Saperi

La storia di Black

Cane e uomo si sono reciprocamente “trovati”, e sono tanti gli studi sul rapporto uomo-animale che inducono a riflettere sulla “coscienza animale”. Corrisponde dunque al vero che tutti gli esseri viventi siano dotati di una coscienza di base? Conservarsi nell’essere, naturalmente, è trasversale a tutti i viventi. Allo sguardo di un cane non possiamo sottrarci, perché rinvia a una mancanza, a una fenditura ontologica, a una frattura d’essere che ci abita da sempre

Massimo Cocchi

La storia di Black

Massimo Cocchi. Che il cane sia ritenuto il migliore amico dell’uomo in quanto, avvicinandosi a lui, ne ha acquisito affinità, è ormai storia passata, essendo stato dimostrato che caratteristiche molecolari particolari sono condivise fra uomo e cane, in particolare il German shepherd (Pastore Tedesco) e l’Alaskan malamute (Husky), ma non solo queste, anche il microbiota dimostra caratteristiche di similitudine fra il German shepherd e l’uomo con psicopatologia depressiva [Leggi nota in bibliografia] .

Tutto ciò dimostra che cane e uomo si sono reciprocamente “trovati”.

La storia di Black comincia diciassette anni fa, mese più mese meno, quando sbarcò alla Malpensa dopo un viaggio di molti chilometri, proveniente dal Messico.

Era un cucciolo di Pastore Belga del Malinois con tutte le caratteristiche che contraddistinguono questa razza e che il lungo viaggio aveva anche accentuato.

Sbarcò con mia figlia Carlotta che lo aveva trovato cucciolo abbandonato in quello strano paese che è il Messico e dal quale tornava con uno spiacevole ricordo ma con la gioia di Black.

Ricordo ancora che dopo tante ore trascorse nella gabbia nella stiva dell’aereo sembrava impazzito e correva come un matto per l’aeroporto, forse, come fa anche l’uomo dopo la reclusione: assaporare la libertà è certamente una delle condizioni più ambite da tutti.

Tornammo a casa e cominciò la lunga convivenza con Black a casa di mia madre e si consolidò anche il mio rapporto con lui.

L’avevo abituato a prendermi il polso e a giocare a guardie e ladri, l’avevo abituato o era innato il suo comportamento di cacciatore di uomini? Si dice che fosse il cane scelto dalla polizia messicana per dare la caccia ai criminali.

Egli, tuttavia, era di Carlotta e solo a lei dedicava le attenzioni della sua devozione.

Certo Black ha contribuito molto, in me, alle riflessioni sul rapporto uomo animale ma, soprattutto, a riflettere sulla “coscienza animale”, studio e ricerca che continuano tuttora nella consapevolezza che doveva esserci e doveva essere trovata quella via, misurabile o non misurabile, che fa convivere il cervello classico con quello quantistico.

Ho ragioni per credere che non siamo lontani dall’essere giunti verso quel varco oltre il quale diventa difficile seguire il percorso che porta alla comprensione del passaggio, sottile e impalpabile, che apre alla coscienza, alla dimensione della percezione e del sentimento.

Ragionando e discutendo con gli amici del QPP (Quantum Paradigm Psychopathology), il gruppo internazionale che si occupa di coscienza dal punto di vista delle varie discipline che caratterizzano lo stesso gruppo, sembra che qualche passaggio fondamentale sia risalito da profonde e, a volte, incerte considerazioni, alla luce, ma è ancora presto per dire una parola definitiva sul fenomeno “coscienza”.

Qualora anche fosse che i ragionamenti fatti potessero aprire alla migliore interpretazione dello stato cosciente, forse, non sarà mai visibile fino in fondo quell’intreccio di vie molecolari che dovrebbero dare la risposta definitiva e rimarremo nell’ambito di ipotesi, più o meno plausibili.

Colloquiando con l’amico filosofo Fabio Gabrielli gli ho esposto un mio sintetico pensiero e, come al solito, sarà compito suo giustificare il mio improbabile pensiero.

