Saperi

La stanza

Narrazioni. Maso Gragnani, una vita improntata alla più totale solitudine, non amava le famiglie. Non per nulla era rimasto scapolo. Non sopportava nemmeno le domande che Lucetta, la bambina, regolarmente gli faceva. «Io sono un contadino. E i contadini parlano poco». Il dialogo tra zio e nipote però procedeva. In modo curioso, ognuno seguiva un proprio ragionamento. Ognuno parlava quasi per sé. «Allora non sei cattivo?». «Credi che tuo padre ti avrebbe lasciata da me se pensasse che sono cattivo?… E ora andiamo nella stanza»

Mariapia Frigerio

La stanza

Lucetta si chiedeva perché suo padre si ostinasse a portarla da zio Maso. Più volte glielo aveva domandato, come se la risposta, data una volta, potesse, la volta successiva, cambiare. Restava invece identica.
«Tuo nonno non c’è più. Zio Maso, suo fratello, è l’unico legame che ci rimane con lui». Poche parole. Sempre le stesse.
La bambina aveva cercato di spiegargli che c’era una bella differenza tra nonno Bernardo e lo zio. Ma il padre, imperturbabile, ogni domenica usciva in macchina dalla città per raggiungerne la bicocca.
Al termine del viaggio percorrevano il sentiero polveroso e lievemente in salita. Il vecchio li aspettava fuori di casa sulla sua seggiola impagliata. Indistintamente estate e inverno.

Maso Gragnani non era felice di quella visita. Semplicemente la subiva come un tributo da pagare a chissà chi. Non amava le famiglie. «Famiglie, vi odio» diceva tra sé facendo eco a Gide. Non per nulla era rimasto scapolo.
E neppure sopportava tutte le domande che la bambina regolarmente gli faceva.
«Non sono un architetto come tuo nonno né un libraio come tuo papà. Neppure un professore come Foscolo. Sì, mio padre… il tuo bisnonno Foscolo. Io sono un contadino. E i contadini parlano poco».
Le sue mani nodose confermavano, agli occhi di Lucetta, che quello che diceva era vero. Sempre con la vanga o ogni altro genere di attrezzo in mano. Sempre con i Monni, la famiglia di contadini che gli abitavano vicino. Sempre con Bertino, la Rita e loro figlio Franco. Dell’età di suo nipote Arnolfo, il padre di Lucetta.
La sua vita improntata alla più totale solitudine.
Non fosse stato per Recoleta e Leone.

Lucetta trovava sfogo, in quelle visite, proprio nel giocare con la gatta Recoleta e con il cane Leone.
Poi la gatta era morta. Da Franco aveva saputo che lo zio aveva voluto che Recoleta fosse sepolta scendendo il declivio, verso l’oliveto. Ma da zio Maso non aveva saputo nulla. Né lei, del resto, aveva mai osato chiedere.
Ora le era rimasto solo Leone, il grosso cane a cui lanciava una palla, rincorrendolo e facendosi rincorrere.
«Raus… raus» bofonchiava Maso spostando il toscano spento che teneva immancabilmente tra i denti quando cane e nipotina, con i loro giochi, gli si avvicinavano troppo.

«Perché zio Maso si chiama così?»
Ogni volta che risaliva in auto col padre per rientrare in città, Lucetta sentiva il bisogno di parlare. Non che suo padre fosse un parlatore, ma rispetto allo zio…
«Perché mio nonno Foscolo era professore di storia dell’arte. Amava pittori come Maso di Banco. Amava i giotteschi».
«I grotteschi?»
«No, i giotteschi. Gli allievi di Giotto».
«Quello del campanile?»
«Sì, sì, quello».

Arnolfo non aveva nessuna dote di pedagogo. Parlava con la figlia come se parlasse a se stesso. Che la bambina avesse solo dieci anni era un problema che sembrava non riguardarlo. E comunque era anche lui un Gragnani. E, come tutti i Gragnani, di poche parole.
Era un Gragnani anche per le famose “questioni di principio” a cui, come comandamenti, non si poteva venire meno.
Così era stato anche quando la sua compagna di corso di bibliografia e biblioteconomia, alla Facoltà di Lettere, era rimasta incinta.
Cécile era francese. Spregiudicata. Non ci aveva, infatti, pensato un attimo all’idea di sbarazzarsi di quella gravidanza indesiderata. E lo aveva comunicato ad Arnolfo. Lui ne aveva reso partecipi i genitori.
Ma il ’68 con tutta la sua ventata libertaria non aveva toccato i Gragnani. O meglio… sì, certo… per parlarne con gli amici… per animate discussioni serali. L’architetto Bernardo e sua moglie Fernanda erano di idee avanzate. Poi la stessa Facoltà di Architettura, su cui ancora gravitava Bernardo, era stata quella più sensibile a tutti gli stravolgimenti. Ma erano persone aperte in teoria, non nei fatti. Così quando Bernardo e la Fernanda seppero dell’incidente si appellarono alle famose “questioni di principio” e sostennero che se c’era di mezzo un bambino questo dovesse nascere. A costo di prendersene cura loro.
Arnolfo riferì a Cécile il parere dei suoi genitori provocandone un’inaspettata ira. Irragionevole addirittura, per lui.
«Io non ne parlo con i miei, tengo la cosa per me e tu… subito dai tuoi. Ma quando vi libererete della famiglia, voi italiani, mi sai dire quando? Ho lasciato la Francia per venire a specializzarmi in Italia, vivo sola, ho la mia indipendenza, le mie ambizioni. Non crederai che per le vostre idee antiquate io blocchi il mio futuro! E neppure penserai che mi adatti a fare la moglie di un libraio, pardon, di un libraio-antiquario, come ti piace che si dica. Questa città, bella, affascinante fin che ti pare, è per me solo una tappa. Non voglio che si trasformi in una trappola».
L’amore, se mai c’era stato, finì. La bambina nacque per volere della Fernanda che aveva promesso di sobbarcarsi le fatiche di allevare la nipotina. Cécile, che si sentiva vittima di quella gravidanza quasi obbligata, dopo aver imposto la sua volontà nella scelta del nome – Lucetta – uscì dalla vita dei Gragnani e forse anche dall’Italia.

Lucetta crebbe con i nonni e con il padre. Sul fatto che non ci fosse la mamma, la Fernanda si era data da fare perché non trapelasse, né dal marito né dal figlio, il minimo accenno alla verità. Non poteva tollerare che la sua nipotina potesse anche solo intuire di essere stata rifiutata. Così le aveva inventato di certi lavori umanitari – in India e in altri paesi poveri – a cui la madre, dopo averla accudita nei primi anni di vita, non si era potuta sottrarre.
La bambina non aveva mai fatto domande più di tanto. Forse – intuendo qualcosa di anomalo – per una forma di autodifesa. Ugualmente era cresciuta serena con quei nonni dediti solo a lei.
Poi, nel giro di due anni, prima la Fernanda poi Bernardo se n’erano andati. E nella grande casa di Borgo Pinti erano rimasti solo Arnolfo e la figlia.

