Saperi

La solitudine del sognatore

Il sogno fa parte della nostra vita, giace nel nostro inconscio, per cui non sempre riusciamo a coglierne il senso e l’origine. Soprattutto i giovani devono essere portatori di sogno, altrimenti la società, e la stessa cultura, diventano insopportabili. Tutto, senza il sogno diventa insopportabile e ripetitivo. Il sogno non sempre si traduce in realtà, e può accadere che si sperimenti un senso di lacerante solitudine.

Sante Ambrosi

La solitudine del sognatore

Il sogno fa parte della nostra vita, giace nel nostro inconscio, per cui non sempre riusciamo a coglierne il senso e l’origine. Non per niente la grande psicoanalisi da Freud e Jung fino all’attuale psicologia ha cercato di capire tante cose di questo fenomeno umano. Possiamo partire da una constatazione evidente: il sogno è fondamentale per le attività più propriamente umane, come l’arte, la musica, la poesia. Niente di queste attività è possibile senza il “sognare” in tutte le sue forme. Ma il sogno dovrebbe essere presente anche nelle facoltà che sembrerebbero più lontane, come la filosofia, la politica e la scienza. Anche la scienza, nelle sue scoperte più innovative è stata frutto di questa facoltà, che cataloghiamo come non scientifica, apparentemente, eppure necessaria per non essere dominata semplicemente dal passato. Sarebbe semplicemente una scienza ripetitiva. Anche la politica, soprattutto nei momenti di crisi, ha bisogno di nutrirsi del sogno. Perché il rischio è sempre quello di ripetere il passato.

Soprattutto i giovani devono essere portatori di sogno, altrimenti la società, e la stessa cultura, diventano insopportabili. Tutto, senza il sogno diventa insopportabile e ripetitivo, financo la religione, cosa che succede anche a certi eminenti teologi che vogliono interpretare la società e gli eventi della storia con delle logiche rigide e passatiste, senza un alito di sogno e di fantasia. Penso, tanto per fare un esempio, a quel teologo che recentemente ha parlato di punizione di Dio nelle catastrofi provocate dai terremoti dei giorni passati.

Possiamo aggiungere che senza sogno il pensiero è sepolto in una realtà senza utopia, senza futuro. La conclusione è che senza futuro la società perde la speranza che conta, forse si salvano solo piccole speranze effimere, che non contano per una visione del mondo per cui vale la pena di vivere e impegnarsi.

Da questo punto di vista possiamo parlare di una solitudine che coinvolge tutti, in modi e intensità diverse. Coinvolge tutti perché tutti siamo sognatori, e lo dobbiamo essere, altrimenti ci metteremmo fuori di quell’alito vitale che ci deve essere connaturale con il nostro essere.

Sogniamo di realizzare una professione pienamente corrispondente ai nostri desideri, ai nostri sogni, ma questo il più delle volte non è; desideriamo con tutto il cuore un amore anche sentimentale che il più delle volte non troviamo, come ci ha cantato in sublimi poesie Leopardi. Desideriamo dei figli che corrispondano ai nostri progetti, ma anche qui non sempre troviamo risposte adeguate alle aspettative.

Certamente ciò non significa che le delusioni ci facciano piombare nella notte oscura di un pessimismo travolgente. Vuol dire solo che i sogni restano normalmente inappagati, ed è giusto che sia così.

Altra cosa però è la solitudine dei grandi sognatori che conosciamo nella storia. Sono quei sognatori che sono eccezionali in quanto hanno impostato la loro vita e le loro attività per realizzare un sogno che li ha avvinti totalmente e per il quale hanno speso e giocato tutta la loro esistenza. Certamente ognuno di noi ha in mente i grandi personaggi che si sono trovati di fronte ad una delusione inspiegabile e inattesa.

