Saperi

La vecchia Bologna degli anni Sessanta

Gli occhi di un bambino che racconta la felicità di una vita semplice. Una vita di strada e in strada, in via Remorsella, antica sede di postriboli, poi riscattatasi dai ricordi che, l’operosità di quella strada, poi, sembrava volerne cancellare la memoria di una poco nobile origine

Roberto Cocchi

La vecchia Bologna degli anni Sessanta

La lente su uno scorcio della vecchia Bologna degli anni Sessanta, nel suo antico centro, costellato di portici che disegnano intrecci e scambi geometrici, simboli del popolo (i palazzi nobiliari non avevano portico) raccontata con ricordi non lacrimosi e senza sdolcinature nostalgiche.

Spezzoni di vita di due genitori che hanno visto alternarsi giorni di abbondanza e di privazioni senza che mai noi figli ci accorgessimo di nulla, era frutto della serenità con cui si trascorrevano i giorni, i mesi, gli anni.

Una vita di strada e in strada, via Remorsella, antica sede di postriboli, poi riscattatasi dai ricordi che, l’operosità di quella strada, poi, sembrava volerne cancellare la memoria di una poco nobile origine.

Gli occhi di un bambino che racconta la felicità di una vita semplice, dell’avvio, sinceramente, allora, poco prevedibile di una vita di successo professionale, dove non pesavano i sacrifici che, certamente, la “mamma” e il “babbo” fecero per portare i figli alla non facile, in quei tempi, laurea in medicina.

Un ricordo che non mi ha commosso, quello di mio fratello, ma che mi ha riportato quelle sensazioni di serenità che, forse, dopo, non sempre sono state tali.

Grazie Roberto…

Massimo Cocchi

Storie di Via Remorsella 11

Anni 1950-1960

Roberto Cocchi

In queste poche pagine racconterò i primi dieci anni della mia vita…

Li ho trascorsi in via Remorsella a Bologna in una casa modesta ma circondato dall’affetto della mia famiglia…

Auguro a tutti di poter provare una tale esperienza. Era un ricordo che dovevo ai genitori che hanno permesso a me e mio fratello di raggiungere traguardi professionali insperati…

Non lo hanno permesso solo mantenendoci agli studi, ma con la loro azione quotidiana di insegnamento dell’onestà, della dignità e di tutti quei buoni principi che hanno fatto di noi veri uomini.A loro questo ricordo fatto di episodi che mi sono tornati alla mente in questo periodo di quiescenza lavorativa…

L’ultima volta che abbiamo cenato insieme è stato il Natale del 1992, fu un fatto strano che ancora non mi spiego quello di trovarci il giorno di Natale noi quattro soli, pur avendo le rispettive famiglie…

Il fatto ancora più strano fu che nessuno a tavola ne parlò, mio padre non chiese nulla, nemmeno dei nipoti che adorava.

Mio padre morì dopo un mese… Quel Natale fu l’ultima volta che noi quattro pranzammo in cucina come quando eravamo in via Remorsella… non succedeva dal lontano 1960…

Questa è una storia che parte da lontano, esattamente dal 1950… a quel tempo mio fratello Massimo era già nato da 5 anni.

I miei genitori abitavano in via Remorsella al numero 11.

Via Remorsella è una strada che congiunge la nobile Via Santo Stefano con Via San Petronio Vecchio. Il nome è antichissimo, se ne parla già nel 1296. Per un certo periodo ebbe la fama di strada di malaffare tanto che le fu cambiato nome. Il cambiamento durò poco, in tempi brevi ritornò alla denominazione originale.

Di via Remorsella parla anche Leopardi in una lettera alla sorella. In un suo passaggio a Bologna, Leopardi andò a trovare una ex cameriera della famiglia, Angelina Lobbi, che aveva sposato un cuoco e si era trasferita a Bologna e abitava in quella via. È lì che tutto inizia, almeno per me…

Pensate ero appena nato e via Remorsella balzò in cima alla cronaca, purtroppo quella nera.

Fu l’anno della banda Casaroli. (foto 2,3,) Compirono parecchie rapine a Torino, Milano e, in quel fine anno, si rifugiarono a casa di Casaroli che abitava in Via San Petronio Vecchio, una perpendicolare di via Remorsella.

Quel giorno due poliziotti andarono in quella casa per una banale verifica ma così non fu interpretata dai rapinatori che, pensando di essere stati scoperti, spararono uccidendo un maresciallo e ferendo l’altro poliziotto.

Poi scapparono per via Remorsella, armi in mano, fino a raggiungere Via Santo Stefano strada perpendicolare all’altra estremità.

Presero il tram e poco più avanti uccisero un taxista colpevole solo di non riuscire a mettere in moto l’auto.

Il finale fu tragico perché dei tre banditi due si uccisero e il solo Casaroli fu arrestato.

In tutto questo io me ne stavo beato nella mia culla, avevo circa tre mesi e mio fratello che solitamente giocava in strada con gli amici non si accorse di niente.

L’unico fu mio padre che, avendo saputo dell’accaduto, si precipitò a casa in bicicletta per controllare se stavamo tutti bene.

Tutto successe in dicembre.

A quei tempi a Bologna nevicava molto, Via Remorsella era leggermente in discesa, solitamene si formava sulla strada uno strato di neve che poi ghiacciava, mio fratello e i suoi amici facevano le gare di slittino. Ma siamo negli anni ’50 e gli abitanti di quella strada non erano soliti andare a Cortina, per questo usavano come slitta i cosiddetti preti.

Se non sapete cosa sono ve lo spiego.

Sono delle strutture in legno a forma quasi romboide che venivano messe sotto le lenzuola, poi su un suo ripiano veniva posizionata la cosiddetta suora che non era altro che una specie di vaso di ferro con il manico pieno di braci per scaldare il letto.