Era la gita domenicale il momento in cui Lucetta poteva parlare col padre. Durante la settimana lui era sempre in libreria. A pranzo tornava raramente. Sovente neppure a cena.
Dopo la morte dei nonni era stata così trovata Vanna, una ragazzona di campagna, perché si occupasse di lei nei momenti in cui era libera dai suoi impegni: la scuola, le lezioni di piano, le ore con Mrs Kemp per l’inglese, il tennis.
Arnolfo aveva realizzato che, dopo la morte della madre, doveva trovare per la bambina delle attività che la distraessero dal dolore della perdita subita. E fu un bene, perché Lucetta aveva iniziato a vivere, da quel momento, in simbiosi col nonno Bernardo. Condividevano tutto: ricordi, rimpianti, e anche certi rimorsi di quest’ultimo. Avevano creato un rapporto molto stretto, ma non adatto ai dieci anni della bambina.
Bernardo Gragnani – nell’unico anno in cui sopravvisse alla moglie – era riuscito a conquistarsi un ruolo di fondamentale importanza nel cuore della piccola. Lui, abitualmente di poche parole, ne era divenuto il confidente e il consigliere.
Per questo la bambina faticava a vedere in zio Maso, così rozzo e scorbutico, il fratello più grande di quello che per lei era stato il suo meraviglioso nonno.

Quando venne l’inverno iniziarono i problemi. Come sempre zio Maso aspettava l’arrivo di Arnolfo e Lucetta davanti a casa, seduto sulla seggiola impagliata.
Ora indossava, anziché camicie a quadri sbiadite, un giubbotto marrone di velluto a coste. Una specie di sacco informe. Immancabile il toscano spento tra i denti.
Lucetta per il freddo non poteva stare fuori. Così quella visita pomeridiana si svolgeva dentro la grande cucina.
Un locale ampio, con un grande camino davanti al quale stava un antiquato dondolo ad uso esclusivo dello zio, un tavolo di legno rustico con seggiole tutt’intorno, una madia, una cucina economica. Nessun libro, nulla su cui scrivere, nessun quadro alle pareti. Solo cartoline di varie località appoggiate su una mensola al muro. E, sempre al muro, il telefono. Muto. Mai una volta che suonasse.
La bambina aveva più volte chiesto allo zio di far entrare Leone. La risposta era sempre stata negativa: «Nein».
Lucetta taceva intimorita. Ma un giorno, in uno di quegli interminabili pomeriggi che lei trascorreva leggendo appoggiata al tavolo i libri che si era portata da casa, fu presa da uno strano coraggio e, rivolgendosi allo zio, disse:
«Perché non vuoi Leone in casa?»
«Perché odio quella bestia. Da quando è morta Recoleta ha sempre cercato di prenderne il posto. Ha sempre cercato di intrufolarsi qui. Ma qui dentro era il regno della mia gatta. E non sarà mai il suo».
Lucetta, a sua volta, iniziò, da quel momento, a odiare lo zio.

Di rientro in città, quella sera, le domande di Lucetta al padre furono sulla stranezza dei nomi della famiglia Gragnani. Compreso quello del cane e della gatta. Per il padre furono quasi un sollievo quelle domande. I pomeriggi in totale silenzio, con zio Maso sul suo dondolo e lui su una seggiola impagliata, erano pesanti anche per uno di poche parole come Arnolfo. Perché, se non ci fosse stata di mezzo la “questione di principio”, avrebbe fatto volentieri a meno di quella visita a uno zio mai amato.
«Allora… vediamo. Riguardo al nome di mio nonno Foscolo, ma… non ti so proprio dire perché. Ti ho già detto invece del nome di zio Maso. Maso di Banco, un giottesco. Nonno Foscolo insegnava e amava l’arte».
«Maso di Banco è quel pittore che ha dipinto il drago cattivo?»
«Brava, Lucetta, e come lo sai?»
«Mi portò una volta nonno a vederlo in una chiesa… Non ricordo quale… ».
«Nella chiesa di Santa Croce il cui architetto fu Arnolfo di Cambio. Arnolfo… come il mio nome.
Il tuo nonno, che era architetto, considerava il più grande architetto di questa città non Brunelleschi o Leon Battista Alberti, ma proprio Arnolfo che oltre a Santa Croce aveva progettato il Duomo e Palazzo Vecchio».
Ancora una volta la mancanza di pedagogia di Arnolfo fu evidente, tanto che la bambina lo interruppe con:
«E perché nonno si chiamava Bernardo?».
«Maso – per Maso di Banco – il primo figlio. Bernardo – per Bernardo Daddi – il secondo. Insomma… un altro giottesco».
«E Leone e Recoleta?».
«Recoleta è un quartiere di Buenos Aires. Una zona molto elegante dove zio Maso ha vissuto per un lungo periodo».
«Ma come fanno i contadini a vivere in un posto elegante?»
«Beh, zio Maso è un contadino sui generis».
«Perché è sul genere?»
«Non sul genere. Sui generis».
«Non capisco, papà».
«Te lo spiego un’altra volta».
«E Leone?».
«Mmh, … Leone per il grande scrittore russo Leone Tolstoi… ».
«Ma zio Maso non legge. Non c’è nessun libro nella sua casa!»
«Zio Maso è stato un grande lettore e immagino lo sia ancora…».
«Allora perché… ».
«Basta, Lucetta, basta con tutte queste domande. Mi fai scoppiare la testa!».
«Papà, dimmi ancora perché mi chiamo Lucetta. Poi sto zitta fino a casa».
«Lucetta l’ha voluto tua madre. Non so, forse per una femminista… ».
«Perché ero femmina?».
«Sì, sì, sì! Perché eri femmina» tagliò corto, infastidito, Arnolfo. E un muro di silenzio calò nell’abitacolo dell’auto.

«Devo fare pipì. Dov’è il bagno, zio Maso?»
«La prima porta a destra del corridoio».
«Il corridoio… Non l’ho mai visto. Chissà che stanze ci sono… » pensò Lucetta. Perché, nonostante da mesi tutte le domeniche le trascorresse lì, della casa di zio Maso lei conosceva solo la grande cucina e il fuori, con la casa sul poggio di Bertino e della sua famiglia e il declivio degli ulivi. Null’altro.
Percorse il breve corridoio, ma non si fermò nel bagno. Proseguì fino in fondo dove, sulla sinistra, una porta socchiusa lasciava intravvedere una piccola stanza con un letto. L’altra porta, proprio al termine del corridoio, era invece chiusa. Lucetta cercò di aprirla. Inutilmente. La porta era chiusa a chiave. Allora rapida entrò nel bagno e poi tornò in cucina.
Ma la stanza chiusa iniziò, da quel momento, a far parte dei suoi pensieri.

Fu verso l’inizio dell’estate che nella visita domenicale Arnolfo volle parlare con suo zio. Lucetta, col ritorno del caldo, aveva ripreso i suoi giochi con Leone che ora, per gli anni, si reggeva a fatica sulle zampe posteriori.
«Senti, zio, per una settimana dovrò andare via. Per lavoro, ovviamente. Vanna, la ragazza che si occupa di mia figlia, non ci potrà essere. Ha la madre malata. Lucetta avrà finito la scuola. Non so a chi altri chiederlo… ».
«E ti sembro un tipo da bambini?»
«No, zio, lo so, ma… ».
«Va bene, va bene. Se non sai come altro fare, portamela».
Mai il nipote si sarebbe aspettato una simile arrendevolezza.
«Sarà dalla prossima domenica a quella successiva… ». Poi aggiunse:
«Del resto non ti ho mai chiesto niente… ».
«Ti ho già detto che la tengo. Non dire altro prima che ci ripensi… ».
E borbottando tra sé: «E cosa avrebbe dovuto mai chiedermi? Sfrontato! Uno dei Gragnani. Uno della setta Gragnani. Non devo niente a nessuno, se Dio vuole. Niente: né materialmente né affettivamente».
Quando venne il momento di rientrare in città, Lucetta andò a salutare zio Maso.
«Allora ti aspetto domenica e… ».
La bambina rimase muta. Senza capire. Poi il padre, dalla macchina, la chiamò.

