Saperi

Le chiavi di san Pietro

Narrazioni. Io ho sempre amato san Pietro. No, san Paolo, no. Troppo facile. Il santo guerriero, il santo della conversione, la via di Damasco, la lunga spada, la fluente barba scura… Pasolini non avrebbe mai scritto nulla su san Pietro! Io invece lo amo. Così umano, forse anche meschino, magari un po’ borghese. Un santo che rinnega, che ha paura, che si addormenta quando dovrebbe essere di sostegno a Cristo nell’orto degli ulivi

Mariapia Frigerio

Le chiavi di san Pietro

L’antefatto

«San Pietro o san Paolo?»
«Come?»
«Quale preferisci».
«Non saprei».
«Sforzati e dammi una risposta. Dai, Enrico! È il 29 di giugno. È san Pietro e Paolo».
Enrico riprese a guardarsi intorno distratto mentre insieme raggiungevano il negozio di scarpe.
Nina non si arrese. Parlò lei per lui.
«Io ho sempre amato san Pietro. No, san Paolo, no. Troppo facile. Il santo guerriero, il santo della conversione, la via di Damasco, la lunga spada, la fluente barba scura e compagnia bella… Un santo amato dalle sinistre. Pasolini non avrebbe mai scritto nulla su san Pietro! Io invece lo amo. Così umano, forse anche meschino, magari un po’ borghese. Un santo che rinnega, che ha paura, che si addormenta quando dovrebbe essere di sostegno a Cristo nell’orto degli ulivi. Che dorme con la bocca aperta. Hai presente quello del Mantegna?».
«Me lo hai fatto vedere mille volte».
«Vecchio, con la barba grigia, la calvizie, ma solido. E poi… poi quelle chiavi. Del paradiso! Che bellezza nei dipinti quelle chiavi…
«Le chiavi… Quanti simboli. Peccato che io odi i simboli, le allegorie, le metafore. Non sopporto tutto quello che vi si nasconde dietro. Quello che voglio sono cose chiare. Cose immediate. Però… però le chiavi mi piacciono. Hanno qualcosa di fiabesco. Mi fanno pensare a quelle di Barbablu. Poi banalmente a quelle di casa, a quelle dell’auto, a quelle della bicicletta. Le chiavi dei diari di quando sei ragazzina…».
Nina aveva continuato a parlare. Ma dell’insofferenza dell’uomo se n’era accorta.
Eccome, se se n’era accorta.

Il fatto

Enrico e Nina continuarono a camminare lungo corso Vittorio Emanuele. La Rinascente era già stata superata da un pezzo.
«Sai, ti vorrei dire un pensiero che mi è venuto in mente. Così, all’ improvviso. Un pensiero triste. A volte sono schiava di pensieri tristi come questo. Ti ho già parlato, vero, dei Siccardi, quella famiglia di banchieri amici dei miei?».
«Non ricordo».
«Ovviamente ricchissimi. La figlia era fidanzata col proprietario di questo negozio». Rapidamente, continuando a camminare, lo indicò. «Poi si sono lasciati».
«Succede».
«Certo che succede, lo so che succede» ribatté Nina innervosita. «Ma non è questo quello che volevo dirti. È che poi – come succede, mi dirai – si è trovata un altro. Che ha sposato. Senza amore. Credo che si siano già separati. Però hanno vissuto insieme, hanno fatto due figli. Come si fa a fare due figli a comando? Poi a uscire con gli amici, ad andare in vacanza in posti esclusivi, a comprare abiti firmati. A mangiare in stoviglie ricercatissime, doni di orribili liste di nozze. Anche i regali programmati. Nulla lasciato al caso. I loro due bambini biondi. Biondi come tutti i bambini dei ricchi… Insomma, queste vite a comando mi fanno stare male. Mi fa star male questo vivere insieme, consumare pasti allo stesso tavolo, dormire nello stesso letto senza nulla da condividere. Non un pensiero. Non un sentimento. Ecco il mio pensiero triste».
Nina era cosciente che il suo era stato un monologo e non il dialogo che avrebbe desiderato. L’indifferenza dell’uomo era palese. Enrico, lì con lei, era altrove con la testa.

