Le agricolture multi-ideali
Per vivere consapevolmente il presente, dovremmo coltivare una conoscenza della realtà che unisca il passato con l’oggi. Ecco allora la significativa testimonianza di una importante manifestazione che si svolse a Taccone, in Basilicata, quarant'anni fa, promossa dalla Costituente Contadina. Vennero giovani da tutte le regioni. Cosa accadde? Si tardò purtroppo a comprendere il senso delle trasformazioni che si stavano verificando negli anni Settanta nelle campagne
La Costituente Contadina organizzò il 14 – 15 – 16 ottobre 1977, nel Borgo Taccone di Irsina (MT), la manifestazione nazionale “Occupazione giovanile e sviluppo dell’agricoltura”. L’iniziativa è stata rievocata nel Convegno promosso dall’AGIA-CIA e svoltosi a Tricarico il 13 -14 ottobre 2017. Questa è la testimonianza che ho inviato agli organizzatori dell’incontro.
Cari amici,
a quarant’anni dalla manifestazione di Taccone promossa dalla Costituente Contadina, avete fatto bene ad organizzare una riflessione sul tema “Giovani, agricoltura, impresa”, analizzando i cambiamenti intervenuti in questi decenni per poter guardare con ragionevoli speranze al futuro.
Ebbi la fortuna, in qualità di presidente provinciale dell’Alleanza Contadini di Potenza, di seguire direttamente sia la fase di preparazione che quella di gestione di quell’evento. Ricordare deve significare ripensare criticamente. Per vivere consapevolmente il presente dovremmo coltivare una conoscenza della realtà che unisca il passato con l’oggi, e con ciò a cui siamo rivolti nell’attesa.
La manifestazione di Taccone s’inseriva in un fenomeno non solo nazionale ma che in Italia ha avuto una sua consistenza e specificità: la nascita e lo sviluppo di cooperative giovanili. Si trattava di una modalità sperimentata dalle nuove generazioni per “creare lavoro” in diversi settori, dall’agricoltura all’artigianato, dai servizi sociali e sanitari a quelli connessi con aspetti culturali, ambientali e per il tempo libero, fino ai servizi alle imprese nel campo della progettazione, dell’informatica e dell’assistenza tecnica. Furono costituite 1.248 cooperative giovanili con circa 16 mila soci.
Quel movimento nasceva da spinte diverse. Nelle campagne sicuramente prevaleva una pressione indotta dalla sensibilità ecologica e dal bisogno di legami comunitari da parte, soprattutto, di giovani laureati e diplomati disoccupati, professionisti che non trovavano occasioni di lavoro, studenti, i quali guardavano all’agricoltura non già con gli occhi dei padri e dei nonni che erano scappati via per le condizioni di miseria, ma incuriositi e affascinati dalle nuove opportunità che, in un conteso di relativo benessere, il settore presentava in termini di diversificazione della qualità dei prodotti e di sperimentazione di nuovi servizi di accoglienza.
Nelle campagne erano venute ad addensarsi le prime forme di resistenza alle idee che erano sottese al modello distruttivo di capitale umano e di risorse naturali che aveva provocato la crisi ecologica. Tali forme si caratterizzavano in modelli di conduzione agricola in cui gli aspetti irrinunciabili della condizione urbana, dalla fruizione più facile delle diverse forme della conoscenza e della cultura all’adozione di modelli di abitabilità rispettosi della privacy, s’integravano con le opportunità che solo i territori rurali erano in grado di offrire.
Anche i figli dei contadini che tornavano dalle università portavano con sé quel bisogno di sperimentare modalità di fare agricoltura diverse da quelle che avevano visto protagonisti i loro genitori, alle prese coi processi di modernizzazione dell’agricoltura fondati esclusivamente sulla produttività e l’efficienza. E questi nuovi agricoltori istruiti dialogavano coi giovani di provenienza urbana.
Nel Mezzogiorno il fenomeno si presentava con caratteristiche proprie e coerenti con una tradizione rurale che poneva al centro le piccole e medie città e gli insediamenti abitativi accentrati, come parti integranti e non separate della campagna. La nascita dei poli industriali e i fenomeni di ampliamento delle grandi e medie città meridionali avevano creato lavoro nelle fabbriche, nell’edilizia e nel pubblico impiego con inquadramenti bassi e avevano anche favorito il miglioramento della piccola azienda coltivatrice.