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«Non ci voglio andare da zio Maso da sola. Non voglio! Ho paura di zio Maso e della sua casa» disse tra i singhiozzi Lucetta quando seppe cosa le si sarebbe prospettato la domenica successiva.
«Su, non essere sciocchina. Cosa vuoi che ti faccia? Potrai giocare con Leone, leggerai i tuoi libri, andrai un po’ dalla Rita quando è libera dai suoi impegni».
«Ma a nessuno piace zio Maso. Nonno Bernardo diceva sempre che era una testa matta e che aveva fatto morire suo padre Foscolo. E anche tu… ».
«Senti, non ho voglia di tanti discorsi. Io devo lavorare e non ho altri a cui affidarti in quella settimana. Quindi smetti di piangere. Mi innervosisci».

La domenica successiva, come stabilito, Lucetta venne lasciata da zio Maso. Arnolfo partì immediatamente. Senza quasi salutarla.
Il vecchio la fece entrare in casa. Le chiese se volesse bere. Poi la accompagnò nella piccola stanza da letto che già la bambina aveva, una volta, sbirciato.
«Sai, io non so cosa ti possa servire. Però qui c’è il tuo letto. Guarda… la Rita ti ha messo delle lenzuola con i fiorellini».
«Che belle, zio!».
«Poi c’è un tavolino se vuoi leggere o scrivere… Perché lo so che ti piace leggere…».
«È vero! Ho portato dei libri con me» e si chinò sulla cartella per prenderli e mostrarglieli.
E Maso fingendo interesse: «Vediamo… “Storie delle storie del mondo”… Sai, io sono un contadino… anche un po’ ignorante… mi dici di cosa parla?»
«Racconta della guerra di Troia. È stata tutta colpa di una donna bellissima, Elena, che lascia il marito per andare via con Paride che era un principe. Però il marito era un re…».
«Deve essere bello…».
«Bellissimo. Se vuoi ti racconto tutta la parte che ho letto…».
«Un’altra volta. Ora fammi vedere gli altri».
Dalla cartella vennero fuori “Il giornalino di Gianburrasca”, “Gli otto cugini”, “Piccole donne”.
«Questo è quello che preferisco» disse mostrandogli l’ultimo «me lo lesse tutto la nonna. Ora lo rileggo da sola».
Zio Maso mostrò poi alla nipote il bagno e le annunciò che la sera erano invitati dai Monni a mangiare la pizza.
«Ti piace?»
«Sì, sì, molto. Possiamo portare anche Leone con noi?»
«Non è possibile. Hai visto come è invecchiato da quest’inverno. Si regge a fatica sulle zampe posteriori… ».
«Ma la casa dei Monni è vicina!»
«Tre minuti a piedi. Per noi non sono niente. Per Leone troppi».
«Lo so che tu lo odi… ».
«Odiare Leone? E perché dovrei?».
«Perché vuole prendere il posto di Recoleta. E tu non vuoi».
«Beh, sì, Recoleta era la mia gatta… Ed è vero: c’è stato un periodo in cui ho pensato che Leone fosse felice della sua morte per prenderne il posto. Non avevo capito che anche lui avrebbe voluto il mio affetto. Ora so che è un cane molto buono. Un cane che si è sempre tenuto in disparte. No, Lucetta, non lo porto con noi solo perché sarebbe troppo faticoso per lui. Credimi».

Quando arrivarono dai Monni, la Rita venne incontro festosa alla bambina. E quando fu il momento di sedersi alla grande tavola apparecchiata all’aperto, rivolgendosi allo zio, disse: «A capotavola, signor Maso».
«Sì, qui» aggiunse Bertino scostandogli la seggiola.
«Benissimo. Grazie Bertino. Grazie Rita».

«Allora, ti è piaciuta la pizza della Rita?».
«Molto, zio. Ma perché ti chiamano signor Maso e tu non li chiami signora Rita e signor Bertino?».
«Perché loro sono persone educate. Io, invece, un gran maleducato».
«Franco però ti chiama Maso. È anche lui maleducato?».
«No, è giovane… Più giovane di loro. Ha l’età di tuo padre. L’ho conosciuto piccolo… e quando si è piccoli non si sanno tante cose».

Rientrarono in casa in tempo per sentire suonare il telefono. Era la prima volta che Lucetta ne sentiva lo squillo. Fino ad allora era stato, per lei, solo un oggetto curioso che, muto, stava appeso alla parete della cucina.
«Pronto!» disse in tono deciso zio Maso «Ah, sì, te la passo… » e senza aggiungere altro porse la cornetta alla nipote.

Maso accompagnò poi la bambina nella sua camera. Si erano fatte quasi le 11. Era ora di dormire, non solo per Lucetta, ma anche per lui. Nella monotonia della sua vita, la giovane presenza aveva portato uno scombussolamento, una fatica che sicuramente gli pesava più dei lavori manuali.
«Buona notte e per qualunque cosa vieni a bussarmi. Le scale di legno che si intravvedono in fondo alla cucina portano alla mia stanza».
«Senti, zio Maso… io… io… ».
«Che c’è?» la investì burbero lo zio, seccato di non potersene subito andare.
La bambina di nuovo ne ebbe paura: «Niente… ». E tacque.
Ma a lungo tenne la lucina del comodino accesa mentre pensava a quella stanza chiusa, fuori dalla porta della sua camera.
Aveva voglia di piangere e nello stesso tempo non ne trovava il coraggio.
Poi il sonno s’impadronì di lei.