Una storia d’amore la loro. «Durata forse troppo?» si domandò mentalmente Nina.
Ripensò a tutti i loro incontri clandestini. Che continuavano ad esserlo clandestini… ma nessuno dei due se ne curava, ora, più di tanto. Altrimenti si sarebbero preoccupati del fatto che tutti potessero vederli girare insieme, di pomeriggio, in pieno centro a Milano. Del resto i loro rispettivi coniugi non si erano mai accorti di nulla.
Riprovò l’emozione che per anni li aveva accompagnati.
Risentì, infine, il terribile desiderio reciproco. Un desiderio che sembrava impossibile – sia a Enrico sia a Nina – contenere.
Mentre camminava in silenzio Nina immaginò un’ipotetica lettera. Sapeva bene che a Enrico non avrebbe mai scritto. Lui che non aveva spedito in vita sua una sola mail (“non ci sono le segretarie per questo?”, le aveva sempre detto) e che leggeva solo quelle di lavoro. Le altre le cestinava immediatamente. Che mai, in tanti anni, le aveva inviato un sms… Figuriamoci ricevere una busta affrancata. Probabilmente quelle delle banche erano le uniche.
Nei suoi pensieri Nina gli avrebbe parlato liberamente. E, dopo essere entrati nel negozio di articoli sportivi, si prese questa libertà … sì, di parlargli proprio come se gli scrivesse.