Chi non ha provato la sensazione di andare sotto le coperte calde, ha perso qualcosa della vita.

La Remursela, come veniva pronunciata dai residenti, è una strada stretta ma tutto sommato abbastanza lunga, 100-150 metri.

È una perpendicolare di via Santo Stefano, strada nobile di Bologna…

Ora le cose sono diverse ma all’epoca, parliamo degli anni ’50, la strada era come un quartiere, c’era tutto.

Negozi, amici, conoscenti…

Era un mondo a sé.

Paradossalmente potevi vivere senza uscirne…

Sotto l’aspetto alimentare era una sorta di supermercato, il fruttivendolo con annessa salumeria, il fornaio, la latteria.

Chi gestiva la latteria era una signora anziana, almeno a me sembrava tale, molto minuta.

Il latte veniva venduto sfuso.

Ora vi racconto un episodio che ha segnato la mia vita.

Solitamente andavo a fare la spesa con mia madre. Oltre al latte e altri prodotti caseari, la signora vendeva delle bustine che dentro avevano una sorpresa. Il costo era di venti lire.

Mia madre mi autorizzò a prenderne una. Allungai la mano nella scatola e ne presi tre sperando che mia madre non me le facesse riporre. Purtroppo nessuno se ne accorse e chiaramente lei, in buona fede, ne pagò una sola. Al ritorno a casa mia madre notò le tre buste, chiese spiegazioni e non ebbe un attimo di titubanza… Mi mandò indietro da solo a restituire le altre due. Furono momenti terribili. Il tragitto da casa alla latteria fu una specie di via crucis. Il mio cuore batteva come impazzito e arrivato al cospetto della lattaia mi scusai ma avrei voluto scomparire. Tutto si risolse per il meglio e forse lei nemmeno capì cosa era successo. La lezione però fu durissima e la dovetti affrontare da solo.

Il ricordo è ancora presente, nel descriverlo sento ancora le stesse sensazioni di allora.

Ricordo che solo la macelleria era in via santo Stefano, a un centinaio di passi…

C’era la bottega del calzolaio e un magazzino di legna e carbone gestito dalla Signora Maria detta “la carbonara”…

A questo proposito vi devo raccontare una storia.

In casa nostra i regali venivano consegnati per l’Epifania. Si trattava di due giocattoli, per me e mio fratello ma l’attesa era tanto sentita.

Alla sera dell’Epifania cresceva la tensione perché i miei genitori organizzavano l’arrivo della Befana in carne e ossa.

Io ero terrorizzato. Dopo cena iniziava la commedia. Dapprima si sentivano dei forti passi nel corridoio, poi si apriva la porta ed entrava in cucina la Befana. Io immobile, negli occhi il terrore. Mio padre solitamente non riusciva a trattenersi dal ridere, mia madre più composta, come sua abitudine, e mio fratello a ridere con mio padre.

La storia andò avanti alcuni anni, gli amici di mio padre si prestavano a questa sceneggiata.

In uno di questi anni, forse ne avevo tre o quattro, la “Befana” si fece consegnare il “ciuccio” in cambio dei regali.

Fu una cosa terribile, lei mi chiedeva di darglielo direttamente in mano, ma io non mi azzardavo e con un ditino lo spingevo verso di lei sul tavolo di marmo.

La scena la ricordo benissimo, io terrorizzato e mio padre praticamente accasciato sul tavolo che rideva in modo inarrestabile.

Ma mi chiederete, e Maria la carbonara cosa c’entra?

Eccome se c’entra. Visti i miei crescenti sospetti, stavo crescendo, mio padre giocò il jolly.

Si rivolse alla Maria e la convinse a fare la Befana, quale altra scelta poteva essere migliore!

La interpretazione e l’aspetto erano ineccepibili. Peccato che io sia un maledetto curioso.

Fu così che alzai un attimo il vestito della Befana e vidi comparire una sottoveste azzurra che avevo già visto addosso alla Maria e cominciai ad urlare: non sei la Befana sei la Maria.

Provarono a convincermi del contrario ma ormai il segreto era svelato e tutto fini con grandi risate.

Quanti anni avessi non lo so, certamente meno di dieci.

Ma ritorniamo a via Remorsella.

Di fronte al nostro portone c’era un’autorimessa, mio padre al ritorno dal lavoro si fermava sempre a chiacchierare, io quasi sempre scendevo. Mi piaceva ascoltare i discorsi dei “grandi”. Il proprietario si chiamava Sancini, me lo ricordo alto e con i baffi neri.

Adoravo guardare le auto, erano FIAT, la 1100, la 1400, tutte di colore nero. Come tutti i bambini sognavo di poterne guidare una.

Poco distante un’osteria, sotto casa una grande falegnameria, poi una cartiera e un laboratorio di pasticceria.

La falegnameria era per noi bambini molto affascinante, per andare in giardino dovevamo passare attraverso i laboratori. Quelle macchine che lavoravano il legno attiravano la nostra attenzione. Il profumo ancora lo ricordo.

La finestra della nostra cucina affacciava sul cortile interno.

D’estate i falegnami lavoravano fuori e chiamavamo spesso mio fratello: Massimo vieni giù! E lui pronto ad arrampicarsi sul davanzale per scendere, peccato che eravamo al secondo piano.

Mia madre prese una decisione drastica, lo legò, si avete capito bene, alla macchina per maglieria nell’attesa che portassero una inferriata da mettere alla finestra.

Alla fine della strada vi era un collegio di suore. Un luogo a noi bambini proibito. Ci accontentavamo solo di osservare le ragazze che ogni tanto uscivano.