Quando la mattina dopo Lucetta si alzò, trovò zio Maso in cucina alle prese con una scatola di biscotti Pavesini.
La bambina gli si avvicinò e gli disse: «I Pavesini. È sempre l’ora dei Pavesini».
Zio Maso non capì: «Sempre l’ora di cosa?». Il tono dello zio impaurì nuovamente la bambina. Poi, facendosi coraggio: «È una réclame della televisione… ».
Maso si accorse di aver usato un tono di voce sbagliato.
«Ora fai colazione svelta. Poi vai da Leone».
Il cane stava fuori dalla legnaia. La presenza di Lucetta gli fece fare uno sforzo per alzarsi. Sforzo inutile perché le zampe posteriori non ressero il suo grosso corpo e il cane cadde mugolando.
La bambina riuscì ugualmente a divertirsi salendo fino dai Monni e seguendo la Rita nei suoi lavori di casa e Bertino nell’orto.
Mangiò da loro e solo verso sera ridiscese dallo zio.
Aveva saputo dalla Rita che lo zio non voleva mai essere aiutato e lei doveva faticare perché lui accettasse che ogni tanto gli pulisse la casa. Ma sui pranzi era irremovibile. Se non era invitato dai Monni voleva provvedervi da solo. La Rita aveva l’accortezza – quando scendeva in paese – di fare un po’ di spesa anche per lui. Lui brontolava, ma sotto sotto non gli doveva spiacere.
Quando la bambina entrò, trovò lo zio indaffarato intorno alla vecchia cucina economica.
«Sai apparecchiare?» le disse senza neppure salutarla. E, senza aspettare la risposta, le indicò dove stavano piatti, posate, bicchieri.
Lucetta apparecchiò con cura come le aveva insegnato nonna Fernanda: le forchette a sinistra, i coltelli a destra. La lama all’interno. Ma si capiva che non era un lavoro usuale per lei. E procedeva lenta, misurando la giusta distanza tra posate e piatti, attenta alla simmetria del suo posto con quello dello zio.
«Smettila con questi virtuosismi. La pappa al pomodoro è pronta» le disse impaziente zio Maso.
La bambina ci rimase male. Anche se non capì quella strana parola: virtuosismi. Ma, ovviamente, non ne chiese spiegazione.
A tavola gli propose di raccontargli la guerra di Troia, ma lo zio le rispose qualcosa di incomprensibile.
E la cena si svolse, così, nel più assoluto silenzio.
Ora veniva il momento peggiore. Quando, di nuovo, si sarebbe trovata sola nella piccola camera di fianco a quella porta chiusa.
Ma questa volta, quando lo zio l’accompagnò, non seppe più trattenersi:
«Io ho paura di quella stanza chiusa a chiave. Ho paura che…».
«Che?».
«Che sia come la stanza delle mogli di Barbablu».
«Questa poi! Me ne hanno dette tante, ma Barbablu… nessuno mi ha mai detto Barbablu» e non riuscì a trattenere una risata.
Lucetta lo guardò incredula. Era la prima volta che zio Maso rideva. Allora, timidamente, rise anche lei.
«Senti, Lucetta, io non sono Barbablu e in quella stanza ci sono delle cose belle, talmente belle – almeno per me – che non voglio che nessuno veda. Ci sono i miei segreti. E io ne sono geloso. Però sarei felice di farli vedere a te. Potremmo guardarli domani mattina, ti va bene?».
«Sì, zio Maso» gli rispose Lucetta in parte rassicurata.
«E ora dormi. Dormi tranquilla».

«Ci aspetta la stanza di Barbablù!» disse zio Maso cercando di essere affabile quando vide, la mattina dopo, la nipotina entrare in cucina.
La bambina iniziava a provare simpatia per quello strano zio che si affaccendava intorno alla cucina economica, che le versava il latte nella tazza, che risciacquava ciotole e posate nel vecchio lavello di pietra. Addirittura si azzardò a sedersi sul suo dondolo: «Posso, vero?».
«Come no! Ma prima porta un pezzo di pane secco al nostro amico Leone».
Rapida Lucetta gli ubbidì.