«Caro Enrico, mi fa un certo effetto mettere per iscritto il tuo nome. Mi basterebbe firmarmi ‘tua sorella’ e avremmo una di quelle orribili lettere strappalacrime di “Cuore”. Ma noi non strappiamo più lacrime a nessuno. Del resto a chi dovrebbero strapparle due amanti a cui l’amore lentamente viene meno? Però io una notte intera ho pianto pensando alla tua indifferenza. Ad essere sincera molto più di una sola notte…
Come sono stata cretina! No, sbaglio a definirmi così. Ti ho amato e quando si ama non si è mai cretini.
Mi è difficile ora non ricordare le tante cose belle e non recriminare sulle altrettante brutte. Anche se non vorrei.
Certo che me ne hai rubata di vita! Hai chiuso la vita fuori dalla finestra come quando chiudevi fuori la luce del giorno le volte in cui, in questi anni, siamo riusciti a dormire insieme. E la vita non torna.
In quella tua casa di Maggianico dove consumavamo (ti accorgi che ti sto parlando, pardon scrivendo, al passato?) il nostro amore, io ti ho sempre obbedito.
Ti avevo detto che mi piaceva addormentarmi guardando il buio della notte e risvegliarmi con la luce del mattino. Tu sostenevi che a letto si va per dormire e che al buio si dorme meglio. E comunque nell’ultimo periodo noi effettivamente abbiamo solo dormito. Le tenerezze tra noi ormai un ricordo lontano. Così come lontano il ricordo del tuo entusiasmo per tutto quello che ti dicevo.
Ti piacevano i miei racconti. Mi definivi il tuo “fiume di parole”. Il tuo “fiume in piena privato”. Infatti eri un po’ – ma solo un po’ – geloso quando parlavo con altri.
Dico solo un po’ perché so che consideri la gelosia un sentimento plebeo, non degno della razionalità che sempre ha guidato le tue azioni.
Ora penso a te come a un uomo arido. Tieni quella moglie scema che vive in una casa che tu stesso hai definito una “bomboniera”. Come si fa a ridurre così un appartamento in un palazzo di corso Magenta, quasi di fronte a Santa Maria delle Grazie? Quasi di fronte a Bramante e Leonardo? Ma in quella casa ci vivi pure tu anche se, da uomo ricco quale sei, te ne puoi permettere una seconda, fatta su tua misura: quell’ex convento, poi villa, alle porte di Lecco.
Per lunghissimo tempo mi ha incantato quel luogo. Divani sfatti, pareti dipinte con scene mitologiche, libri ovunque. Poi i tuoi dischi in vinile, gli unici per te con cui era concepibile ascoltare la musica.
Quanto Nat King Cole! Quanti “Quizás, quizás, quizás”! Dopo l’uscita di “In the mood for love” lo ascoltavamo sempre.
“In the mood for love”… un film su un amore irrisolto. Il nostro no. Il nostro era un amore risoltissimo. E all’epoca eravamo entrambi effettivamente “predisposti all’amore”. E, per anni, abbiamo continuato ad esserlo.
Ci sedevamo vicini per ascoltarlo in quel salone dove io mi divertivo a guardare sul soffitto il carro trainato da Apollo. E pensavo al povero Fetonte. Fetonte come Icaro: due figli disubbidienti puniti. Io sono sempre stata ubbidiente con tutti. Anche con te. Eppure, per certi versi, mi sento anch’io punita… Punita dal tuo diverso atteggiamento nei miei confronti. Punita in quanto non considerata.
E comunque mi piaceva che tu avessi quei dischi e non per la moda che oggi va per la maggiore, ma perché li avevi presi in casa dei tuoi e perché non ti eri mai voluto arrendere ai cd.
Come mi piaceva il nostro stringerci su quei divani capitonné appoggiandoci a quei cuscini che perdevano le piume…
Avevi voluto mantenere l’arredo dei vecchi proprietari, un arredo discutibile, ma volevi tassativamente una casa che ti desse l’idea di essere stata già vissuta, già abitata, anche se da persone di dubbio gusto. Nulla avevi voluto cambiare. Né quel salone né la sala da pranzo con i mobili finto rinascimento né la camera con il letto a baldacchino né l’altra, la nostra, primi ‘900.
Un uomo diverso dagli altri. Ecco quello che per lungo tempo sei stato per me.
Ora no. Ora mi appari solo come il figlio snob del mitico editore. L’editore per eccellenza della mia generazione. Il figlio che occupa un posto di rilievo nell’azienda paterna e che, collaborandovi, ne percepisce gli utili.
Ma, quando ci incontrammo, fu proprio la tua diversità ad affascinarmi. Mi sembravi l’uomo dei libri che sempre avevo sognato. Senza contare quel tuo volermi in continuazione ascoltare…
Un giorno, però, non troppo tempo fa, mi hai detto che di te mi attraeva la giovinezza. Ed è stato il primo segnale che qualcosa tra noi non funzionava più. Un segno di sottile perfidia. Volevi offendere il mio amore per te? Il mio amore totalmente disinteressato? Forse volevi vendicarti? E se sì, di cosa?
È vero, mio marito ha ventidue anni più di me. Tu ed io quarantacinque.
Mio marito ne ha sessantasette di anni. È ancora un bell’uomo. Ma io lo amerei anche se fosse brutto. Lo amerei perché non solo è più vecchio di me, ma perché tra non molto sarà vecchio e basta. E i vecchi hanno bisogno di essere amati. Per questo io ora voglio amare lui e non più te.
Non hai voluto figli da quella bambola trentenne che tieni nella “bomboniera”. Forse lei li avrebbe voluti. Ma sei sempre tu che decidi. Per lei come per me.
Io ne ho tre e non potrei fare a meno di loro. Mai però mi hai permesso di parlartene.
Ho avuto tre figli perché, in un tempo che mi pare adesso lontanissimo, ho molto amato il loro padre. E prepotentemente loro sono voluti venire al mondo. Tu di certo non hai subito prepotenze di questo tipo.
Come vedi, obbligata a non parlartene, mi prendo la libertà di scrivertene…
So di averti sempre attratto fisicamente e, soprattutto, intellettualmente. Ma spiritualmente? Spiritualmente, mi chiedo ora, ti sono mai piaciuta?
I miei figli. Girolamo, Rocco e Sebastiano. I nomi dei miei santi preferiti. Preferiti come li può preferire una laica convinta. Neppure nella mia lettera mentale te ne parlo di questi santi perché vedo già la noia sul tuo volto.
Ma, se ben ricordi, quando venisti per la prima volta alla Silvana Editoriale rimanesti entusiasta del fatto che, come curatrice dell’apparato iconografico delle pubblicazioni, avessi questa passione.
Poi arrivò Parma. Ero là per la presentazione del catalogo del “Parmigianino e il manierismo europeo”. Il presidente – per quell’occasione con me – mi disse: «Ci pensi lei, dottoressa, ad accompagnare il mio amico». Fu così che ti guidai nella mostra. Lo ricordo benissimo.
Ricordo la tua riservatezza che lasciava ugualmente trapelare la tua emozione. Perché forse… forse eri più emozionato di quanto non lo fossi io.
Volevi ti insegnassi gli attributi dei santi per riconoscerli. Poi non ti bastavano più quelli primari. Volevi i secondari.
E quando ci trovammo di fronte il teatro Farnese – vera e propria apparizione nel percorso della mostra – veramente ci sentimmo in quella “vena d’amore”, in quel “ mood for love” del film amato da entrambi.
Potremmo dire che la nostra è stata una storia… ma sì, una storia benedetta. Se non fosse stata poi maledetta dal tempo.
Il tempo. Come quello della cartolina che ti portai da Parigi e che tu ignorasti. Ti dava fastidio che fossi andata a trovare Girolamo nel suo ‘Erasmus’ parigino con i miei ragazzi più giovani? Con Rocco e Sebastiano? Ne eri geloso?
Chissà! Forse potevi avere ragione perché se mentre amavo te non amavo mio marito, loro, i miei tre ragazzi, non ho cessato un solo attimo di amarli e di tenerli con me anche quando ero con te. E, in ogni caso, non ho fatto mancare nulla a nessuno: né alla mia famiglia né al lavoro. E neppure a te, Enrico.
Certo che ci vuole abilità per fare incastrare tutto. Per realizzare un mosaico perfetto. Per mettere ogni tessera al posto giusto.
Ci vuole abilità e entusiasmo. E fatica. Tanta.
Quanti viaggi in treno per aspettarti a Maggianico! Porta Garibaldi, l’ora di lettura o di sonno, la macchina pubblica che mi portava dalla stazione di Lecco-Maggianico a destinazione.
Eri tu a volere che prendessi il treno per non rischiare incidenti sulla strada. Hai sempre avuto paura che mi potesse succedere qualcosa. Ero importante per te. O, almeno, lo sono stata per molto.
Allora usavo le chiavi che mi avevi dato. Aprivo il cancello laterale con volute e riccioli, a lato di uno dei due pilastri centrali, entravo in giardino e mi sedevo a riposare sulla panca della nicchia con cimasa a mascheroni. Gli stessi che guardavo di sotto i balconi delle camere. Non m’importava che facesse freddo. Ero coperta dal mio stato di felicità.
Con l’arrivo della primavera, in maggio, i grandi cespugli di ortensie si riempivano di quei fiori rosa che io trovo veramente signorili. E belli come il loro nome.
Penso che se avessi avuto una figlia l’avrei sicuramente chiamata così.
Tu arrivavi sempre troppo tardi rispetto al desiderio che avevo di te. Ma la certezza che saresti arrivato c’era.
Dopo mi alzavo, aprivo il portone di legno, percorrevo il portico fino allo scalone. Salivo, attraversavo quel lungo corridoio dove ad armadi si succedevano tavoli e librerie e passavo in uno stretto ballatoio esterno che si affacciava sul cortile a ciottoli che mi piaceva guardare dall’alto, col grande vaso di bosso al centro e la fontana a mezzaluna di lato, sotto la tettoia. Poi entravo dalla porta in un bagno. Un bellissimo doppio bagno. Da lì passavo nella nostra camera per depositare la mia piccola borsa.
Del resto avevo già tutto in quella casa. Tutto doppio. Non era, per certi aspetti, anche la mia di seconda casa? Tutto perché non fossi costretta a inutili – e soprattutto visibili – bagagli.
Avrei potuto raggiungere la nostra stanza anche attraverso quella del letto a baldacchino, in fondo al lungo corridoio. Ma mi piaceva quell’entrare e uscire. Quel dentro e fuori.
Prendevo quindi un libro, un notes e il pc e scendevo giù nel salone, attraversando la stanza del baldacchino, rientrando nell’ampio corridoio, ma usando scale secondarie.
Quando mi ero raggomitolata su uno di quei divani con un plaid se era inverno o al fresco di quelle mura spesse nelle mie ampie gonne di lino se la stagione era calda, tu, nel momento più inaspettato, arrivavi. Quasi con passo felpato per non farti sentire
Mi stringevi sempre dalle spalle, mi tiravi la testa indietro e iniziavi a baciarmi il volto. Poi scavalcavi lo schienale del divano e ti mettevi accanto a me.
Ci siamo abbracciati per ore su quei divani. Sì, ci siamo abbracciati, baciati e… Era bello farlo lì più che nel letto. O era bello farlo lì e più tardi nel letto.
No, non abbiamo mai mangiato nella sala da pranzo. A volte vi abbiamo giocato a carte. Come due anziani coniugi. È strano come nella vita si anticipino certe tappe o, al contrario, si regredisca ad altre. È sempre difficile vivere appieno la realtà del momento.
Mangiavamo, invece, nella cucina in fondo, vicina a un ampio locale, una specie di magazzino. Tu, prima di raggiungermi, passavi sempre all’osteria dell’Olga e portavi ogni tipo di leccornia. Ti piaceva viziarmi.

