L’agricoltura capitalistica del nemico di Cartagine
I grandi agronomi della storia. Tanto la Grecia quanto Roma conobbero una fioritura rigogliosa di opere agronomiche. Le date della loro composizione si dispiegano tra il secondo secolo avanti Cristo e il secondo dopo Cristo, e possiamo presumere si tratti delle espressioni più significative che le scienze agrarie seppero produrre nel lungo arco della civiltà di Roma. La più antica porta il suggello di Marco Porcio Catone, l'inflessibile censore, l'implacabile alfiere della distruzione di Cartagine, di cui proclamò la necessità di distruggere ogni vestigio, salvando solo il trattato agronomico di Magone, il maestro di agronomia della cultura punica
Precetti tecnici e formule magiche
Tanto la Grecia quanto Roma conobbero una fioritura rigogliosa di opere agronomiche: se dalle ceneri delle biblioteche dell’antichità di tutta la letteratura agronomica greca non è sopravvissuta che una modesta antologia redatta in età bizantina, delle opere scritte in latino sulla coltivazione e l’allevamento quattro testi hanno sfidato distruzioni e oblio. Le date della loro composizione si dispiegano tra il secondo secolo avanti Cristo e il secondo dopo Cristo, e possiamo presumere si tratti delle espressioni più significative che le scienze agrarie seppero produrre nel lungo arco della civiltà di Roma. La più antica porta il suggello di Marco Porcio Catone, l’inflessibile censore, l’implacabile alfiere della distruzione di Cartagine, di cui proclamò la necessità di distruggere ogni vestigio, salvando solo il trattato agronomico di Magone, il maestro di agronomia della cultura punica, di cui possiamo presumere molti precetti siano trasposti nell’operetta cui volle legare la propria fama di patrizio romano non meno premuroso, secondo la tradizione, per gli impegni dell’agricoltura che per quelli della guerra. Una tradizione che costituiva, in realtà, uno stereotipo: il patrizio romano, ha osservato un arguto storico ottocentesco, era, in realtà, assai più premuroso per la terra altrui, la cui conquista era la sua aspirazione suprema, che per la propria, che abbandonava nelle mani di clienti e mercenari, da cui pretendeva soltanto che pagassero puntualmente il canone di affitto.
Il libro è costituito da 162 capitoletti nella cui successione non è possibile individuare alcun filo logico: gli storici della letteratura hanno discusso a lungo sulla corrispondenza del testo alla sua forma originaria, che qualcuno ha supposto fosse più organica e più consistente. Gli stessi capitoletti non sono, spesso, che raccolte di precetti male connessi: dimostrando l’animo del padrone ansioso di controllare i dettagli delle opere dei sottoposti, meno attento alla coerenza dei dettagli a un disegno organico, Catone detta le proprie massime mescolando consigli per la vendita delle olive a precetti per assicurarsi cani più animosi, l’elenco delle suppellettili di cucina e quello degli abiti invernali per gli schiavi, la ricetta di una mistura per guarire la tosse dei buoi e la formula di un incantesimo per propiziare gli spiriti della terra. Anche dalla farragine dei precetti prende corpo con nitidezza, tuttavia, il modello secondo il quale il vecchio censore suggerisce al patrizio cui le armi e la politica abbiano consentito di acquisire proprietà terriere come organizzarle: si tratta di un modello di impresa volto eminentemente alla produzione mercantile, concepito per rispondere alle esigenze di fruttuosità dei capitali che vi sono investiti.
Il maggiore degli agronomi romani, Lucio Moderato Columella, colui che due secoli dopo Catone suggellerà il capolavoro della letteratura agronomica latina, apre il proprio libro dedicato all’allevamento ricordando che a chi gli avrebbe chiesto come sfruttare la propria terra per diventare ricco rapidamente Catone avrebbe risposta: “Alleva bestie con cura”. Replicando l’interlocutore con la domanda di cosa fare decidendo di accontentarsi di un guadagno modesto, il vecchio censore avrebbe risposto: “Alleva bestie con cura minore”, rispondendo, alla domanda ulteriore di cosa fare per un guadagno senza preoccupazioni: “Alleva bestie senza cura.” Alle tre asserzioni Columella appone rilievi oltremodo significativi, osservando che, bene condotte, anche attività agrarie diverse dall’allevamento assicurano guadagni adeguati, e additando nella terza risposta un mero paradosso: male esercitata qualunque attività rurale sarebbe incapace di assicurare un reddito.