Invece, nelle aree più emarginate delle campagne meridionali, le forme di part-time che si erano diffuse non avevano trovato la complementarietà nel mercato del lavoro ma in regimi assistenzialistici che sommavano varie provvidenze, dalle indennità di disoccupazione alle pensioni di invalidità. E difficilmente le rimesse degli emigrati o i risparmi investiti al rientro trovavano impiego nell’azienda agricola.
Le iniziative di lotta, come l’occupazione delle terre pubbliche di quel periodo, non avevano, dunque, nulla a che vedere con le forme assunte dal movimento per la terra degli anni Quaranta. Ma se è vero questo, allora perché si è andati a collocare l’iniziativa in un borgo abbandonato della riforma agraria del 1950?
L’intento non era quello di stabilire una sorta di connessione o parallelismo tra assalto al latifondo (per frazionarlo in poderi da assegnare a contadini senza terra) e occupazione di terre pubbliche (per darle in gestione a cooperative giovanili non solo produttive ma soprattutto di servizi alle persone e alle comunità). L’intento era, invece, quello di far risaltare un aspetto critico della riforma agraria nelle aree collinari; aspetto che ne aveva decretato il parziale fallimento: a differenza di quanto era avvenuto nelle aree di pianura soprattutto a seguito delle opere infrastrutturali della Cassa per il Mezzogiorno nei primi dieci anni di vita, nelle aree collinari non si erano costituite nuove comunità e, dunque, in collina la riforma non aveva realizzato i suoi obiettivi.
Il richiamo alla Riforma agraria, collocando l’iniziativa a Borgo Taccone, avrebbe dovuto dirci che la coesione sociale e i legami comunitari precedono lo sviluppo e non sono l’esito dello sviluppo. E tale messaggio resta ancora valido oggi.
Nel movimento degli anni Settanta convergevano anche le iniziative per conquistare i diritti civili, rinnovare i servizi socio-sanitari, chiudere i manicomi, affrontare in modo nuovo la tossicodipendenza e la condizione carceraria. La Basilicata era tra le regioni italiane quella che maggiormente esprimeva tali pulsioni. A Matera, le amministrazioni di sinistra che si erano insediate alla Provincia e in molti Comuni a seguito delle elezioni amministrative del 1975, avevano creato ulteriori opportunità di sviluppo della cooperazione, soprattutto nel settore dei servizi alla persona, dei servizi di vigilanza e di pulizia e di quelli informatici.
Nel 1977 si era approvata la legge 285 sull’occupazione giovanile, che prevedeva sostegni alle cooperative in diversi settori, compresa l’agricoltura. Nel 1978 si approveranno la riforma sanitaria, la legge 180, ispirata da “Psichiatria Democratica”, la legge sulle terre incolte e mal coltivate e la legge “Quadrifoglio”. Tutte queste iniziative legislative facevano parte del programma formulato dai partiti che sostenevano i governi di solidarietà nazionale. Il sen. Angelo Ziccardi era tra i più attivi protagonisti di tali iniziative parlamentari. Nel suo libro “La politica come impegno collettivo”, egli evoca l’iter parlamentare della sua prima proposta di legge sull’occupazione giovanile, presentata al Senato nel 1973 tra lo scetticismo dei suoi colleghi, e il movimento variegato che fu necessario costruire per giungere alla sua approvazione, quattro anni dopo.
S’incrociavano diverse spinte culturali che davano vita a cooperative agricole con la presenza di persone con disabilità psichica, ex tossicodipendenti, ex detenuti, anticipando il fenomeno che avremmo poi inquadrato come “agricoltura sociale”. Era questo fermento, anticipatore e innovativo, alla base di quel movimento.
L’iniziativa di Taccone era stata preceduta da convegni organizzati dalla Costituente contadina in quasi tutte le regioni italiane sulla base di piattaforme volte ad ottenere i suddetti provvedimenti legislativi. Naturalmente convivevano ispirazioni ideali e politiche diverse. E anche forti preoccupazioni da parte di quei settori politici che non sapevano (o non volevano) distinguere i movimenti anti-sistema dai movimenti civili che si battevano per un riconoscimento di esperienze innovative in ambiti diversi, dall’agricoltura ai servizi socio-sanitari, dalla cultura all’organizzazione del tempo libero. Si temevano derive movimentiste che avrebbero potuto alimentare indirettamente il terrorismo.
