Saperi

La società della prestazione

Si vale solo in quanto si produce, nel momento in cui non si produce, non si vale più. È una società, la nostra, che si muove tra narcisismo, oblio del desiderio e malattia dell’anima. Siamo soggetti apparentemente liberi, in realtà obbligati a massimizzare noi stessi quali unici centri di prestazione, finendo per autosfruttarci. Così, in questo tempo carico di incertezza, ansia, flessioni dell’umore, possiamo immaginare tutte le ricadute sulla tenuta complessiva del nostro stare al mondo

Massimo Cocchi

La società della prestazione

Fabio Gabrielli. Siamo passati da una società disciplinare, espressiva di obblighi e divieti, a una società della responsabilità e dell’iniziativa senza posa, che finisce per implodere nell’imperativo della prestazione, nel segno del soggetto autocentrato. Il soggetto è solo apparentemente libero, unico dominusdelle proprie iniziative, in realtà è obbligato a massimizzare se stesso quale unico centro di prestazione, finendo per autosfruttarsi fino all’essicamento delle proprie radici vitali (il fenomeno del burnout ne è un esempio assai significativo).

La profanazione della propria autostima, costituisce l’humus ideale per il proliferare dei germi depressivi

Nella sua estrema brutalità argomentativa: si vale solo in quanto si produce, nel momento in cui non si produce più, non si vale più. Dunque, essendo io l’unico responsabile di ciò che produco, nel momento in cui la mia anima diventa sterile, sfibrata, sfinita, esco dalla scena del mondo, divengo invisibile, provando vergogna per la mia inadeguatezza. E la vergogna, cioè la profanazione della propria autostima, costituisce l’humus ideale per il proliferare dei germi depressivi, nel segno di una complessiva cultura narcisistica, quindi antierotica, poiché implode in una vitalità fine a se stessa, senza apertura all’alterità, senza riconoscimento, scoperta, dialettica del confronto.

La cultura prestazionale, dell’efficienza e dell’efficacia a oltranza, in questo modo, ignora la logica del desiderio che rinvia sempre alla nostra mancanza, smascherando l’illusione del soggetto supposto padrone, supposto sapere. In fondo, se il bisogno colma un vuoto innescando ottimali strategie di riempimento – so come e dove trovare i mezzi, gli strumenti per soddisfare, godendo, un mio bisogno – il desiderio si configura come l’inafferrabile, lo sfuggente perpetuo, l’ingovernabile, l’inaggirabile. In termini davvero stringenti, il desiderio si annuncia agli umani come un non sapere di cosa manchiamo e un mancare di ciò che non sappiamo.

Insomma, è quel vuoto incolmabile che abita ogni frammento della nostra esistenza, che stimola la nostra creatività per cercare di riempirlo, ma che sempre sfugge alla nostra portata, proprio perché non è un bisogno. Nel desiderio abita l’inquietudine, la tensione a eccedere la propria soggettività, ad abdicare a logiche autoreferenziali, a essere sorpresi, ecceduti, trascesi da quell’alterità, che non può mai essere oggetto di mero bisogno/godimento, ma di infinito, sconcertante riconoscimento. Anche là dove ho realizzato la massima potenza del godimento, ho colmato un bisogno, il desiderio, infatti, rilancia se stesso dandomi scacco matto.

Essere all’altezza del desiderio, significa, allora, erigersi come centri di finitezza, riconoscere nella nostra finitezza anche la finitezza dell’altro, fare della custodia del volto dell’altro un compito etico inesauribile. Fare del sentire l’altrola cifra dell’umano, significa svellere le dinamiche perverse e ansiogene del continuo soddisfacimento dei bisogni, ritrovare un punto stabile in un’epoca estremamente fluida come la nostra, priva di carattere, di autentica presa sulla realtà, filtrata solo attraverso le logiche dell’efficienza, della prestazione, e non della finitezza, della pausa contemplativa, della temperanza.