Poco lontano, in via Fondata il cinema Roma, dove andavamo spesso al pomeriggio con nostra madre. Il Giovedì si andava di sera perché si poteva vedere in televisione prima dell’inizio del film, il programma “Lascia o raddoppia”, la famosa trasmissione di Mike Buongiorno. Ricordo questo piccolo televisore sotto lo schermo grande, più che vedere si cercava di immaginare le figure, la voce però era garantita!

Il nostro palazzo era di tre piani, al primo abitava una famiglia della quale ricordo poco, al secondo abitavamo noi. Al terzo una coppia di anziani, la signora si chiamava Giulia Ricchi e viveva con il marito allettato. Spesso andavo con mia madre a fare loro visita. Non posso raccontare la noia di quelle ore.

La nostra era una casa grande…

Un grande ingresso sul quale si affacciavano delle porte che accedevano a delle stanze, due di queste erano adibite a deposito di un po’ di tutto…

Un’altra entrava nella stanza dei miei genitori e l’ultima in cucina che era il fulcro della casa…

Dalla cucina si rientrava nelle stanze da letto che erano a loro volta comunicanti…Dalla cucina poi si entrava in una specie di lavatoio-cucinotto e da lì nel bagno…

Le uniche zone riscaldate erano la cucina e le camere da letto, la prima da una stufa economica, le seconde da una stufa di terracotta rossa messa a cavaliere fra le due porte…

Le finestre si affacciavano in un grande giardino.

Oltre alla falegnameria che si affacciava su questo enorme spazio, un signore coltivava moltissime piante, una specie di vivaio…

A dominare il tutto un enorme ippocastano che, almeno così si diceva, per nessun motivo poteva essere abbattuto…

Chissà se è ancora lì?

L’arredamento era molto semplice ma c’era tutto quello che ci serviva, compreso un bellissimo frigorifero di legno che raffreddava con il ghiaccio che periodicamente ci portavano dalla fabbrica omonima. Ricordo ancora quando portavano questi cubi enormi avvolti nella tela di juta.

Mio padre non ha mai voluto o forse potuto comperare un appartamento. Lui voleva abitare all’interno della circonvallazione e lì i prezzi erano altissimi…

Solamente una volta sentii i miei genitori discutere dell’acquisto di una casa ma essendo fuori porta Saragozza non se ne parlò più.

Portavano a casa sia legna che carbone, ci si scaldava con quello…

Gli inverni erano rigidi e nevicava in continuazione…

Difficile passare un Natale senza neve.

Gli spalatori, disoccupati, studenti, volontari la ammucchiavano ai lati dei marciapiedi e li rimaneva fino a marzo…

Noi a casa la raccoglievamo dai davanzali e la mischiavamo con il cacao poi ce la gustavamo…

L’inverno era faticoso, ricordo mia madre che caricava dei contenitori prima con la legna poi con il carbone. Chissà che fatica faceva…

Eppure ci si scaldava bene, tanto si viveva sempre in quelle due o tre stanze…

La stufa si scaldava talmente tanto da diventare incandescente…

Anche la merenda era diversa, non c’erano cento o mille tipi di biscotti, o le fette biscottate o non so quanti tipi di cioccolato cremoso…

Si mettevano le famose spolette di pane nel forno e sopra il pane abbrustolito un filo d’olio e sale… Quanto ci piaceva!

Il cioccolato era quello dell’uovo di Pasqua che tutti gli anni mio nonno vinceva giocando i miei anni… Di solito erano uova enormi della Nestlè e il cioccolato aveva uno spessore incredibile, la mangiavamo con il pane e spesso era la nostra merenda a scuola.

La nostra famiglia era composta da quattro persone. Oltre ai miei genitori mio fratello che, come già detto, ha cinque anni più di me e io. Con mio fratello ho sempre avuto un ottimo rapporto. Quando si è bambini cinque anni non sembrano tanti poi crescendo si avvertono maggiormente. È solo con l’avanzare dell’età che tutto si equilibra nuovamente.

Spesso si faceva, per gioco, la lotta sul letto dei miei genitori. In quelle circostanze aveva l’abitudine di tenere la lingua fra i denti, durante il gioco lo colpii sotto il mento e gli procurai un taglio sulla lingua. Fu la prima volta che mi resi conto che la lingua sanguina tantissimo. Mio padre lo portò subito alla Clinica Beretta dove lo suturarono. Quel pomeriggio andammo tutti, chi l’avrebbe detto che quell’Istituto, che apparve ai miei occhi così severo, sarebbe diventato il luogo dove avrei mosso i primi passi della mia vita professionale.

Mio padre si chiamava Luciano e lavorava all’Associazione degli Industriali e mia madre, Vera, casalinga non per vocazione.

Le era stato dato il nome Vera perché’ i suoi nonni paterni erano convinti socialisti anche se erano proprietari terrieri. Il nome del mio bisnonno, Albino Ortolani, è citato su numerose cronache del tempo, stiamo parlando dei primi del ‘900, in quanto partecipò attivamente ai movimenti socialisti che erano molto attivi nella bassa bolognese.

Per questi motivi patì anche la prigione. Molinella diede i natali a G. Massarenti, tante lotte socialiste partirono da lì.

Mio padre era una persona molto autorevole, era sufficiente un cenno degli occhi per farsi capire, mia madre mascherava dietro ad un apparente fragilità un carattere molto forte. I suoi silenzi erano come delle pugnalate nel petto.

Aveva la passione per la maglieria, in casa c’era una macchina molto sofisticata, almeno per allora, per produrre capi in lana.

Lei ci si dedicava anima e corpo trascurando, penso io, molte attività domestiche. Credo sia stato per questo motivo per il quale mio padre la indusse ad interrompere questa attività che fra l’altro era anche remunerativa.

Mia madre subì questa imposizione, erano altri tempi. Credo che non lo abbia mai perdonato.

Se ben ricordo trovò altre forme di impegno, si dedicò alla lettura, la ricordo sdraiata sul letto a divorare i suoi libri. Risultato: i lavori domestici potevano anche aspettare.