Tali timori erano presenti anche nel gruppo dirigente nazionale della Costituente contadina e si erano accresciuti nell’estate del 1977, dopo i fatti di violenza che si erano verificati nelle principali università italiane. Ma, in realtà, siffatte paure nascondevano, forse, ben più radicati limiti nel comprendere i caratteri del fenomeno che avevamo dinanzi. All’interno delle forze politiche e sociali erano in pochi ad avvertire l’importanza di queste novità. Gerardo Chiaromonte, nel ricostruire le vicende politiche del triennio 1976-1979, ha ricordato un convegno dell’Istituto Gramsci organizzato nel 1977 in collaborazione con la Federazione giovanile comunista sul tema “La crisi della società italiana e le giovani generazioni”, di cui egli era stato relatore. Per testimoniare un passaggio essenziale della sua riflessione, il dirigente comunista scrive: “Il crollo della prospettiva di ingresso nel processo produttivo per tantissimi giovani, la sensazione di non poter proseguire a lungo in certi modi di vita, la necessità drammatica di rinunciare ad abitudini o ad aspirazioni che sembravano fondamentali per dare un senso alla vita, il caos crescente della scuola e dell’università, la caduta dei valori tradizionali e al tempo stesso il non affermarsi di nuovi valori avevano portato a fenomeni di emarginazione e anche a quel diffusissimo senso di malessere, e anche di disperazione e di angoscia, che colpivano una parte grande delle nuove generazioni, tanto da creare una frattura tra queste e il regime democratico”. E Chiaromonte ricorda che da questa consapevolezza la sua relazione faceva derivare una serie di indicazioni politiche concrete, tra cui l’impegno per applicare la legge 285 sull’occupazione giovanile. Ma tranne in alcune realtà, come la Basilicata e in qualche altra regione, quasi dappertutto i movimenti giovanili dei partiti di sinistra non s’impegnarono su questi nuovi sentieri d’iniziativa e di lotta proposti da Chiaromonte.
Nonostante le resistenze culturali e politiche, a ottobre si decise di tenere comunque l’iniziativa di Taccone. Vennero giovani da tutte le regioni. Anche gruppi che avevano partecipato ad iniziative violente nelle università e nelle grandi città furono presenti alla manifestazione, ma in modo pacifico e rispettoso. Assistettero gli inviati dei maggiori organi di stampa e della televisione. Un successo dal punto di vista della partecipazione e della comunicazione.
Ma dell’organizzazione agricola che l’aveva promossa vi presero parte solo alcuni dirigenti nazionali di secondo piano. Quando due mesi dopo, si svolse il congresso di fondazione della Confcoltivatori, nessuno evocò l’iniziativa di Taccone che venne rimossa. Sono rimasti solo gli articoli pubblicati da “Nuova Agricoltura” e dai quotidiani.
Se si vanno a guardare i titoli delle iniziative che si svolsero a Taccone e i nomi delle personalità della cultura che furono coinvolte, si può facilmente notare che, in quella occasione, gli organizzatori fecero un tentativo di collegare le esperienze di comunità degli anni Cinquanta con le ricerche antropologiche e sociologiche di Ernesto De Martino e di altri studiosi nel Sud, nonché con quelle che Nuto Revelli svolse tra i contadini delle Langhe. Si trattò di un tentativo originale di costruire un pensiero sui temi ambientali e sui rapporti tra agricoltura e cultura con approcci completamente diversi da quelli d’importazione anglosassone e che si collegavano agli approcci sperimentati prima del boom economico. Approcci combattuti o lasciati ai margini da quelle forze trasversali (la Dc, il Pci e i sindacati) che di fatto sposarono l’idea di Pasquale Saraceno di promuovere lo sviluppo del Sud con un processo di industrializzazione forzata dall’alto.