«E ora andiamo nella stanza».
Maso si levò una chiave dalla tasca dei calzoni e aprì la porta. Lucetta si accorse che era la stanza più grande della casa. Vide pareti ricoperte di libri e un enorme scrittoio sul quale facevano mostra di sé foto di donne e di animali. Riconobbe Recoleta fotografata sul dondolo di zio Maso e Leone fuori dalla legnaia. Poi si accorse di un grande mappamondo. Nei pochi spazi liberi delle pareti alcuni quadri.
«C’è molta polvere. Spero non ti dia fastidio. Ma qui non voglio entri nessuno. Nemmeno la Rita che ogni tanto vuole farmi le faccende…».
La bambina rimase in silenzio.
«Come vedi non ci sono mogli assassinate né tracce di sangue per terra».
Lucetta restava muta.
«Allora, non mi dici nulla? Ti piacciono o no i miei segreti?».
«Oh, sì. E vorrei farti tante domande… Ma papà si stanca quando gli chiedo le cose e poi mi dice che gli faccio venire mal di testa».
«Ma io non sono tuo padre. A me le puoi fare le domande. I contadini non soffrono di mal di testa».
«Ma tu sei un contadino sul genere come dice papà… anche se io non capisco bene cosa vuole dire».
«Sui generis. Tuo padre ti avrà sicuramente detto così. Vuol dire che non sono un vero contadino. Che sono un contadino particolare. Ma Arnolfo, come tutti i Gragnani del resto, ama parlare difficile».
«Ti ho sempre visto anch’io fare lavori da contadino…».
«Certo. Per scelta, non perché lo fossi».
«E poi hai una casa da povero… non come quella dei nonni in Borgo Pinti con tanti tappeti, argenti, quadri e librerie antiche».
«È una scelta anche questa. Ho odiato quella casa. Mai ne avrei voluta una simile».
«Allora anche tu hai abitato lì?».
«Sì. Era la casa di mio padre. La casa di tuo bisnonno Foscolo».
«E perché non hai mai vissuto con noi?».
«Non andavo d’accordo con mio padre. Non accettavo le sue idee. Non ero un figlio ubbidiente e devoto come tuo nonno Bernardo. Non avrei mai potuto vivere né con lui né con voi».
«Quali idee aveva tuo padre?».
«Le sue… ma voleva che fossero di tutti. Voleva imporle a tutti. Non amava, per esempio, i soldi. Li considerava volgari. Volgari loro e volgare chi ne parlava».
«Anche a me papà dice che non si deve parlare di soldi».
«Non se ne deve parlare, forse, ma bisogna averli. Io ho sempre avuto chiaro questo: che per essere liberi bisogna avere soldi. Io volevo essere libero, quindi avevo bisogno di soldi.
Così delusi in fretta mio padre quando decisi di iscrivermi a Economia e Commercio. Fu quasi uno scandalo. In una casa di persone colte un figlio che sceglie una facoltà perché prospetta lavori redditizi… ».
«Redditizi?»
«Voglio dire… lavori che fanno guadagnare».
«Allora ti piacciono i soldi come a Paperon de’ Paperoni?».
«Sei un bel tipo! Prima mi credi Barbablù, ora Paperone. Ma che testolina hai? Non amo i soldi per i soldi. Preferisco lavarmi con l’acqua piuttosto che in una piscina di dollari. Ma amo la libertà che ti possono dare. Anche la libertà di scegliere una vita da povero. È molto diverso».
«A me piace Paperino e mi è antipatico Gastone».
«Il più antipatico, però, è Topolino» aggiunse zio Maso. E tra sé: «Un piccolo mediocre Gragnani».
«Sono molto contenta che anche tu lo leggi».
«Diciamo che lo leggevo a Franco. Quando era piccolo».
«E a papà, no?»
«Nessuno mi portava mai tuo padre, quando era bambino. Forse avevano anche loro paura che fossi Barbablù… ».
«Adesso continua la tua storia».
«Già… eravamo rimasti all’università. La feci con rabbia e in quattro anni mi laureai. Mi laureai a pieni voti… che vuol dire con bellissimi voti».
«E poi?».
«Poi, visto che mio padre non parve neppure accorgersene di quel mio successo, preso com’era dalla bravura di tuo nonno al primo anno di ginnasio, decisi di andarmene».
«Dove?».
«In Argentina».
«In Argentina?».
«Lo sai dov’è l’Argentina?».
«Con la mia maestra abbiamo fatto l’Italia e l’Europa, ma non c’era l’Argentina… Forse una volta papà… no… no… non ricordo di averla vista».
«Guardala allora con me, qui, sul mappamondo… ecco, vedi, questo piccolo stivale è l’Italia e l’Argentina è dall’altra parte del mondo».
«È molto lontana. Perché hai voluto andare in Argentina?».
«Avevo bisogno di spazi immensi, di luoghi dove lo sguardo si potesse perdere, di infinito».
«Come quella poesia di Leopardi?»
«Conosci Leopardi?»
«La mia maestra ci ha raccontato che era gobbo perché aveva studiato tanto. Ci ha detto che lui si sedeva davanti a una siepe su una montagna vicino alla sua casa che era un palazzo. Perché la sua famiglia era ricca. Però poi non era più tanto ricca. E poi ci ha fatto imparare a memoria la sua poesia che s’intitola “L’infinito”».
«Beh, io non potevo accontentarmi come lui di immaginarlo, l’infinito, io lo volevo realmente. Poi non ne potevo più né di Firenze né dei fiorentini né della mia famiglia».
«È per quello che è morto nonno Foscolo?»
«No, no e non credere che sia stato io a farlo morire come mi hanno detto sia tuo nonno che tuo padre. È morto perché ha deciso di morire… Perché le persone si stancano a volte di vivere… perché molte persone vorrebbero dominare la vita e non accettano, invece, di seguirne i voleri… ».
Il dialogo tra zio e nipote procedeva parallelamente. In modo curioso ognuno seguiva un suo ragionamento. Ognuno parlava quasi per sé. Ugualmente questo dialogo parallelo aveva un non so che di intimo, creava una nuova affettività tra i due.
«Allora non sei cattivo?».
«Credi che tuo padre ti avrebbe lasciata da me se pensasse che sono cattivo? Non sono cattivo. Sono… sono soltanto diverso… da lui, da tuo nonno, dal tuo bisnonno».
«Adesso raccontami dell’Argentina… se però non ti faccio venire mal di testa».
«Te l’ho già detto che ai contadini non viene mal di testa».
«Neanche a quelli del genere come te?»
«Neanche. Allora arrivai in Argentina».
E a questo punto narrò alla nipote del suo lavoro come commercialista nella zona della Recoleta, la zona ricca di Buenos Aires e delle sue amicizie letterarie, prima con Borges rientrato da pochi anni dall’Europa, poi con le sorelle Ocampo, Victoria e Silvina.
«Mi chiedo se non ti annoino tutte queste storie… ». Maso Gragnani prendeva lentamente coscienza che il racconto per la nipote era, per lui, un ripercorrere la sua vita.
«Oh, no, zio, io amo le storie!».
Aprì quindi un cassetto dello scrittoio. Ne trasse una carta della città. La aprì. Le spiegò le varie zone. La Recoleta, ricca. La Boca, povera. Belgrano, residenziale. Palermo, dove aveva vissuto vicino a Borges, in quegli anni ancora un sobborgo. Cercò anche di spiegarle, con i versi del poeta, il fascino del sobborgo. Il sobborgo sentito come spazio quieto dell’anima. Pigro e domestico, a misura umana, una quasi-campagna dove la città si assottiglia fino a perdersi in quella meraviglia che è lo spazio argentino.
Lucetta, pur capendo poco, seguiva con grande attenzione.
«E quella signora seduta con un libro e con quelle bellissime scarpe?» chiese indicando una delle due foto.
«È Silvina. Silvina Ocampo, una scrittrice».
«È molto bella e anche elegante».
«Lo so. Le sorelle Ocampo erano belle. Avevano una grande villa a San Isidro, a nord di Buenos Aires. Un posto per ricchi. E loro erano ricche e libere».
«E tu? Eri riuscito a diventare ricco?».
«Sì, ho lavorato molto, ho guadagnato tanti soldi».
«Ti posso fare una domanda?».
«Non fai che farmi domande… e mi chiedi anche il permesso!».
«Te le faccio perché a te non viene mal di testa».
«Allora, testolina, cosa vuoi sapere?».
«Perché non ti sei sposato con Silvina?».
«Diciamo che lei non ha voluto sposare me… però… ».
«Però?».
«Però… ci siamo voluti bene… per un certo periodo».
«E allora perché non ti ha sposato?».
«Perché le donne non sanno amare come gli uomini… neanche quelle che credono di innamorarsi. Silvina veniva da una famiglia importante, aveva viaggiato molto. Io avevo tanti interessi, ma non facevo parte del suo ambiente».
«Cos’è l’ambiente?».
«Che domande difficili! Vediamo se riesco a spiegartelo… è come dire il mondo in cui vivi. Io e Silvina era come se vivessimo in due mondi diversi. E comunque, molti anni dopo, ha sposato uno scrittore del suo ambiente. Uno scrittore più giovane di lei, Adolfo Bioy Casares».
«E quella signora bionda con la frangetta?».
«Oh, quella è Greta… la mia Greta. Era arrivata da Amburgo a Buenos Aires. Amava il tango. La incontrai alla Confiteria Ideal».
«E lei era del tuo mondo?».
«Sì, più di Silvina».
«E perché non l’hai sposata?».
«Perché era già sposata… E un giorno il marito la venne a riprendere».
«E tu volevi sposare una tedesca?».
«Certo! Perché, cos’hanno i tedeschi?».
«I tedeschi sono cattivi. Hitler ha fatto ammazzare tanti ebrei. Il nonno me lo diceva che a te piacevano e che li aiutavi quando c’era la guerra».
«Ascolta, testolina, Hitler è Hitler e i tedeschi non sono tutti come Hitler. Vicino alla casa dei Monni c’era una vecchia cascina. Lì stava una guarnigione tedesca. Li ho aiutati quando me lo hanno chiesto e loro hanno aiutato me. Erano padri di famiglia costretti dalla guerra lontano da casa. Erano persone degnissime. Li avrei aiutati anche se fossero stati russi, turchi, ostrogoti. Quando si aiuta non si deve guardare in faccia a nessuno».
Lucetta guardò i libri tutt’intorno.
«Hai anche quelli dello scrittore che ha il nome di Leone?».
«Sì. Nel terzo scaffale a destra ci sono tutti i libri di Tolstoi. Più in qua quegli degli altri russi. Poi ho tutti gl’inglesi, i francesi, i tedeschi, gli spagnoli, gli americani. E, naturalmente, gli argentini. Ora basta, però. Andiamo a vedere come sta Leone e se se la sente di fare una passeggiata con noi».

La sera, quando zio Maso l’accompagnò a letto, gli chiese di leggerle “Piccole donne”.
E solo quando la nipotina si fu addormentata, Maso salì nella sua camera. Si sentiva addosso uno strano affanno. Faticò a fare le scale ripide che portavano alla sua stanza.
Nel sonno sentì i lamenti di Leone.

Il mattino successivo Lucetta trovò zio Maso al telefono.
«Sì, dottor Vitali, venga quanto prima».
Leone aveva avuto un peggioramento. Con l’aiuto di Bertino, zio Maso lo aveva sdraiato dentro la legnaia. Gli aveva preparato una specie di materassino perché il suo corpo stanco non toccasse direttamente il cemento.
All’arrivo del veterinario il cane non fece il minimo cenno per alzarsi.
Gli furono fatte iniezioni. Fu detto che c’era solo da aspettare.
Quel giorno Lucetta lesse, fece dei compiti, aiutò la Rita a stendere il bucato su un lunghissimo filo teso, dietro il poggio.
Zio Maso cucinò per la bambina. Ma era pensieroso. Non insofferente alla sua presenza, solo addolorato.
Nel pomeriggio salì i gradini di legno e si andò a sdraiare sul suo letto. Era la prima volta, in tanti anni, che si concedeva un riposo pomeridiano. Che, soprattutto, ne sentiva necessità.
E quando venne la sera, anticipò la lettura di “Piccole donne”. Poi disse a Lucetta: «Ora vai a dormire. Io vado un po’ nella legnaia da Leone. Credo che ora abbia bisogno della mia compagnia».
La bambina tacque e se ne andò ubbidiente nella sua stanzetta. Poi fu più forte di lei raggiungere zio Maso nella legnaia.
Entrando lo vide coprire il cane con un vecchio plaid a quadri.
«Perché non sei a dormire?».
«Perché voglio stare con te e con Leone».
«Allora siediti su quel panchetto di legno. Povero cane! Ho dovuto coprirlo perché ha i brividi».
La bambina scorse del dolore sul volto dello zio. Avrebbe voluto abbracciarlo, ma ancora gli suscitava un certo timore. Allora, con la sua piccola mano, iniziò ad accarezzare la testa di Leone.
Verso mezzanotte zio Maso stabilì che era ora di rientrare, visto che anche il cane sembrava dormire.