Il grembiule della scuola veniva stirato inesorabilmente alla mattina del primo ottobre.

Aveva un altro grande cruccio, non aver potuto studiare.

Lei veniva da una famiglia benestante per cui non era stato un problema economico. Raccontava che era stata una decisione per salvarle la vista, ora sembra una motivazione anacronistica ma forse per quei tempi era valida.

Certamente fu un dolore che si è sempre portata dentro.

I miei genitori venivano dallo stesso paese, Marmorta, una frazione della bassa al confine tra la provincia di Bologna e quella di Ferrara.

Il mio nonno materno Teseo aveva le macchine agricole per mietere il grano, la moglie Ada, aveva la passione dell’orto e dei fiori, anche lei un bel caratterino. La nonna paterna, Amelia, era ostetrica come pure sua madre Teresa.

11 novembre 1858 nasce l’ostetrica Teresa Gelain

Teresa Gelain, di Angelo e Caterina Briotto, era nata a Cittadella (Padova), l’11 novembre 1858 ed aveva ottenuto l’abilitazione in ostetricia, con laurea e diploma, alla Regia Università di Padova il 3 luglio 1881. Nel gennaio 1891 vinse un concorso indetto dal Comune di Molinella per un posto da ostetrica nella condotta di Marmorta e poco dopo, con delibera del Consiglio Comunale di Molinella del 30 aprile, iniziò l’attività prendendo residenza in una angusta abitazione costituita da un’unica stanza in Via Fiume Vecchio 51, assieme al figlio Francesco. Il suo stipendio iniziale era di 360 lire annue “pagabili in 12 rate uguali mensili per il servizio gratuito alle partorienti povere”. Nei suoi 36 anni di servizio a Marmorta, Teresa Gelain svolse con grande abnegazione il suo lavoro, giorno e notte, in qualsiasi situazione e condizione atmosferica, visitando e assistendo centinaia di partorienti e meritandosi la piena fiducia delle famiglie della frazione. In una nota del 29 maggio 1895 l’Assessore del Comune di Molinella spendeva per Lei queste parole: “Gode di buona stima, moralità e onestà ed è dotata di carattere e capacità professionale”. Oltre ad una forte personalità, Teresa aveva inoltre caratteristiche inusuali per le donne dell’epoca: era l’unica a fumare il toscano, e spesso, per ragioni pratiche, indossava i pantaloni e percepiva il suo lavoro come una “missione sociale”. Per questo era molto stimata anche dal Sindaco Giuseppe Massarenti. Nell’esercizio della sua attività si spostava a piedi, in bicicletta, a cavallo e, nei frequenti allagamenti, persino in barca percorrendo in lungo e in largo il territorio della più estesa frazione di Molinella sino ad arrivare ai confini con Consandolo, Argenta e Medicina. Durante la notte si faceva accompagnare in calesse da persona di sua fiducia e assisteva il parto a lume di candela. Delle 5 levatrici presenti a Molinella, era Lei che incontrava i maggiori disagi negli spostamenti. Per questo l’11 febbraio 1915 scrisse una lettera al Regio Commissario Prefettizio di Molinella, tesa all’ottenimento di un aumento dello stipendio, che così recitava: “La condotta di Marmorta è la più vasta e malagevole di tutte le condotte del Comune di Molinella…La sottoscritta deve percorrere decine di chilometri per strade impraticabili e dal proprio lavoro non trae nemmeno il necessario all’esistenza, tanto che è costretta a vivere con la propria figlia (Amelia) in un unico meschino locale che serve per camera da letto e cucina…Le famiglie più distanti si servono per comodità della levatrice di Consandolo o di Molinella e questo comporta proventi più scarsi…”. Non risulta che la sua richiesta sia stata accettata. Per ragioni di salute, Teresa Gelain fu collocata a riposo il 1°agosto 1927. Mori a Marmorta il 13 ottobre 1944.

[da Storie di Molinella, Giorgio Golinelli]

Mia nonna Amelia poi continuò a Marmorta la sua professione di ostetrica.

Il nonno paterno, Elio, non l’ho mai conosciuto, morì nel 1945 per la brucellosi.

Fra le famiglie vi era una grande amicizia e forse i miei genitori erano già predestinati a sposarsi o forse fu un grande amore, chissà.

Propenderei per la seconda ipotesi, si sposarono poco dopo il rientro di mio padre dalla guerra e si traferirono a Bologna prima presso un’affittacamere poi in via Remorsella.

Ne deduco che ci fosse una grande desiderio di vivere insieme.

Certamente in casa vi era una grande armonia, direi quasi che ci si divertisse.

A tavola non si discuteva mai, quando accadeva era per futili motivi e io dovevo trattenermi dal ridere per quanto erano ridicole quelle scaramucce.

Una cosa era certa, mia madre teneva molto bene testa a mio padre e tutto finiva con delle risate.

Si dedicava molto a noi, infatti non siamo mai andati all’asilo.

Mio fratello fin da piccolo, almeno da quando ho dei ricordi, aveva già manifestato un carattere che possiamo definire esuberante.

Molto bravo a scuola, ogni tanto ne combinava delle grosse.

Le reazioni di mio padre non erano tanto dolci, ricordo rincorse attorno al tavolo alle quali assistevo abbastanza indifferente perché tanto si concludevano in nulla.

Mia madre imperturbabile, mentre si rincorrevano, condiva la pasta e poi metteva tutti a tavola e il clima si rasserenava.

Alle 13 in punto si pranzava. Poi mentre mio padre si riposava sulla famosa ottomana, si iniziava a giocare a carte.

Il quarto giocatore era un amico di mio fratello, si chiamava Renato.

Mia madre non era molto propensa a perdere, secondo me ogni tanto ci fregava pure.