I nomi sono senz’altro numerosi e di almeno qualcuno mi piacerebbe rintracciare le loro profonde delusioni, su temi che sento ancora attuali e reali…

Immediatamente penso a Socrate, a Seneca, e anche a Cicerone nella sua fase finale dell’esistenza, a Galilei e san Paolo. E proprio da quest’ultimo comincerei a dire qualcosa, senza la pretesa di chiudere con questi il numero di tanti altri illustri personaggi, sognatori senza successo.

LA SOLITUDINE DI PAOLO

Voglio parlare proprio di san Paolo, della sua acuta solitudine che in un preciso momento ha certamente vissuto in modo drammatico. E spiego perché. Sappiamo che Paolo sia prima della sua conversione alla fede in Gesù, sia dopo fu un carattere forte, che certo, non si piegava di fronte alle molteplici difficoltà e sofferenze, come sappiamo dalle sue stesse lettere. Dunque non si può parlare di solitudine per le fatiche, le incomprensioni che ha minutamente descritto alle sue comunità. Fu certamente un carattere combattente che non si piegava e meno ancora si lamentava o piangeva delle prove della sua evangelizzazione. Anzi, possiamo trovare in parecchie sue lettere sincero orgoglio, non superbia, di essere stato degno di una qualche sofferenza. Eppure anche per un Paolo così attrezzato alla sofferenza ha trovato un momento nel quale ha sperimentato una lacerante solitudine.

Questo momento è avvenuto alla fine del suo terzo viaggio, dopo aver visitato tutte le sue comunità dell’Europa e dell’Asia mediterranea, e volle tornare a Gerusalemme per portare ricchi doni raccolti per sostenere la comunità cristiana di Gerusalemme. Era sempre considerata la Chiesa madre, anche a capo non c’era più Pietro, ma Giacomo, il fratello di Gesù. Era una comunità cristiana composta di cristiani che sostanzialmente erano rimasti fedeli alle tradizioni del popolo Ebraico, alle pratiche e ai riti del tempio.

Arrivato davanti a Giacomo, dopo aver raccontato tante cose belle della sua missione e soprattutto come il mondo pagano aveva accolto il messaggio di salvezza imperniato sulla sola fede in Gesù, senza dover accettare le passate leggi del popolo dell’Antico Testamento. Sperava di trovare pieno consenso da parte della sua comunità, non certo da parte dei tanti Giudei presenti a Gerusalemme, rimasti ostili a Cristo.

Giacomo lo ascolta, ma subito dopo gli riferisce che i cristiani della sua comunità non parlano bene di Paolo, perché hanno sentito dire che non osserva le leggi di Mosè. E gli dà un consiglio per dissipare questi giudizi: fatti anche tu nazireo insieme ai quattro che si stanno preparando al rito finale e paga per loro quanto dovuto.

“Allora Paolo prese i quattro e il giorno dopo si fece nazireo e con loro entrò nel tempio per notificare la scadenza del nazireato”(at. 21, 26). Fu un gesto che non lo salvò, perché i Giudei si accorsero della sua presenza e fu arrestato e iniziò il lungo calvario di un lungo processo che lo portò fino a Roma. Un gesto che Paolo ha accettato anche se era contro i suoi insegnamenti che aveva consegnato a più riprese nelle comunità cristiane fondate da lui stesso, con tanto di approvazione da parte dello stesso Concilio di Gerusalemme di qualche anno prima alla presenza di tutte le autorità che governavano la Chiesa madre, Pietro compreso.

Dopo quel concilio e dopo tutta la sua esperienza ricca di frutti in molte città del mondo pagano fatta da lui ma anche da altri discepoli e apostoli sparsi in diverse direzioni di quel mondo, si trova ancora una comunità così radicata in quel passato dal quale non vuole uscire, così rigida e incapace di proiettarsi verso il futuro già in atto. Questa volta anche Paolo si trova nella solitudine che certamente gli bruciava nel suo animo di combattente.

Nella foto di apertura, di Luigi Caricato, Salvador Dali, Ritratto di Joella Lloyd (1934), con Man Ray, al Museo Reina Sofia, Madrid

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