Qualsiasi sia la fondatezza dell’aneddoto riferito dallo scrittore posteriore, esso offre un termine di giudizio significativo dell’insegnamento agronomico di Catone, nella successione dei cui capitoletti non troviamo certamente il profilo di un allevamento che possa dirsi attività imprenditoriale. Sappiamo che dopo la guerra annibalica nelle regioni d’Italia fatte deserto dalle distruzioni dei contendenti, dilacerato l’ordito della proprietà familiare che faceva dell’Italia vivaio di soldati contadini, i patrizi dilateranno l’allevamento transumante, al cui dilagare, tra le marine d’Apulia e i pascoli montani del Brutium, nessuno degli ultimi possessori contadini sarà in grado di opporsi. Della pastorizia migrante, autentica attività commerciale, che si diffonderà nei decenni posteriori, nell’opera di Catone non troviamo, tuttavia, la testimonianza, mentre nell’allevamento stanziale, attività parallela alla coltura dei cereali, della vite e dell’olivo, propugnato da Catone non possiamo individuare un’attività tale da vantare titoli di impresa commerciale. Di un’autentica attività commerciale il vecchio censore delinea il modello, invece, illustrando la fisionomia di un’azienda olivicola ideale e di un’azienda viticola concepita, anch’essa, come vera impresa economica.
Veterani e schiavi punici
L’azienda olivicola di Catone si dilata su 240 iugeri, 60 ettari, una misura che corrisponde perfettamente a due quadrilateri della centuriazione, la classica ripartizione romana delle terre conquistate per l’insediamento di colonie di veterani. È una superficie ingente: al congedo un soldato fortunato riceveva 16 iugeri, un centurione poteva sperare di ottenerne 32. Dalla superficie coperta dagli olivi di Catone avrebbero potuto ricavare il farro, il vino e l’olio per la famiglia da quindici a trenta veterani, che avrebbero lasciato ai figli, con la terra, l’obbligo di servire la patria in armi. Tutore delle virtù dell’antica latinità, Catone non si preoccupa, tuttavia, che la terra produca soldati. Qualche storico latino ha imputato all’austero censore, per il proprio titolo guardiano del rispetto, da parte dei colleghi senatori, delle norme di classe, di avere partecipato, tramite un prestanome, al lucroso commercio degli schiavi, attività indecorosa, che la legge vietava ai membri del Senato. Le sue piante di olivo sono curate, infatti, da schiavi, erogatori di lavoro che la conquista di Cartagine ha assicurato in abbondanza, ma che non si riproducono, siccome le donne rifiutano di procreare figli segnati dal proprio infame destino, imponendo, per la continuità della coltivazione, nuove guerre, che un giorno l’Italia, coltivata da schiavi, non avrà più i soldati per combattere.
L’elenco degli schiavi di cui dovrà essere dotata l’azienda olivicola comprende il massaro, il servo di fiducia cui è rimessa la direzione, e la moglie, cinque braccianti, tre bifolchi, un porcaro, un pecoraio e un cavallante. È, per un’azienda arboricola, un elenco singolare: quasi tutti i dipendenti sono addetti, infatti, alla cura del bestiame. Per spiegare l’apparente paradosso si deve rilevare che le piante dell’oliveto sono disposte su sesti molto radi, e che il terreno sottostante viene regolarmente arato e seminato. Dal libro di olivicoltura di Columella, più ricco di dettagli agronomici di quello di Catone, apprendiamo che i coltivatori romani non potano l’olivo che ogni otto anni, che la pianta non produce, quindi, che ad annate alterne: nell’annata di “scarica” il terreno sottostante l’arboreto viene sottoposto, perciò, ad un maggese nudo, che favorisce l’accumulo nel legno di sostanze nutritive, quindi la produzione dell’anno seguente, nel quale alla “carica” delle piante corrisponderà la coltivazione di un cereale e di un legume, sfruttando il terreno che riposerà, insieme alle piante, l’anno successivo. Sul maggese, tra un’aratura e quella seguente, potranno pascolare pecore e maiali, che utilizzeranno anche le stoppie.
È verosimile pensare che i campi piantati ad olivi si compongano, nel tipico scenario dell’Italia centrale, a boschi di querce, che potranno essere di pertinenza del proprietario dell’oliveto o di proprietà pubblica, quindi aperti al pascolo di tutti i poderi limitrofi. Nel primo caso non sappiamo se la loro superficie debba essere sottratta o aggiunta alle dimensioni dell’oliveto: per avanzare supposizioni sensate si dovrebbe conoscere almeno la consistenza del gregge e della mandria dei maiali, che Catone non definisce.