Amava la morra cinese e li dava il meglio di sé stessa, era molto abile e velocissima nel cambiare i segni all’ultima frazione di secondo possibile.

Alle 15 in punto mio padre usciva per tornare al lavoro e noi continuavamo a giocare. Piatti e tegami potevano aspettare. E così scorreva il pomeriggio.

Molte volte alla sera uscivamo per andare a prendere mio padre al lavoro, l’ufficio era in Via del Cane nel centro di Bologna.

Si andava tutti assieme al Bar Minghetti, nella piazza omonima, e si mangiava una pizza al taglio buonissima.

Ma la cosa che mi attraeva di più erano i tram, la piazza era il capolinea e le rotaie correvano circolarmente a dei giardinetti permettendo loro di invertire la corsa per poi ripartire verso San Rufillo, un nuovo quartiere di Bologna.

Poi si ritornava a casa tutti assieme.

Cosa si facesse la sera non ricordo bene, come ho già detto almeno due volte alla settimana si andava al cinema, le altre forse si giocava a carte, si parlava, diciamo che non c’era incomunicabilità come oggigiorno.

Un bel giorno, non ricordo in che anno ma certamente prima del 1958, poi vi spiegherò il perché, mio padre comperò il televisore.

Non si può immaginare quanto fosse grande, era praticamente un mobile con uno schermo inserito dentro. Fu un evento storico, la cosa più bella erano i romanzi a puntate, uno su tutti ricordo L’isola del tesoro, l’attore principale era un certo Alvaro Piccardi, poi Giallo Club presentato da Paolo Ferrari.

La trasmissione era divisa in due parti, prima lo sceneggiato con il famoso Tenente Sheridan, interpretato da Ubaldo Lay. La storia poi si interrompeva e i concorrenti in studio e anche noi da casa, però non c’era il televoto, dovevamo indovinare il colpevole. Quindi ricominciava la storia che avrebbe svelato il finale. Non vi racconto le discussioni che ne uscivano.

Io ero attirato dalle annunciatrici, le baciavo sulla bocca, chiaramente attraverso lo schermo, oppure mi sdraiavo sul pavimento per poter sbirciare sotto le gonne. Quasi un maniaco sessuale.

Prima ho detto di essere sicuro che il televisore fosse arrivato prima del 1958 per un motivo molto semplice.

In quell’anno morì Pio XII e mia madre stette incollata al televisore per vedere prima i funerali poi tutto il conclave fino alla elezione di Giovanni XXIII.

Il funerale durò un pomeriggio intero, non si poteva fiatare. Il conclave durò circa 20 giorni. Lascio a voi immaginare. Quasi come le dirette di Enrico Mentana.

Mi ricordo che accolsi con entusiasmo la fumata bianca, segno che avevamo un nuovo Papa ma anche che avremmo potuto ritornare ad una vita normale.

Come avrete capito, la mia vita scorreva felicemente. Ci si accontentava delle piccole cose.

Le vacanze, ad esempio, le passavo quasi tutte dai miei nonni materni eccetto una decina di giorni trascorsi al mare a Milano Marittima con mia madre, mia zia Fausta e i miei cugini.

Solitamente mia zia affittava un appartamento e noi ne approfittavamo della sua ospitalità.

Il mare non mi ha mai molto interessato, la cosa che preferivo della spiaggia erano i bomboloni con la crema e gli spiedini di frutta candita.

Mi piaceva anche giocare con le palline di plastica trasparente al cui interno c’erano le figurine dei ciclisti. Il mio preferito era Rik Van Looy grandissimo velocista.

Se avrete occasione di passare da Imola, davanti alla sede del Mercatone 1, potrete ammirarne una gigante con la figurina di Pantani.

Si faceva una pista sulla sabbia e poi si faceva la gara sfoderando poderosi “cricchi” con le dita alle palline. Io ero abbastanza esperto.

Durante una di quelle estati ebbi la mia prima infatuazione amorosa. Si chiamava Flavia, era una bellissima bambina, passavamo ore a parlare.

Io avevo circa otto anni, promettevo bene.

I periodi più belli li trascorrevo però dai miei nonni, prima nella casa di Marmorta poi a Molinella.

Mio nonno, come ho anticipato prima, aveva le macchine agricole per cui al mattino spesso andavo con lui nelle campagne a controllare il lavoro.

Era sempre in giacca e cravatta anche in piena estate e con l’immancabile cappello modello “panama”. Aveva fatto la prima guerra mondiale, era una persona di grande dignità e nobili principi.

Quando non andavo con lui mi godevo un letto meraviglioso con i materassi di piuma di gallina, era morbidissimo e mi ci sprofondavo dentro. Mi facevo certe dormite!

Al mattino, se ero a casa, uscivo con mia nonna, si andava a fare la spesa poi al ritorno mi preparava la colazione.

Mescolava il burro con il cacao fino a renderla una crema finissima che mi spalmava sul pane quasi caldo, ancora oggi sento il sapore.

Al pomeriggio non facevo altro che andare in bicicletta, non vi descriverò le cadute. Avevo sempre le ginocchia gonfie, mia nonna mi spalmava sopra una crema, la vegetallumina, credo si chiamasse così. Aveva un profumo buonissimo, risolveva tutti i problemi.

Di solito la sera mio nonno rincasava presto, era abitudinario. Prendeva il suo bicchiere a calice con la base colorata e si beveva un po’ di vino con una fetta di limone dentro. Era il suo aperitivo, aveva anticipato lo spritz.

Era una persona molto raffinata, mi affascinava vederlo mangiare. Usava le posate come un direttore d’orchestra usa la sua bacchetta. Non ho mai visto in vita mia mangiare un uovo fritto con forchetta e coltello. Lo divideva in due e con rapida mossa portava le due metà alla bocca senza lasciare tracce nel piatto.