La mia idea è che tutti gli esseri viventi siano dotati di una coscienza di base, non quella coscienza che è frequentemente misinterpretata dall’uomo, ma quella coscienza che risponde alle necessità di ogni essere vivente, dai batteri alle complessità più evolute dell’animale uomo, e che rappresentano il principio più elementare che garantisce la sopravvivenza delle specie animali (animale uomo e non), cioè la “difesa”.

La coscienza, quindi, vista come “unità elementare della vita” di qualunque essere vivente nella difesa del sé verso l’incognito esterno, differentemente espressa e differentemente valutabile nella progressiva gradualità della percezione, pur tuttavia, identificabile nella sintetica ed elementare unicità di un meccanismo, che diviene comune denominatore a tutti gli esseri viventi.

Una coscienza e una percezione strutturali e comuni per ciascun essere vivente, uomo e non, che sollecita una risposta di difesa elementare per la sopravvivenza, riservandosi di complessarsi all’aumentare dei neuro correlati.

A Fabio l’impegnativo compito di elaborare, se è d’accordo, questo concetto, se non è d’accordo, con libertà massima di espressione del pensiero anche se contrario al mio.

Il successo del gruppo di amici che si confrontano all’interno del QPP dipende proprio dal fatto che non esistono sudditanze di pensiero ma esistono discussioni aperte.

Fabio Gabrielli. La questione è di imponente portata, vediamo di avanzare qualche sintetica riflessione. Che il conatus, la potenza di esistere, l’energia a conservarci nel nostro essere, a fare presa sulla realtà con la nostra vocazione sia il fondamento della vita, ce lo aveva già spiegato con mirabili argomentazioni Spinoza.

Conservarsi nell’essere, naturalmente, è trasversale a tutti i viventi, nel contempo aumentare la propria potenza, consolidarsi nell’esistenza, presuppone il difendersi da tutto ciò che la possa minacciare.

Dunque, la potenza/difesa accomuna animali umani e non umani, nel senso che quando intercettiamo lo sguardo dell’altro, quello sguardo può’ essere di conferma o di minaccia alla nostra vita.

Ma a quello sguardo non possiamo mai sottrarci, nella misura in cui esistiamo in quanto un’alterità ci guarda o ci tocca. Insomma, siamo relazione, sospesa tra accoglienza e rifiuto, godimento e repulsione, riconoscimento e minaccia.

Ma cosa dice lo sguardo, su cosa si appunta?

Lo sguardo rinvia a una mancanza, a una fenditura ontologica, a una frattura d’essere che ci abita da sempre. Nella dialettica dello sguardo si dispiega l’infinito mistero di una immisurabile eccedenza, una dismisura che rinvia al desiderio, e nel contempo all’angoscia, dell’ospitalità di una mancanza, di un’esposizione di tutta la fragilità, la vulnerabilità della pelle che vuole essere accolta. Questa mancanza genera sempre un misto di desiderio e angoscia: desiderio di accoglienza, custodia, dimora; angoscia di rifiuto, minaccia, svuotamento d’essere.

Ogni mancanza, ogni vulnerabilità esposta allo sguardo dell’altro, rimanda sempre a una indefinibile singolarità che mai si consegna compiutamente al linguaggio e alla visione di un’alterità che, nel riconoscimento o nella minaccia, non può mai vedere l’invisibile o toccare l’intoccabile. In altri termini, per quanto lo sguardo e il tocco dell’altro siano essenziali per confermare la vita, in positivo o in negativo, sono impossibilitati a calcolare, misurare, circoscrivere una singola esistenza, nella titanica pretesa di farne un adombramento di sé, una oggettivazione controllabile e fruibile a piacimento, tra godimento e morte.

Ora, siamo certi che la consapevolezza di questa mancanza – di questa dipendenza strutturale dallo sguardo dell’altro – sia solo una prerogativa umana, solo perché l’uomo è dotato di un linguaggio?

O forse il linguaggio altrodell’animale, che si radica nel suo sguardo, rinvia, per strade a noi sconosciute, a questa stessa insopprimibile esigenza di essere riconosciuto?

Massimo Cocchi. Dopo diciassette anni mi rimane di lui lo sguardo che parla.

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