Un’epoca in cui, di conseguenza, le sferzate dell’ansia e i morsi delle flessioni dell’umore, fino alla depressione maggiore, si fanno sentire in modo sempre più marcato, mettendo a dura prova quanti si occupano della cosiddetta salute mentale e alimentando, di conseguenza, il mercato dei farmaci.

E proprio qui, caro Massimo, si innesta tutto il delicato problema della psicofarmacologia, tra legittimità di applicazioni e abuso, scelte terapeutiche mirate e criticità.

Massimo Cocchi. Caro Fabio, mi poni uno delle questioni più complesse e controverse per quanto riguarda la “gestione” di questo delicato problema e del paziente “psichiatrico” in generale.

Con l’infelice termine che ho usato, “gestione”, intendo la capacità di fare una diagnosi giusta e, conseguentemente, una terapia adeguata.

A lungo, se ricordi, abbiamo affrontato questo aspetto, non starò a citare le numerose bibliografie sull’argomento per non tediare chi avrà la bontà di leggerci – i nostri studi, comunque, sono disponibili per chi vorrà approfondire.

Nella patologia psichiatrica, ci sono tre momenti fondamentali da considerare:

  1. La correttezza della diagnosi (l’errore diagnostico nella fase di insorgenza della patologia “depressiva” è di circa il 70% a favore della cosiddetta “Depressione Maggiore” rispetto al “Disordine Bipolare”, mentre, nel tempo, si evidenzierà, alla luce del manifestarsi di precise caratteristiche patologiche, che non si trattava di “Depressione Maggiore” bensì di “Disordine Bipolare”.
  2. La dinamica della membrana cellulare, che nel suo concetto di mobilità (fluidità e viscosità) rappresenta l’elemento regolatore della captazione della serotonina. E’ l’individuazione di questo sottile spartiacque che, all’insorgenza della psicopatologia, può garantire la correttezza diagnostica, quindi l’intervento terapeutico orientato, da subito, verso la “Depressione Maggiore” o il “Disordine Bipolare”, evitando, in tal modo, il drammatico percorso-calvario del soggetto nel lungo iterdella malattia.
  3. La presenza di un forte stimolo pro-infiammatorio, invisibile, che accompagna la psicopatologia e che percorre l’asse intestino-cervello nelle due direzioni. Di questo terzo aspetto, purtroppo, non si tiene quasi mai conto, se non da parte di psichiatri illuminati e che addentrano la loro competenza nella dinamica molecolare dell’evento psicopatologico.

Per i primi due punti, ricordo quanto ha scritto lo STANFORD JOURNAL OF PUBLIC HEALTH, nel 2017, a proposito della ricerca molecolare sulla depressione da noi eseguita:

…” Questo è un enorme passo avanti nella prevenzione di suicidi e simili atti di autolesionismo, che influenzano non solo la salute di un paziente, ma anche quella degli altri.

Gli specialisti in neurologia o psichiatria, tuttavia, sono meno che benvenuti a questi studi. Invece di vedere questi studi come un segno di progresso nella ricerca, li trattano come falsi con tutto da dimostrare, poiché vedono la tecnologia come una potenziale minaccia per le loro posizioni. Non è un mistero che nel prossimo futuro, una macchina funzionale e collaudata potrebbe dare un risultato quasi perfetto, nel qual caso la voce umana inizierà a perdere credibilità e potere. E ‘probabile che i dirigenti preferiscono acquistare una nuova macchina piuttosto che assumere un nuovo dipendente. Per questo motivo, anche i dirigenti a livello del Ministero della Salute e altre associazioni mediche non ascoltano e fanno tutto il possibile per mettere a tacere questi studi, nascondere i loro benefici e ostacolarne lo sviluppo. È fondamentale tenere presente che molte diagnosi, quando si affrontano casi di disturbi psichiatrici, nella migliore delle ipotesi sono dubbie, se non sbagliate… È inimmaginabile pensare di essere in grado di comprendere un argomento così complesso come quello della patologia psichiatrica senza avere collaborazione tra vari settori. In effetti, questo studio è la prima volta che può distinguere tra un paziente bipolare e un paziente depresso. Il motivo per cui questa distinzione è rilevante è perché, come affermato in precedenza, gli errori spesso commessi nella diagnosi della depressione maggiore rispetto a quella del disturbo bipolare, sono dovuti al ritardo nella comparsa dei sintomi in quest’ultima” …