Quando mangiava il pesce, mia nonna faceva un pesce gatto fritto da urlo, inforcava gli occhiali per pulirlo con la punta del coltello. Io lo imitavo mettendomi degli occhialini da sole con le lenti blu e chiaramente non vedevo nulla.

Terminata la cena c’erano alcune opzioni: mio nonno andava al Club a giocare a carte o a biliardo e io stavo in casa con mia nonna.

Solitamente rincasava presto dal club, sempre pieno di boeri che sistematicamente vinceva.

A volte con mia nonna si andava da una sua amica a vedere la televisione, altrimenti preparava il famoso carcadè, una bevanda calda di colore rossastro che tutto sommato era anche buona. Io la bevevo sempre in una tazza verde con all’esterno delle linee verticali dorate.

Chiaramente si ascoltava la radio. Mia nonna mi aveva introdotto all’arte dell’uncinetto. Ero abilissimo e sfornavo velocemente presine per afferrare i tegami caldi.

I momenti più interessanti erano quando mio nonno non usciva e mi raccontava episodi della grande guerra alla quale lui aveva partecipato con il grado di sergente. Erano racconti epici di lotta e di sofferenza.

Mio fratello andava dalla nonna paterna, credo che queste diverse frequentazioni abbiano influito nella formazione dei nostri caratteri.

Sempre durante il periodo estivo per circa una quindicina di giorni la famiglia si riuniva a casa della nonna Amelia a Marmorta. L’ingresso era una grande loggia sulla quale si affacciavano alcune porte e una scala.

Le stanze, internamente, erano tutte comunicanti fra di loro per tutto il perimetro della casa.

Davanti un grande prato interrotto solo centralmente da due siepi parallele che delimitavano uno stradello di ghiaia che portava alla casa.

All’esterno del cancellino pedonale c’erano due muretti che fungevano da panchine.

Passavamo ore seduti lì, di giorno a vedere i camion che portavano le barbabietole allo zuccherificio e ritornavano pieni degli scarti delle stesse.

La chiamavano “patona” un termine che non credo esista in italiano, emanava un odore acre che però a me piaceva.

Verso sera si guardava il ritorno delle donne dai campi, era uno spettacolo meraviglioso. Le donne, in bicicletta, avevano la testa avvolta da enormi fazzoletti che immagino servissero per proteggersi dal sole e dalla polvere. Mentre pedalavano parlavano e cantavano e sembravano non manifestare la grande fatica del lavoro nei campi.

Se avete visto il film Novecento le potete immaginare.

Alla sera, dopo cena, aspettavamo il passaggio dei paesani che in bicicletta o in motorino andavano al Bar da Puglioli.

Il più gettonato era un certo “Vitturion” che passava con una vespa piaggio 150 ultimo modello, quella già con il fanale incorporato nel manubrio. Era un mito, sapendo di essere osservato passava a tutta velocità tirandola fino al collo.

Era il figlio di un grosso proprietario terriero amico di mio nonno, quando il padre morì, lui e la sorella si giocarono tutto alle corse dei cavalli.

Marmorta era un paese costruito su un’unica strada principale, mi ha sempre dato l’idea di quelli del profondo sud in America. Era però un paese di benestanti, la terra in quelle zone è molto fertile, si dice che da quella terra possono nascere anche i bambini. Il sottosuolo è ricchissimo di acqua, tutta quella zona fu bonificata da Mussolini.

Era lì che aveva la terra il mio bisnonno Albino.

Era piena di bar, almeno cinque e tutti molto frequentati.

Mia nonna era una istituzione in paese, aveva fatto nascere tutti.

Girava sempre in bicicletta, non so come facesse a reggerla. Il sedere debordava abbondantemente dal sellino.

Di giorno quella casa era un porto di mare, ricordo tavolate numerose e soprattutto molto allegre.

Tra una tagliatella e l’altra mia nonna faceva le punture intramuscolari a quelli del paese che ne avevano necessità.

A volte non si alzava nemmeno da tavola, le faceva direttamente li.

Alcune donne del paese erano a sua completa disposizione, credo che lei non abbia mai lavato un piatto.

Era simpaticissima, energica e a tavola teneva banco. Alla fine del pranzo si fumava una bella sigaretta, un fenomeno della natura.

Terminate le vacanze si tornava tutti a Bologna in via Remorsella aspettando il Natale, periodo in cui avrei rivisto i miei nonni, almeno quelli materni.

Finalmente, purtroppo, arrivò il primo giorno di scuola. I giorni che lo precedettero furono una tragedia, piangevo in continuazione perché non volevo andare.

Era troppo bello stare a casa, alzarmi quando mi pareva, andare in giro con mia madre a fare la spesa e ascoltare le chiacchiere dei grandi.

Purtroppo mi toccò e non fu facile come non è stata facile tutta la mia carriera scolastica.

Allora si portava il grembiule nero con il colletto bianco e una riga rossa a testimoniare che ero in prima. Ogni anno una riga in più.

Fortunatamente la maestra era molto carina e con bei modi di fare per cui tutto sommato mi ambientai abbastanza bene.

Anche se la scuola era vicina a casa, mia madre mi veniva a prendere tutti i giorni, spesso ci si fermava all’edicola per comperare i miei fumetti preferiti, Tex Willer, Black Macigno, Capitan Miki e il famoso Intrepido.

Impazzivo per quei personaggi, uno di questi, Tex Willer mi procurò anche dei guai a scuola.

Prestai una copia ad un bambino di un’altra classe e questo cretino si fece beccare a leggerlo in classe e gli fu sequestrato.

Una mattina fui chiamato in Direzione. Nel tragitto dalla classe a piano terra il cuore mi batteva a mille, non capivo il motivo il motivo di quella convocazione.

