto. Mi spiegava che convergevano sia l’interesse dei democristiani, i quali pensavano di trarre un vantaggio elettorale controllando le assunzioni nelle aziende a partecipazione statale, sia l’interesse dei comunisti e del sindacato che vedevano in una nuova leva di operai un’opportunità per accendere finalmente lo scontro di classe nelle regioni meridionali.
Giovanni condannava la proliferazione “degli enti burocratici parassitari” e scriveva che i centri urbani del Sud erano cresciuti alla rinfusa “come funghi velenosi”. Constatava che il meridionalismo era diventato per molti versi una “cultura subalterna”, assoggettata al “trasformismo dei partiti politici”. Mi ha sempre attratto la sua visione laica dei problemi e la capacità di ascolto: era mosso da una grande curiosità e da una sincera voglia di comprendere i fenomeni sociali.
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