La mattina dopo Lucetta non vide nessuno in cucina. Uscì. Nella legnaia con Leone insieme a zio Maso c’erano Bertino e la Rita.
«Male, molto male. Oggi chiamerò il veterinario dopopranzo perché ponga fine alle sue sofferenze».
«Come?».
«Con un’iniezione che lo farà dormire… dormire per sempre».
«Che lo ucciderà?».
«No, non lo ucciderà. Gli provocherà una morte dolce…».
«Oh, zio Maso…» e questa volta la bambina non poté fare a meno di stringerlo con le sue piccole braccia.
Rientrarono per la prima colazione. Come sempre zio Maso si indaffarò tra cucina economica, bricco del latte, ciotole da sciacquare nel lavello.
Il resto della mattinata fu dedicato a Leone. Zio e nipote dentro la legnaia. Leone sempre coperto col plaid. La bambina china su di lui a carezzarlo. Lo zio sulla seggiola impagliata a dire, come in una litania: «Un buon cane, un bravo cane. Mai disturbato una volta. Neppure ora. Un cane dignitoso».
«Allora gli vuoi bene. È per quello che ti ho visto tanto triste?».
«Non so piangere. Non ho mai pianto in vita mia. Forse quando ero bambino… ma tutta questa dignità in un animale è davvero commuovente… anche per uno come me».
Rientrarono solo per pranzo. Al loro posto era rimasta la coppia Monni. Lo zio, mentre preparava la panzanella, disse: «Aspetterò le tre. Poi chiamerò il veterinario perché proceda». La bambina apparecchiava.
Mangiarono in silenzio. Nei pensieri di entrambi c’era solo Leone. E non c’era bisogno di sprecare parole.
Bussarono alla porta. Era Bertino che veniva a dare la notizia che il cane se n’era andato.
Raggiunsero la legnaia. La Rita stava accanto al corpo della bestia senza vita. Lucetta urlò: «Ma non è morto! È ancora vivo» quando vive Leone con i grandi occhi aperti.
Zio Maso le posò una mano sulla spalla: «No, cara, è morto. Diamogli ancora qualche carezza… di sicuro se ne accorgerà».
La Rita chiese nel frattempo se poteva usare il telefono del signor Maso – senza stare a risalire il poggio fino alla sua casa – per avvertire suo figlio, giù alla falegnameria.
Dopo neanche un quarto d’ora videro Franco arrancare sudato in bicicletta su per il sentiero. Gettò la bici e si precipitò nella legnaia. Carezzò il cane e tra le lacrime disse: «Addio, Leone, il mio unico amico».
Lucetta chiese perché Franco non avesse amici. «È un solitario o forse pretende dalle persone troppo… non si accontenta di quello che possono dare».
Poi zio e nipote rientrarono in casa.
Dopo poco li raggiunse Franco. «Maso, lo seppelliamo vicino a Recoleta?»
«Certo, certo. Pensate voi alla fossa questa volta. Io sono stanco. Chiamateci quando è il momento».

Tornò più tardi.
«Allora se volete venire… noi l’abbiamo portato con la carriola e babbo ha già scavato la fossa… ah, Maso, mia madre mi ha detto di riportarti il tuo plaid».
Lucetta e lo zio scesero insieme il declivio degli ulivi. Il vecchio diede la mano alla bambina per aiutarla nei punti più difficili della discesa.
Poi, mentre con le vanghe Bertino e Franco ricoprivano il cane, zio Maso – parafrasando il finale de “Le affinità elettive” – iniziò a dire sommessamente, quasi come una preghiera: «Così riposano Leone e Recoleta, l’uno accanto all’altra. Pace aleggia sulle loro tombe […] e sarà un momento felice, quando si ridesteranno un giorno insieme».
«Che bella preghiera, zio!».
«Non è una preghiera. Sono le parole di un grande scrittore tedesco. Sono parole di Goethe. Come vedi i tedeschi non sono solo Hitler e non sono tutti cattivi se sanno scrivere parole come queste».

**** **** **** ****

La prima cosa che fece zio Maso alla partenza di Lucetta fu di telefonare al notaio Paroli.
«Sono Maso Gragnani. Grazie, signorina, sì, proprio il dottor Paroli».
«Mi dica, Gragnani».
«È per via di un lascito… ».
«Per vostro nipote Arnolfo?».
«No, per sua figlia Lucetta. I suoi dati glieli ho già inviati. Ma lei prepari carte e ogni cosa e poi, quanto prima, venga qui da me».
«D’accordo, Gragnani». Poi, dopo aver riattaccato: «Ma chi si crede di essere con i suoi ordini. Questa poi! Adesso lascerà tutto alla bambina… A me poi che m’importa… finché paga e paga abbondantemente… ».

Alcuni giorni dopo Franco bussò. «Scusa, Maso, ma ho incontrato il postino giù in paese e mi ha dato questa per te».
Era una lettera di Lucetta.
Maso, seduto sul suo dondolo, non ebbe la forza di leggerla.
Si alzò, infatti, poco dopo per telefonare alla Rita:
«Senta, Rita, non avrebbe del brodo?».
La donna lo sentì ansimare.
«Non sta bene, signor Maso?».
«No… ».
«Non si preoccupi per la cena. Verrò io».

La Rita gli scaldò il brodo e glielo servì. Maso Gragnani lo sorbì a fatica. Poi prese la lettera di Lucetta andò a posarla sullo scrittoio. Richiuse a chiave la stanza e salì a dormire.

La mattina dopo alle 10 era ancora a letto. La Rita trovò – cosa insolita – la casa chiusa e solo verso mezzogiorno vide comparire il vecchio sulla soglia.
«Le serve qualcosa, signor Maso?».
«No, Rita, grazie».
«Si sente bene?».
«Sì, sì. Ho dormito e ora sto bene».
Ma sapeva di mentire.
Quel giorno a pranzo non mangiò. Si appisolò sul dondolo. A intervalli regolari si svegliava. Quando qualcosa nella sua mente di colpo lo scuoteva. Poi la stanchezza aveva di nuovo il sopravvento. Un’alternanza di sonno e veglia molto faticosa.
Inconsapevole – come in un sogno – ripercorreva tutta la sua vita. Un sogno che si tramutava sovente in incubo.
Alle 16 raccolse tutte le sue energie e si rinchiuse nella stanza. Aprì la lettera e lesse.