Entrai nell’ufficio del Direttore, era abbastanza basso un po’ tarchiato e mezzo pelato. Il viso arcigno per il fatto di avere un’altezza facciale corta.

Più avanti negli anni avrei capito il perché. Ad un certo punto usci il giornalino, io fui molto contento, pensavo me lo volesse restituire.

Al contrario invece, con modi molto severi, mi aprì la prima pagina e mi disse: guarda, non ti vergogni!

Io guardai ma non vedevo nulla di strano. La scena era ambientata in un saloon, non capivo.

Con un ghigno nervoso mi fece notare che una ballerina del saloon estraeva una piccola pistola dalla scollatura del vestito. Io continuavo a non capire cosa ci fosse di male e lui rivolgendosi alla maestra disse: Ci pensa, non capisce! Infatti ancora oggi non capisco il perché di tanto scandalo. Se avesse saputo che tentavo di baciare le annunciatrici televisive e sbirciare sotto le gonne, mi avrebbe radiato dalla scuola.

Per fortuna tutto fini lì, anche se la mia richiesta di riavere il giornalino fu cassata con un altro di quei suoi ghigni.

Per il resto poi gli anni scolastici alle elementari trascorsero senza altri intoppi.

Anche la mia vita famigliare proseguiva bene, mio fratello andava alle scuole medie poi al liceo scientifico. Aveva un sacco di amicizie anche altolocate per cui non si giocava più come prima. Giustamente aveva altri interessi, in primis le ragazze. Cinque anni di differenza a quell’età si sentono moltissimo.

Io passavo i miei pomeriggi a studiare, poco, e soprattutto a giocare da solo o in compagnia dei bambini della via.

Il giorno terribile era la domenica, chiaramente non tutte. Quelle in cui andavo allo stadio con mio padre erano bellissime, ma ce ne erano altre nelle quali mi toccava andare con mia madre in centro a Bologna con una sua cugina. Ci si sedeva in un bar in piazza Maggiore, il mio piacere durava il tempo di mangiare il gelato, poi una noia spaventosa.

Ascoltare le chiacchiere delle due cugine mi uccideva.

Il tutto durava alcune ore, poi finalmente si tornava a casa.

Chiaramente i momenti più belli arrivavano a Natale.

Intanto si stava a casa da scuola, poi solitamente venivano i miei nonni materni.

Al di là di questo, il Natale in casa era molto sentito. Si faceva l’albero di Natale e il presepe non mancava mai. Soprattutto a Bologna nevicava sempre e non potete immaginare quanto sia bella Bologna con la neve.

Chi abitava in centro come noi era fortunato, potevi passeggiare tranquillamente sotto i portici per chilometri senza mai bagnarti e potevi così ammirare lo spettacolo della neve.

Io mi incantavo alla finestra, il giardino era un tappeto bianco incontaminato.

Dovete sapere che c’era una tradizione a Bologna, le bancarelle sotto il portico dei servi. Era chiamata la fiera di Santa Lucia. Se ascoltate Eskimo di Guccini, troverete la citazione.

Sotto questo porticato meraviglioso, si allestivano numerose bancarelle dove potevi trovare tutto quello che è necessario per il presepe e l’albero di Natale. Lo sfavillio delle palle natalizie rigorosamente di vetro non si può dimenticare, ce ne erano di tutti i tipi e dimensioni. Non parliamo delle statuine del presepe, tutte in terracotta. Noi bambini impazzivamo.

Ce ne erano altre con i dolciumi, io adoravo i croccanti sia di arachidi che di mandorle, solitamente li preparavano al momento era bellissimo guardare le noccioline mischiarsi allo zucchero e diventare una specie di blob che poi veniva lavorato, raffreddato e tagliato a rettangoli.

Io ne ero golosissimo, ma anche mia madre.

Nella piazzetta invece vendevano gli alberi di Natale di tutte le dimensioni. Te lo dovevi caricare in spalla e portatelo a casa.

Per questa operazione era necessaria la presenza di mio padre.

Un anno, ma io ero molto piccolo, andò a prenderlo a Pianoro che è un paese a circa 25 Km da Bologna verso l’appennino.

Se lo caricò in spalla e con la neve venne giù in bicicletta. Una pazzia, ma mio padre non aveva paura di niente e pur di renderci felici faceva di tutto.

La preparazione dell’albero era un rito, lo si faceva tutti assieme alla sera.

Eravamo una famiglia felice.

Però il presepe era la mia passione, adoravo le statuine e con mia madre si creava un angolo bellissimo.

Molte di quelle statuine ancora le conservo. Non so se noi siamo riusciti a trasmettere le stesse emozioni ai nostri figli.

L’antivigilia di Natale arrivavano i miei nonni, solitamente si fermavano una decina di giorni. Forse erano i giorni più belli dell’anno.

Portavano un sacco di cose, soprattutto di genere alimentare. Fra le tante ricordo due cose in particolare, i tortellini fatti da mia nonna e la torta di taglioline, un dolce classico di Molinella.

Durante quelle feste mangiavo il mangiabile compresi i famosi cioccolatini Fiat che allora erano una rarità. Tutti gli anni regalavano a mio padre una scatola da cinquanta, io ero il maggior consumatore. A volte, per non farmi vedere, me li portavo a letto e li mettevo sotto al cuscino poi quando nessuno mi poteva vedere me li mangiavo uno dietro l’altro.

Ero goloso di tutto e ogni anno il finale era già scritto, mi veniva un grande febbrone e la terapia era ormai standardizzata. Una bella pera con acqua calda, sapone e camomilla, un intruglio che nemmeno mago merlino avrebbe potuto creare. Il beneficio era immediato, qualche ora in bagno e la febbre scompariva e io ero pronto a ricominciare.