E le nostre gite? Ci aveva preso la passione per chiesine e santuari. La Chiesa di Sant’Andrea a Maggianico, l’eremo di San Girolamo, la Madonna del Bosco, la chiesetta del Beato Serafino, quella di Pescarenico. Amavamo entrambi quei luoghi manzoniani.
E con l’autunno andare per castagne nei boschi sopra la villa.
Come sono romantici gli innamorati. Talmente romantici da essere quasi ridicoli.
Mi viene in mente, a proposito, quella battuta: “Le amanti abbandonate sono come le motociclette: fanno un gran baccano prima di partire”.
Non dubitare: uscirò in silenzio dalla tua vita. E in ogni caso non mi sento affatto un’amante abbandonata. Piuttosto trascurata. E questo per una col mio carattere è insopportabile. Ugualmente puoi star tranquillo, non farò baccano.
Un giorno, mentre ti aspettavo leggendo, ebbi uno di quei miei pensieri tristi. Ma, ormai reticente, non te ne parlai.
Pensai che il mare dava sempre – a chi gli viveva vicino – un senso di grande libertà. Il fiume, invece, costringeva gli orizzonti, ma aveva un suo fascino. Il lago – qualunque lago e non solo quel nostro “ramo del lago di Como” – era comunque sinonimo di morte.
Forse intuivo la fine del nostro amore?