Tardammo nel comprendere il senso delle trasformazioni che si stavano verificando negli anni Settanta nelle campagne. L’Insor di Corrado Barberis aveva già pubblicato ricerche e studi sul part-time, le trasformazioni delle famiglie agricole, l’avvio di attività agricole da parte di gruppi di provenienza urbana, l’importanza della tipicità dei prodotti nell’evoluzione dei gusti e degli stili alimentari. Noi della Confcoltivatori facemmo i primi convegni sui temi del rapporto agricoltura, ambiente e territorio, confrontandoci con queste novità, solo nella seconda metà degli anni Ottanta con “Spoleto Uno” e “Spoleto Due”, cioè con due convegni a carattere interdisciplinare, le cui risultanze rimasero per lo più inapplicate.
A Taccone si espressero inedite sensibilità culturali capaci di percepire che qualcosa di nuovo stesse avvenendo o sarebbe avvenuto a breve nelle campagne. Ma ci fu da parte nostra un’enorme difficoltà a cogliere questa novità e a dare ad essa uno sviluppo in termini di elaborazione politico-sindacale e di strutturazione organizzativa. I segnali più evidenti di questi limiti si possono cogliere in una molteplicità di situazioni concrete. Per brevità ne cito due: arrivammo solo dopo dieci anni dall’atto fondativo della Confederazione a costituire l’associazione dei giovani e cogliemmo con ritardo la domanda che proveniva dai pionieri del biologico di un riconoscimento mediante la creazione di un’associazione specifica.
In sostanza, non riuscimmo a vedere per tempo una cosa importante: con il declino del ciclo fordista dello sviluppo industriale, la globalizzazione galoppante e la stravolgente rivoluzione tecnologica che si stava avviando, l’agricoltura stava diventando un’entità mutante che sfuggiva alle definizioni. Un’entità plurale, multiforme, ossimorica.
Oggi quei cambiamenti si sono ulteriormente consolidati ed emergono ulteriori e più stravolgenti novità. L’evocazione di Taccone deve indurci a comprendere meglio la realtà per non lasciarci travolgere.
In un mondo che vedrà, in tempi relativamente brevi, la gran parte del proprio territorio urbanizzarsi, l’agricoltura reinventa spontaneamente le sue funzioni, trasforma l’urbano che si è sovrapposto ad essa, assediata da nuovi miti e stereotipi che sedimentano su quelli vecchi.
La stessa immigrazione di massa, che sta scuotendo l’Europa, è un prodotto del mondo globale e di uno spostamento, potenzialmente senza confini, di popoli da un continente ad un altro. Il fenomeno non ha una mera valenza economica (le imprese agricole che finalmente possono avvalersi di una domanda di lavoro più ampia), ma è diventato un’opportunità soprattutto culturale per un continente, come il nostro, invecchiato demograficamente e bisognoso di rivitalizzarsi attingendo a nuova linfa. “Nuovi cittadini” (e non solo “nuovi lavoratori”) stanno incominciando a ripopolare interi territori abbandonati del dorso appenninico, a rendersi protagonisti, come imprenditori innovativi, del risveglio civile dei quartieri popolari delle nostre metropoli. “Nuove culture rurali” interagiscono con quelle nostre e danno vita a meticciamenti inediti. Percorsi che aprono contraddizioni e conflitti da gestire con un approccio laico nuovo, ma che promuovono anche economie civili e identità territoriali in divenire.
Gli elementi che in passato distinguevano l’urbanità dalla ruralità si sono ridimensionati e quelli che restano si sovrappongono e creano nuove differenziazioni. Le quali non hanno nulla in comune con quelle precedenti e riguardano: stili di vita, rapporti tra persone e risorse, modelli di possesso uso e consumo dei beni, abitudini alimentari, modelli di welfare, motivazioni degli imprenditori. Le nuove differenze spesso entrano in conflitto e le contrapposizioni che ne derivano rallentano i processi innovativi, determinano effetti patologici.
Anche altre polarità che in passato influenzavano le campagne si sono fortemente attenuate fino a scomparire: centro e periferia, metropoli e aree interne hanno perduto i significati originari. E tali endiadi ora descrivono nuove entità policentriche e multi-identitarie. Le quali si presentano in modo molto differenziato, ma a segnarne la distinzione sono il capitale sociale, i beni relazionali, le reti di interconnessione e i legami comunitari. Il senso di marcia delle trasformazioni in atto nelle campagne europee sembra essere un’evoluzione dell’agricoltura da attività fortemente connotata da elementi produttivistici a terziario civile innovativo.