La stima dell’investimento
Duecentoquaranta iugeri, tredici schiavi, quattro o cinque paia di buoi, uno per ogni bifolco più qualcuno di riserva, un gregge di pecore e una mandria di maiali: seppure l’azienda modello di Catone non superi la metà della superficie di cui le leggi agrarie dei Gracchi avrebbero consentito la proprietà ad un possidente romano, ha dimensioni sconfinate rispetto ai 2 iugeri della proprietà romana dei tempi di Romolo, agli 8-32 che costituiscono, al congedo, la misura delle assegnazioni ai veterani. Usando i parametri del tempo di Columella, quando uno iugero di terreno da vigneto costerà 1.000 sesterzi, e un buono schiavo 7.000, la proprietà dell’oliveto di Catone impone l’investimento di oltre 300.000 sesterzi per il suolo e gli schiavi, cui dovranno aggiungersi le spese di costruzione dell’oleificio, che Catone vuole dotato di una buona mola e di una batteria di quattro torchi, e quelle per l’acquisto dei buoi, delle pecore e dei maiali: non è difficile immaginare che il totale possa superare il mezzo milione di sesterzi, un capitale ingente.
La preoccupazione per la redditività di quel capitale spiega i precetti di Catone per imporre agli schiavi tutto il lavoro di cui siano capaci, ottenere dalle piante tutta la produzione possibile, dall’acquirente delle olive il pagamento dell’ultima goccia di olio: sono le preoccupazioni comprensibili di chi abbia realizzato un grande investimento, e ne misuri l’esito in termini di interesse sul capitale. Possiamo individuare in quelle preoccupazioni, quindi, un’espressione di spirito capitalista? Possiamo dire, allora, che l’azienda che descrive Catone è impresa capitalistica? La domanda è spontanea: darle risposta impone di schierarsi tra le trincee da cui gli storici hanno combattuto la più aspra guerra terminologica. Per i cultori di storia romana che si sono ispirati alla dottrina di Karl Marx definire capitalista l’imprenditore agricolo romano costituisce la più grave delle apostasie: secondo la successione degli stadi della civiltà dell’ideologo di Treviri, una classificazione rigida quanto quella dei coevi filosofi positivisti, un’economia schiavile non può essere capitalistica, siccome il capitalismo sarebbe stadio dell’economia che seguirebbe l’economia schiavile, secondo meccanismi inviolabili come leggi fisiche, di ere intere. Secondo storici di ispirazione più libera, ad esempio Michael Rostovzeev, le conquiste di Roma aprirebbero, nel Mediterraneo unificato economicamente, una straordinaria stagione capitalistica, di cui sarebbe legittimo vedere i prodromi già dopo la sconfitta di Cartagine.
Fissando la storia per ricercare, senza pregiudizi, antinomie e analogie tra epoche diverse, è difficile non rilevare che se il capitalismo moderno nasce dopo che l’Inghilterra ha sottratto all’India le immense riserve d’oro accumulate in millenni di scambi internazionali favorevoli, Roma inizia la stagione della propria opulenza sottraendo a Cartagine le più ricche miniere di metalli, compresi quelli preziosi, del Mediterraneo, agli stati orientali conquistati successivamente i tesori accumulati nei templi in secoli di splendore. Oltre ai metalli preziosi dai paesi conquistati a differenza dell’Inghilterra Roma riporta anche miriadi di schiavi, ma nonostante la duplice spoliazione alimenta, nelle colonie, una prosperità economica che l’Inghilterra si premurerà di sviluppare solo sul suolo metropolitano. Il capitalismo romano sarebbe stato fenomeno più pervasivo di quello inglese! Per i cultori dell’ortodossia marxista l’eresia sarebbe addirittura duplice!
Ma la storia presenta analogie, non ripetizioni, e per definire le analogie tutti i termini sono, inevitabilmente, imprecisi: supponendo Roma capitalista, il capitalismo degli schiavi, sarebbe, comunque, diverso da quello inglese, il capitalismo del vapore. Ma pretendere di risolvere una disputa verbale dai presupposti dottrinali tanto complessi sarebbe proposito vano: quanto si può rilevare, a conclusione dei rilievi sulla cornice economica entro la quale si distende l’oliveto di Marco Porcio Catone è che, applicando all’economia antica un termine coniato per definire la realtà economica moderna, Rostovzeev ci ha proposto un parametro di straordinaria efficacia per comprendere la vita economica del più grande degli imperi di cui ricordi l’esistenza la storia dell’Occidente.
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