Caro zio, sono a Firenze e voglio scriverti. Sono stata contenta con te. Papà mi vuole portare sulle montagne che si chiamano Dolomiti, ma io volevo stare ancora da te perché non c’è più Leone e tu sei solo. Ma lui non vuole. Dice che mi fa bene l’aria della montagna. A me fa più bene l’aria di *** e con te sto bene. Ma papà comanda lui. Lui non mi legge “Piccole donne” perché dice che è un libro sciocco. A te non sembra sciocco. Papà vuole insegnarmi delle cose che mi annoiano. A me piacciono le tue storie di Buenosaire e dei tedeschi. Le cose che mi dice papà sono sempre noiose. Quando sono grande mi porti con te a Buenosaire? E mi fai vedere anche lo zoo dove c’è la tigre del Bengala? Poi quando sono grande voglio leggere i libri che mi dici tu. Anche quelli del tuo amico Borches. Non voglio leggere quelli della signora Silvietta perché non ha sposato te, ma quello scrittore più giovane che si chiama come Hitler.
Prima di andare a letto leggo ad alta voce le parole dello scrittore tedesco, ma che era buono che mi hai scritto sul mio quaderno rosso e fingo che sono una preghiera per Leone. Aspetto che la vacanza finisce così torno la domenica da te. Tu aspettami fuori sulla seggiola col tuo sigaro. Papà dice che fa male fumare. Non so se è vero perché tu sei più vecchio di lui e hai sempre fumato il sigaro.
Ti mando un bacio
Lucetta

Maso ripose la lettera nella busta. Prese un foglio e iniziò a sua volta a scrivere.

Cara Lucetta, ho appena letto la tua lettera, seduto allo scrittoio di quella stanza che per lungo tempo ti ha fatto paura. Quella stanza sempre chiusa, che nessuno ha mai visto e che io ho aperto solo per te. Ora sai che non fa paura. Sai che qui ci sono i miei libri, le foto di Silvina e Greta, quelle di Recoleta e di Leone.
Ho addosso il plaid a quadri con cui abbiamo coperto, nelle sue ultime ore, Leone. Ho addosso il suo odore… è tutto quanto mi rimane di lui. Ora serve a coprire me… nelle mie ultime di ore. Sì, Lucetta, sento la morte avvicinarsi. La sento, a dire il vero, proprio vicina. Se tu non fossi così giovane mi sarebbe di conforto la tua presenza accanto a me. Magari anche con una carezza data dalle tue piccole mani. Quelle belle manine che guardavo mentre percorrevano il pelo di un cane ormai alla fine. Con garbo, con delicatezza. Con amore soprattutto.
Sto facendo un grande sforzo a scriverti. Uno sforzo fisico. Ma questo sforzo te lo devo. È uno sforzo di gratitudine. Perché in quei pochi giorni trascorsi insieme tu mi hai fatto capire l’importanza, per un uomo, di avere una donna accanto. Anche se, come te, è solo una piccola donna. Proprio come quel libro che volevi ti leggessi. Quale delle sorelle March preferivi? Credi l’abbia dimenticato? Eri entusiasta di Amy e di quel suo viaggio in Europa con la vecchia zia brontolona… viaggio in cui forse trovava anche un fidanzato. Ma qui la memoria non mi aiuta più.
Rimpiango di non averti voluto conoscere prima. Di averti sempre “subita” – nelle visite domenicali con tuo padre – non tanto perché amavo la solitudine e odiavo le famiglie – ma perché ti consideravo una Gragnani.
Invece, in quei pochi giorni insieme – soli – ho scoperto che non lo eri. Le tue parole continue erano un viatico per la mia anima stanca. Così come le tue domande e le tue risate. Non avevi il peso di quei silenzi che abbiamo tutti noi Gragnani. Un silenzio incolore e inodore. Un silenzio che non nasconde nulla. Un silenzio che copre solo un grande vuoto.
Credo che questo tuo carattere, invece, che questa tua grazia naturale ti vengano da tua madre. Cécile… che bella donna. E che intelligenza. Ha fatto bene a sparire. E se l’esperienza di un vecchio vale qualcosa allora ti dico che la ritroverai, che vi ritroverete e sarà, quello, un giorno felice per entrambe.
Non l’ho mai detto a nessuno, ma quando era in attesa di te e ancora non s’era allontanata dall’Italia, un giorno la vidi arrivare. Ero seduto, come sempre quando non lavoro, sulla mia seggiola davanti a casa. Sentii il rumore di una macchina e vidi il polverone alzarsi nell’ultimo tratto del sentiero. Poi vidi parcheggiare una Nuova500 gialla di fianco a casa di Bertino. E lei discendere il poggio e venirmi incontro con un abito leggero. A fiori.
Non amavo mio padre… non lo amavo perché non aveva la clemenza di un padre, l’amorevolezza di un padre, ma l’arroganza di un giudice. Lui sapeva comunque tutto. Ciò che era bene e ciò che era male. Come un Dio in terra. Quel Dio di giustizia che mi ha allontanato da qualunque pratica religiosa. La giustizia è degli uomini. Da un Dio, che è sopra gli uomini, avrei voluto bontà e misericordia. Da quel mio padre, che io vedevo come un Dio di giustizia, mi sentivo rifiutato, abbandonato, tradito perché ero diverso da lui. Cancellato addirittura quando – io decenne – nacque mio fratello Bernardo, tuo nonno… Lui sì che era un figlio degno: docile e remissivo. Cancellato… È orribile, sai, per un figlio. Ma che vuoi… ho dovuto rassegnarmi, ugualmente, ai suoi continui insegnamenti. Li ho – diciamo così – interiorizzati. Per cui ti devo dire che non vidi Cécile, tua madre, scendere dalla piccola auto, ma la Primavera del Botticelli. E non solo per l’abito, ma anche per i capelli, per lo sguardo, per le labbra.
Mi venne incontro sorridente.
«Immagino che lei sia Maso. Lo zio Maso».
Annuii incantato dalla sua bellezza.
«Io sono Cécile. Non so se i Gragnani le hanno parlato di me… Di lei sì… come della pecora nera in una famiglia tanto per bene. Ma non mi hanno mai detto altro. Io aspetto un figlio da suo nipote Arnolfo. Non lo voglio. Non amo suo nipote. Ho fatto l’amore con lui, ma… senza amore. Succede. Ma lo farò, questo figlio per “una questione di principio”. Lo farò per loro, non per me. Credo a questo punto di essere io la vera pecora nera».
«Perché sei venuta?».
«Perché ho avuto la sensazione che lei fosse l’unico a potermi capire. Una sensazione… quasi una certezza».
«Io non capisco nulla di donne, di bambini e di famiglie».
«Non ci credo, ma non ha importanza. Quando ero piccola, nella nostra casa in boulevard Raspail, facevamo il presepe. A me era lasciato il compito di disporre le pecore. Ne avevamo tante. Tutte bianche. Una sola nera. Il posto per quella m’impegnava particolarmente. Amavo quella pecorina».
«Non mi sento proprio una pecora… né bianca né nera».
«Non le voglio rubare più tempo. Volevo solo conoscerla. Dirle che amo la vita e che un domani amerò anche questo figlio. Ma ora no. Un figlio vuol dire famiglia… anzi famiglie. Io non me la sento di vivere la vita dei Gragnani né Arnolfo di vivere una vita con me… C’è sempre la sua famiglia in primo piano. Le famiglie italiane mi spaventano. Ma un giorno, se mio figlio potrà capire e, forse, perdonare, io ci sarò».
«Dici a me queste cose come se io…».
«Gliele dico perché anch’io ho bisogno di comprensione… Anch’io ho bisogno di calore. Ora la saluto e, se mi permette, la bacio».
Non ebbi la prontezza né l’educazione di dire qualcosa. Ero tramortito. Ma tua madre mi baciò e fu, quello, l’ultimo bacio di una donna prima dei tuoi.
Non mi ero alzato quando era arrivata né mi alzai nel momento in cui se ne andò. Ero turbato. Turbato e sedotto. La seguii con lo sguardo mentre si avviava all’auto, risalendo il poggio, ondeggiante nel suo vestito leggero che lasciava trasparire il ventre ingrossato. Mise in moto e di nuovo la polvere del sentiero si alzò nascondendo quel giallo violento. Ricordo che pensai: «Che colore! Solo una come lei poteva sceglierlo. Una così cos’ha a che fare con la famiglia Gragnani dove tutto è misura, forma, disciplina… vuoto!».
Per lungo tempo il pensiero di tua madre occupò la mia mente. Poi ritornai a incancrenirmi nella mia solitudine.
Il resto è ormai storia nota anche a te. La morte di tua nonna, di mio fratello Bernardo, poi le visite domenicali tue e di tuo padre. Perdonami, ma mi sembra di sentirlo mio nipote: «Si va da zio Maso. È una questione di principio».
Ecco perché ero indifferente, impassibile, infastidito dalle vostre venute.
Lo zio Maso non è quel cattivo che per un certo tempo hai creduto. So che ora anche tu lo sai. Ed è anche per questo che con i brividi della morte addosso continuo a scriverti.
E ora veniamo a te, mia piccola donna. Cresci serena e libera. Senza “questioni di principio” da seguire. Non esistono principi e, se esistono, non sono mai così importanti da ostacolare il naturale fluire della vita. Non farti intrappolare da niente e da nessuno. E goditi il tuo corpo, senza nessun principio, ma con naturalezza. Un corpo che sarà anche un piacere per la vista altrui se dovesse, anche solo di poco, assomigliare a quello di tua madre.
Ti dissi, guardando insieme le foto nella stanza “segreta”, che sono gli uomini a innamorarsi più delle donne. Ma ci sono anche donne che s’innamorano, come la mia Greta, e allora hanno una dedizione da animale e, come gli animali, sanno usare il loro corpo.
Sai, mi sei talmente piaciuta in quei giorni trascorsi insieme che, dopo il tuo rientro in città, non ho fatto che pensare a te. L’idea della morte vicina mi libera da ogni pudore. Allora… allora… ti dico che ti ho immaginata ragazza, bella, attraente e ho provato quelle gelosie, quelle paure che i padri o i nonni provano all’idea di qualunque pratica… sì, insomma… all’idea che un uomo… così, magari solo per divertirsi, potesse un giorno sfiorarti – peggio – toccarti malamente. Poi risentivo la tua voce… ripensavo a Greta e a me e mi dicevo che può esistere anche un amore fisico sublime, che senza nulla levare al piacere dei sensi e della carne, eleva gli esseri umani. Li eleva e li completa. E allora il pensiero di un amore così anche per te mi ha tranquillizzato.
Poi mi ha tranquillizzato pensare a tua madre, a tua nonna, a te orfana – per certi aspetti – dell’una e dell’altra – eppure… eppure anche tu così forte, così prodiga con un vecchio come me, privo di quelle buone maniere a cui ti aveva abituato mio fratello Bernardo. E ho ripensato che se le donne s’innamorano meno degli uomini è perché sono, fin da piccole come te, prese da impegni più importanti. Non abbiamo condiviso, forse, lo strazio della morte di Leone? Con chi altro se no?
Grazie, Lucetta, per avermi dato il tuo tempo e la tua allegria. Grazie per non essere una Gragnani, ma per aver saputo amare anche i Gragnani.
Io, purtroppo, sono stato una pecora nera in quella famiglia. Ma i miei silenzi sono stati silenzi di rabbia, non servivano a ricoprire un vuoto, un abisso. Solo un cuore sofferente.
Lo stesso cuore che tra poco cesserà di battere e che tu hai fatto palpitare con più velocità
Sii felice
Zio Maso