Accanto alle tradizionali agricolture scaturite dai processi di modernizzazione e dedite esclusivamente alla produzione food e non food, si sono reinventate multiformi agricolture di relazione e di comunità in cui le attività svolte sono intese come mezzo di incivilimento per migliorare il «ben vivere» delle persone. Agricolture perché molteplici sono le funzioni, le attività e i modelli che esse esprimono. Sono agricolture «multi-ideali» perché si riferiscono a passioni, vocazioni e concezioni del mondo plurime, da cui scaturiscono modelli produttivi e di consumo e attività molteplici. Sono agricolture non tradizionali perché sperimentano strade mai percorse prima e vedono prevalentemente, in una posizione da protagonisti, donne e giovani. Nuovi attori che chiedono attenzione e riconoscimento in quanto portatori di innovazione, consapevolezza e senso di responsabilità e, nel contempo, attuatori dell’interesse generale. Essi sono fortemente critici nei confronti dell’Unione Europea non solo perché la PAC non li riconosce, ma soprattutto perché intendono reagire alla spinta verso l’omologazione di tutto e, dunque, anche delle molteplici agricolture europee. Le agricolture civili e responsabili spesso assumono posizioni sovraniste perché sono convinte che la PAC ha scarsa attinenza con la necessità di salvaguardare la molteplicità delle agricolture e di spingerle a collaborare per promuovere innovazione e sviluppo. Spesso assumono posizioni sovraniste perché vedono nella PAC una politica che scoraggia l’innovazione, sbarra la strada ai giovani e non incentiva la collaborazione. Non hanno un approccio spaventato e un atteggiamento di ripulsa nei confronti della globalizzazione e non coltivano affatto una visione autarchica e difensiva. Ma anzi mostrano una spiccata sensibilità per i problemi delle agricolture contadine dei paesi in via di sviluppo e dei paesi emergenti. Le istanze di cui sono portatori non vanno, pertanto, confuse con quelle di chi pensa di reagire alla globalizzazione rinchiudendosi dentro i propri confini regionali, per difendere privilegi, rendite di posizione o valori ritenuti superiori a quelli degli altri. I tutori di queste “piccole patrie” sono in continua mobilitazione contro la riduzione dei dazi per i prodotti tunisini che importiamo in Europa, contro l’Accordo Ceta Unione Europea – Canada, contro le contraffazioni internazionali delle denominazioni d’origine o contro le normative europee in materia di sicurezza alimentare, riguardanti l’etichettatura e gli ogm. Ma lo fanno spesso in modo strumentale nel tentativo di difendere specifiche nicchie di mercato e interessi particolaristici, senza profondere un reale impegno nelle sedi internazionali dove si definiscono gli accordi e le normative. I tutori delle “piccole patrie” hanno svolto un ruolo protagonista nell’alimentare la proliferazione di strumenti e interventi nelle ultime riforme della PAC, mediante un’attività lobbystica molto intensa, soprattutto nei confronti dei governi nazionali e dei parlamentari europei.
Le agricolture civili e responsabili dovrebbero avviare percorsi di autoapprendimento collettivo e sperimentarsi nel costruire reti sovranazionali per contribuire a edificare nuove istituzioni e modelli di governance, capaci di promuovere accordi e politiche efficaci. Si tratta di incivilire la globalizzazione mediante la collaborazione responsabile.
La PAC dopo il 2020 potrebbe favorire il processo di integrazione europea, il cui percorso sembra finalmente avviarsi per impulso di Emmanuel Macron e Angela Merkel. Per farlo, però, dovrebbe essere pensata come strumento capace di svolgere tale ruolo. Un ruolo di laboratorio fondamentale del processo di costruzione europea, così come egregiamente lo svolse, tra gli anni Cinquanta e Sessanta, quando l’obiettivo comune dei sei Paesi fondatori era l’autosufficienza alimentare. Ma, una volta conseguito il traguardo già alla fine degli anni Settanta, la PAC dismise quella funzione e incominciò a perseguire, in modo contraddittorio e confuso, interessi particolaristici, legati ad una molteplicità di modelli e sistemi agricoli. Una varietà difficilmente riconducibile ad una convivenza armonica mediante una politica comune, caratterizzata dal principio di unicità.
