La vecchia casa
Narrazioni. La domenica se ne andavano al cinema. Lui e lei. Il cinema della piccola città non aveva comode poltroncine in velluto, ma sedili di legno. Quelli che oggi si trovano in certi negozi di modernariato. I racconti sullo schermo restavano per giorni nella memoria. Le notti erano lunghe e non sempre tranquille. Sul letto stavano ore a osservare il dipinto del soffitto
Sul letto a una piazza stavano ore a osservare il dipinto del soffitto.
Uno vicino all’altra contavano tutti gli errori, tutte le distrazioni del pittore.
Lo faceva anche da solo, lui, ma a volte la chiamava perché anche lei lo aiutasse. E la voleva sdraiata accanto a sé.
Il susseguirsi dei festoni non aveva lo stesso numero sui quattro lati, le conchiglie negli angoli non sempre rispettavano la giusta simmetria. E gli uccellini? Anche loro non si ripetevano con uniformità. Tempi brevi, eppure infiniti. Lui e lei fianco a fianco, distesi.
La sera c’era poi l’apparizione, nella finestra di fronte, degli uomini col cappello. Due uomini (a volte tre) in canottiera, col berretto in testa che mangiavano. Chi saranno stati, si chiedevano. Forse ospiti di una casa per anziani?
La domenica se ne andavano al cinema. Lui e lei.
Il cinema della piccola città non aveva comode poltroncine in velluto, ma sedili di legno. Quelli che oggi si trovano in certi negozi di modernariato.
I racconti sullo schermo restavano per giorni il loro argomento preferito: la signora bisbetica con l’autista nero, la vecchia zia cattivissima, la coppia che sarebbe morta crollando a terra insieme al lampadario.
Non tornavano mai a casa subito, ma, come per mantenere l’incanto della narrazione, si perdevano nelle varie corti della città. Varie e con i nomi più disparati: Corte Pesce, Corte Portici, Corte delle Uova, Corte dell’Angelo, Corte Marovelli, Corte del Gallo, Corte Campana, Corte Pini, Corte Sbarra.
Corte della Neve era quella vicina a casa loro e, quando la raggiungevano, sapevano che era arrivato il momento di rientrare.
Le loro notti erano lunghe e non sempre tranquille.
Lui spesso piangeva svegliandola. Lei era giovane e rinunciare al sonno, che le crollava addosso al termine di giornate faticose, era un supplizio.
Pure era nuovamente su quel letto stretto per due, per consolarlo, per carezzarlo.
Il dolore alle orecchie era troppo forte per lui. Lei, dopo avergli messo le gocce, se lo stringeva e si portava il corpo piccoletto di lui, del suo bambino, sul suo ventre. «Ecco», gli diceva, «vieni sulla tua vecchia casa». Quel contatto così naturale e intimo ne placava il dolore. Il bimbo si addormentava.
Con gli anni quella stanza era rimasta vuota. Ugualmente, fuori dalla porta, era rimasta la placchetta metallica con una pipa e il suo nome. Un caso curioso averne trovata una con quel nome così inusuale. Il nome del suo bambino.
Lui ancora dormiva in quella camera, in quel letto a una piazza, quando tornava a trovarla.
Chissà poi se tornava a trovare lei o i luoghi, le corti della sua infanzia.
…
A lei capitava a volte, in preda a una insostenibile nostalgia, di sdraiarsi ancora su quel letto, di seguire i disegni del soffitto, di chiedersi se un giorno vi avrebbe dormito un nuovo bambino (o bambina?), il bambino di lui, che avrebbe pianto per un dolore fisico o per il pianto esistenziale dei bimbi e che lei avrebbe consolato stringendolo e mettendolo a contatto col suo ventre – reso dagli anni più comodo – e a cui avrebbe detto: «Ecco, vieni sulla vecchia casa, la vecchia casa del tuo papà».
Lucca, 16 marzo 2021
In apertura, foto di Mariapia Frigerio
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