Il giorno di Natale, mio nonno mi accompagnava al cinema. Il ricordo è ancora presente ai miei occhi, si andava chiaramente a piedi, lui aveva un cappotto elegantissimo e bellissimo, scuro con varie sfumature di colore a doppio petto e il solito cappello tipo Borsalino.

Non so perché ma in quell’epoca nevicava sempre, mi prendeva la mano e si andava, ricordo ancora il rumore della neve sotto le scarpe.

Ricordo un film in particolare, Vincitori e vinti, la storia del processo di Norimberga, forse difficile da capire per un bambino, ricordo solo che ne fui affascinato e da grande me lo sono rivisto più di una volta.

Un altro ricordo mi ha sempre accompagnato.

Era un ultimo dell’anno di cui non ricordo la data esatta ma certamente tra il 1955 e il 1960…su questo periodo temporale non posso sbagliarmi perché andavo già a scuola e abitavamo ancora in via Remorsella…

Avevano regalato una grossa quantità di pesce a mio padre, mia madre non era molto contenta di doverlo pulire tutto… Si lamentava un po’ e a mio padre come al solito usciva il fumo dalle

orecchie, poi tutto rientrava e anche quella volta fu così.

La brutta notizia di quel giorno fu che diedero un incarico a mio padre di portare una lettera a Roma…

Doveva essere qualcosa di importantissimo per scegliere lui ad espletare questo incarico…

Certamente lui era la persona più affidabile dell’allora Associazione degli Industriali e le alte sfere sapevano che ci sarebbe arrivato a qualsiasi costo…

Chissà cosa c’era di così importante in quella lettera per impegnare una persona il 31 dicembre…

Non lo saprò mai…

Oggi sarebbe molto semplice fare arrivare una lettera in tempi rapidi e sicuri allora le distanze rappresentavano un problema quasi insormontabile…

Insomma, mio padre novello “pony express” parti in treno al mattino per portare a termine questo incarico…

Noi a casa con la speranza che riuscisse a tornare in tempo per festeggiare la fine dell’anno…all’epoca non c’era il Frecciarossa ma, credo, dei rapidi o dei direttissimi che tanto veloci non erano…La pulitura del pesce fu lunga e laboriosa e durò gran parte della giornata, furono le sardine le più impegnative, soprattutto come numero…

Alla fine mia madre si trovò con una montagna di pesce. Chi l’avrebbe mangiato?All’epoca abitavamo ancora in Via Remorsella, come avrete capito, era una “strada famiglia”…

Scattarono gli inviti e come nei film del realismo italiano, alla sera vennero a cena la Tiglia, l’Ersilia con le rispettive famiglie… Abitavano di fronte…

Con calma vi descriverò le loro case…

Il pesce era buonissimo…

Mia madre sapeva friggere altrettanto bene e tutti gradirono questa cena non prevista e insperata.

Mio padre arrivò quasi alla fine ma in tempo per brindare al nuovo anno…

Quando si apri la porta della cucina ci fu un boato…

Era riuscito a ritornare in tempo… Con i treni di allora fu un’impresa, la gioia di vederlo non fu mitigata dai telefonini che hanno tolto anche la gioia dell’improvvisazione, di vedere aprire una porta quando meno te lo aspetti…

Che cosa meravigliosa pensare alla gioia di quella sera per un po’ di pesce fritto senza tanta nouvelle cusine, piatti pieni e masticare…

La vedo ancora quella tavolata improvvisata, la gioia della condivisione, della vera solidarietà…

La felicità di vedere aprire la porta della cucina e apparire mio padre, non la dimenticherò mai…

Purtroppo tutte le belle storie hanno una fine e un brutto giorno arrivò la notizia che il nostro palazzo era stato venduto e ne sarebbe stato costruito uno tutto nuovo. In pratica ce ne dovevamo andare.

Credetemi fu una notizia tragica. Avrei perso tutto.

Fortunatamente i miei genitori trovarono, per il classico colpo di fortuna, un appartamento abbastanza vicino, viale Carducci. Era e lo è ancora una zona bellissima, i miei genitori erano contentissimi, io molto meno.

Ci trasferimmo e io cominciai a non stare bene. Mi mancava il fiato e facevo in continuazione respiri profondi come se dovessi sempre incamerare aria.

Intervenne la mia nonna paterna che mi volle portare ad una visita da un luminare di sua fiducia. Fui visitato accuratamente e verosimilmente il medico non riscontrò nulla.

Alla fine chiese se nella mia vita ultimamente era successo qualcosa, l’unica risposta che diedero i miei genitori fu: abbiamo cambiato casa. La terapia fu questa, tutti i giorni mia madre mi accompagnava in via Remorsella a giocare con i miei amici.

Non ci crederete, ma tutto passò. Era stato il dolore di quel distacco a provocarmi quello stato d’ansia. A risolvere un po’ la situazione venne la celebrazione della prima comunione.

Furono celebrazioni abbastanza coinvolgenti.

Mio padre organizzò una bella festa, peccato che erano tutti suoi amici e io fui mandato a letto con la scusa che il giorno dopo mi sarei dovuto alzare presto.

Era un’abitudine di mio padre festeggiare con i suoi amici degli avvenimenti che riguardavano la famiglia.

Fece così anche per la mia laurea. Per fortuna lui si divertiva moltissimo.

Il racconto finisce qui.

Lo leggeranno solo i parenti più stretti.

Non ho mai avuto grandi qualità nello scrivere, anzi al liceo ero un disastro.

Queste righe le ho scritte con il cuore, sono il racconto di alcuni episodi di quei dieci anni vissuti in via Remorsella, le esperienze di un bambino ingenuo e pieno di fantasia.

Credo abbiano contribuito molto alla mia formazione, crescere in un ambiente sereno è un’ipoteca positiva per il futuro. Non ricordo episodi spiacevoli in quegli anni, oppure, se ci sono stati, sono stati bravi a tenerli nascosti.

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