L’attuale sistema decisionale sperimentato con l’ultima riforma della PAC contiene in sé un virus che determina automaticamente un processo di rinazionalizzazione di una politica che i Trattati definiscono “comune”. Dopo sessant’anni, la politica comune in agricoltura si è trasformata da motrice d’integrazione in pretesto di disintegrazione dell’Europa. Proprio l’esperienza fallimentare dell’ultima riforma della PAC fornisce, tuttavia, indicazioni utili per progettare in modo innovativo il futuro assetto delle istituzioni europee e delle politiche per l’agricoltura. L’Unione Europea avrebbe bisogno di un nucleo di politiche comuni che dovrebbero essere fondate su una chiara delimitazione delle competenze e su pochi obiettivi ben individuati e verificabili. Tutto il resto andrebbe lasciato alle politiche nazionali, regionali e locali. È in tale prospettiva che la molteplicità delle nostre agricolture può tornare a svolgere il ruolo di laboratorio fondamentale del processo di costruzione delle istituzioni europee.
In tale prospettiva, la PAC andrebbe, pertanto, fortemente semplificata e ridotta ad alcuni interventi essenziali e configurabili come effettiva politica comune: 1) sostegno e coordinamento del sistema della conoscenza e dell’innovazione nelle molteplici agricolture europee; 2) sostegno del sistema assicurativo per gestire i rischi degli agricoltori derivanti dalla volatilità dei prezzi e dai cambiamenti climatici.
Una scelta incentrata sulla conoscenza, sul capitale umano e sull’innovazione dovrebbe comportare, a mio avviso, l’eliminazione dell’attuale meccanismo dei pagamenti diretti, mantenuto in piedi dal coagularsi nel tempo di forti corporativismi e conservatorismi. Tale meccanismo permette una distribuzione sperequata di risorse pubbliche tra soggetti e territori. Impedisce l’accesso dei giovani. Discrimina le zone svantaggiate e, principalmente, la montagna. Si configura come una forma di rendita quando i prezzi di mercato sono alti, mentre è del tutto incapace di assicurare un reddito accettabile quando i prezzi calano.
L’altra conseguenza del nuovo approccio alla politica comune in agricoltura dovrebbe essere quella di ricondurre lo sviluppo rurale alla politica regionale. Lo sviluppo rurale ha svolto finora la funzione di trattenere nell’ambito della PAC i sostegni agli investimenti. Ma questi, per essere efficaci, dovrebbero essere destinati non più agli agricoltori ma ai sistemi territoriali, in cui le molteplici agricolture s’intrecciano con gli altri settori produttivi e coi sistemi di welfare.
Anche la politica regionale andrebbe fortemente semplificata e ridotta essenzialmente alle grandi opere infrastrutturali. Mentre la politica di sviluppo locale – nel quadro comunitario del sostegno finanziario per la coesione – dovrebbe più coerentemente rientrare tra le competenze nazionali, regionali e locali.
Le molteplici agricolture avrebbero tutto l’interesse ad una riorganizzazione delle istituzioni, delle competenze e degli obiettivi in agricoltura che vada in tale direzione, per poter esprimere nei sistemi locali pienamente le proprie potenzialità e peculiarità. Ma gli attori delle diverse agricolture non devono immaginare che la politica non abbia più spazio nella globalizzazione e che sia sufficiente esprimere consapevolezza e senso di responsabilità solo nei comportamenti individuali senza tentare di incidere negli assetti istituzionali sovranazionali. Gli attori delle agricolture responsabili e civili dovrebbero sempre più reinventare la funzione primaria dell’agricoltura che è stata, fin dalle origini, quella di generare comunità e istituzioni con cui le comunità umane hanno agito per il “ben vivere” nel mondo. L’agricoltura ha avuto da sempre un’anima politica e oggi è il tempo di reinventarla, esporla in pubblico e darle forma.
Sono certo che la CIA e l’AGIA sapranno fare le scelte necessarie per mettere nelle condizioni le agricolture civili e responsabili di avere un progetto e una speranza credibili. Inutile sottolineare che la strada è tutta in salita e che il cammino è alquanto impervio. Perché le difficoltà da affrontare sono serie ed impegnative. Ma al tempo stesso si deve essere consapevoli che c’è una sola difficoltà davvero insuperabile: è la rassegnazione. Con l’entusiasmo e il coraggio che non vi manca, saprete superare anche questo scoglio.
Illustrazione di apertura: Fortunato Depero, “Guerrieri”
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