Veniamo al terzo punto, caro Fabio, laddove, questa volta, non tento la difficile impresa di ragionamenti pseudo-filosofici o il tentativo di acrobazie mentali quantistiche, ma ne approfitto per offrire a chi ci farà la grazia di leggere e potrà trarre una migliore comprensione del fenomeno psicopatologico, alcune considerazioni non note, anche al grande pubblico medico.

Non è un mistero che nel prossimo futuro la voce umana inizierà a perdere credibilità e potere

Recentemente, in una prestigiosa rivista scientifica (Appl. Sci. 2020, 10, 34), con l’amica e collega Giovanna Traina, abbiamo pubblicato un lavoro sull’argomento, di cui riporto un breve stralcio:

“Le prove dimostrano che gli acidi grassi della membrana cerebrale svolgono un ruolo cruciale in psicopatologie come la depressione e i disturbi d’ansia. Sebbene la patogenesi della depressione non sia ancora definita, i farmaci comunemente usati per ridurre il turnover arachidonico nel cervello possono controllare i disturbi dell’umore, come la depressione. Sia gli astrociti che i mastociti rilasciano acido arachidonico durante l’infiammazione silente. Qui, ipotizziamo che l’acido arachidonico liberato da goccioline lipidiche di mastociti, così come quello rilasciato dagli astrociti attivati, potrebbe contribuire a caratterizzare una condizione depressiva, e anche il profilo degli acidi grassi dei mastociti, astrociti e microglia potrebbe variare, riflettendo lo stato fisio-patologico depressivo del soggetto. Infine, ci sono prove che il microbiota intestinale è profondamente coinvolto nei disturbi dell’umore e del comportamento. Il microbiota intestinale umano può controllare le malattie del sistema nervoso attraverso percorsi neuroimmuni”.

A queste provate considerazioni, si affianca il vasto capitolo delle modificazioni del metabolismo del triptofano, la sostanza da cui deriva la serotonina, a livello del microbiota intestinale, qui riassunto da un lavoro in corso di stampa:

“È sempre più evidente che il fenomeno dei disturbi dell’umore, nonostante la sua inequivocabile origine genetica, si insinua in un insieme multifattoriale di eventi biochimici e molecolari che coinvolgono l’intero organismo. Una vasta letteratura ha fornito prove che riconoscono i cambiamenti nella neurotrasmissione serotoninergica nella fisiopatologia della depressione. Inoltre, un aumentato rapporto tra acido arachidonico e acido grasso omega-3, che conferisce fluidità alle membrane cellulari dei mammiferi, è associato allo stato di depressione. La combinazione di eccessiva espressione di chinurenina e aumento della fluidità della membrana non è mai stata considerata nel senso di un effetto simultaneo nel determinismo della condizione depressiva. Inoltre, varie evidenze supportano la relazione tra microbiota intestinale e depressione e confermano alterazioni del microbiota nella patologia depressiva.

Ecco, caro Fabio, da queste stringate considerazioni si evince tutta la complessità della psicopatologia depressiva, uni e bipolare, alla quale occorre riservare una sempre più crescente attenzione, soprattutto in questo momento storico particolarmente carico di incertezza, ansia, flessioni dell’umore, con tutte le ricadute che possiamo immaginare sulla tenuta complessiva del nostro stare al mondo.

La foto di apertura è di Olio Offcina ed è un particolare di un’opera esposta al Museo della Follia di Lucca, Cavallerizza di Piazzale Verdi, mostra a cura di Vittorio Sgarbi, 27 febbraio-22 settembre 2019

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