Siamo stati, in questi anni, veramente bravi.
Due amanti perfetti. Rispettosissimi di quei comandamenti inderogabili, come le feste in famiglia. Ricordi come ci sembravano eterni i Natali, le Pasque, il ponte dei morti, quello dell’Immacolata che ci costringevano alla lontananza? Per non parlare dell’estate.
La tua bambola trentenne non si è mai accorta di nulla. Probabilmente le bastava la sua “bomboniera” di lusso, il tuo nome e i tuoi soldi. E fingere di fare l’arredatrice. Sembra che sia il lavoro preferito dalle nullafacenti mogli di ricchi. Poi tu sei un uomo e col tuo lavoro hai mille scuse per non destar sospetti. Ma anch’io, nel mio piccolo, ho saputo organizzarmi.
Ci eravamo creati un nostro personale calendario di incontri che partiva da marzo col Salon du Livre di Parigi.
Seguiva, alla fine dello stesso mese, la Fiera del Libro per Ragazzi a Bologna. A maggio il Salone Internazionale del Libro a Torino. A ottobre la Buchmesse di Francoforte… Ma su tutti quelli che ci emozionavano di più erano gli incontri in quel paradiso di Maggianico.
Maggianico che non era più un luogo… Era, per entrambi, fondamentalmente una casa. Quella casa.
Ho faticato molto in quanto donna, ma anch’io ho finto impegni riducendo al minimo quelli veri.
Neppure mio marito si è mai accorto di nulla. O forse, per quieto vivere, ha finto? O, ancora, mi reputava troppo vecchia per avere qualcuno? Difficile capire. Soprattutto la mentalità maschile.
Il nostro calendario… Mi sto ancora chiedendo come mai tu non abbia insistito perché venissi, nella prossima metà di luglio, con te alla Fiera del Libro di Hong Kong. Nessun accenno. Sai benissimo che ancora una volta avrei fatto i salti mortali, ma ci sarei riuscita. Hong Kong: la città di “In the mood for love”.
Per fortuna che questa lettera resterà solo mia e mai la leggerai. Dico cose vere, ma sconclusionate! Come fare altrimenti senza un pezzo di carta in mano e con una commessa che continua a guardarmi come se aspettasse il mio benestare su quello che vuoi acquistare? Poverina, non deve proprio conoscerti se pensa che io possa in qualche modo condizionare una tua scelta…