PS. Ho stabilito che questa lettera ti venga consegnata dal notaio Paroli alla tua maggior età. Immagino che allora molte nebbie sulla tua vicenda si saranno dissipate, per cui non sarò io a levare il velo su verità che ti sono state nascoste perché la tua crescita fosse serena, ma che io credo tu intuissi già nei tuoi dieci anni…

Erano le 18 quando Maso Gragnani uscì dalla stanza e andò al telefono. Quel telefono al muro, che tanto aveva divertito Lucetta, ora rappresentava per lui un ostacolo. Le gambe non lo reggevano. Prese una seggiola. Si sedette. Poi nuovamente si alzò e compose il numero.
«Dottor Paroli, sono Maso Gragnani. Le devo consegnare una lettera per mia nipote Lucetta. L’aspetto domattina al più presto… Sì, alle 9 andrà benissimo. Non dopo perché ho da fare».
Gianni Paroli si rivolse alla segretaria: «Sempre per quella nipote. Ma che gli sarà preso? Poi mi mette anche fretta. Ha da fare quel vecchio! Figuriamoci… In ogni caso con i soldi che gli levo… sarò puntuale all’appuntamento».

L’abituale polverone accompagnò l’arrivo della macchina del notaio. Cosa insolita la seggiola impagliata sull’uscio era vuota. Paroli bussò e entrò in casa.
Nessuno nella grande cucina. L’unica stanza da tutti conosciuta.
«Che sia rimasto a letto? Mmh, questi signori d’altri tempi!» e il notaio salì le ripide scale di legno. Nella camera il letto era già stato rifatto. Ridiscese pensando di salire al poggio per chiedere alla Rita, ma, ritornato in cucina, si accorse che in fondo al corridoio c’era – stranamente – una luce accesa. Allora vi si diresse dicendo con tono deciso: «Gragnani, è qui?».
Silenzio.
Quando entrò nella stanza inciampò in un plaid a quadri. Poco distante, per terra, Maso Gragnani. Sullo scrittoio due buste. Una con la scritta: «Per il dottor Paroli. Da consegnare a Lucetta Gragnani, mia nipote, al raggiungimento della sua maggiore età». L’altra indirizzata Al Signor Maso Gragnani, via del Poggio, 16 – **** (Firenze). La grafia era quella ancora grande e un poco incerta di una bambina.

Il notaio Paroli consegnò – come stabilito – la lettera a Lucetta al compimento dei suoi diciott’anni.
Era il maggio dell’88. Nello stesso mese la ragazza venne in possesso di quanto lasciatole da zio Maso.

L’anno successivo, dopo la maturità, Lucetta partì da Firenze per raggiungere la madre a Parigi.
Non è dato conoscere nulla del loro incontro. Possiamo solo ipotizzare che la figura di zio Maso, con la sua pace faticosamente raggiunta, avrà aleggiato sul loro ritrovarsi.

Arnolfo Gragnani rimase, quasi vestale, nella casa di Borgo Pinti a vigilare su mobili, tappeti, quadri, argenti – quell’ “accumulo intollerabile della memoria” – nella solitudine più completa.
Inconsapevole di qualsiasi “oblio purificatore”.
Ma forse Borges non era, come per zio Maso, uno dei suoi autori preferiti.

Fiumetto, 12 agosto 2010

La foto in apertura è dell’Autrice

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