Ma torniamo alla cartolina ignorata. Quella del tempo. Quella che ti portai da Parigi. Un bellissimo quadro di Van Dyck – Le Temps coup les ailes de l’Amour – scoperto da Sebastiano. Mi fa effetto che il mio diciottenne si sia finalmente arreso all’amore per le immagini. Sarà l’Esame di Stato che incombe con la paura di non essere preparato? Per anni ha sbuffato ogni volta che lo portavo a una mostra.
Girolamo invece, fin da piccino, si è sempre divertito a collezionare i “suoi” santi. E non a torto. I san Girolamo sono degli splendidi vecchi muscolosi. Mi è sempre piaciuta l’idea della bellezza senile più di quella del vecchio incattivito che rimpiange e invidia la gioventù. Poi a Girolamo si univa Rocco (a volte persino Sebastiano) nella ricerca del leone, l’attributo del santo, che sovente sembra nascondersi. Così il mio bambino più grande collezionava indistintamente santi e calciatori, cartoline e figurine Panini.
Anche Rocco si è sempre divertito con il suo santo dalla coscia scoperta e il cane che gliela lecca. Rocco ha delle cosce fortissime. Adora il pallone. E si arrabbia con me perché mi diverto a pizzicargliele. Quand’era piccolo diceva che gli facevo male. Ora forse è un po’ imbarazzato, con i suoi vent’ anni, i peli sulle gambe e una madre che non si arrende al fatto che i suoi figli siano ormai degli uomini.
Così è stato proprio Sebastiano che non ha mai amato né l’arte né il suo nome né tantomeno il suo santo (“sembrano tutti dei finocchi” frase che, come si conviene a una madre, ho finto di ignorare) a fermarsi davanti a quel Van Dyck e a cercare, su mia richiesta, la cartolina. Non so perché te la volessi portare… Non c’era intenzione, te l’assicuro.
Forse una profezia inconscia quel tempo che taglia le ali all’amore? Nel mio cuore avrei preferito invertire i ruoli (in fondo potrebbe essere vero anche il contrario) e far sì che fosse l’amore a tagliare le ali al tempo.
Ma probabilmente il tempo è senza ali.
Come le storie d’amore che dopo un certo periodo non volano più. Basta accorgersene”.

Triste epilogo

Enrico aveva scelto delle Superga dopo aver fatto smontare quasi tutto il negozio. Poi si era concentrato su tre colori: blu, nero e beige. Aveva definitivamente scelto le beige.
In tutto quel tempo Nina era stata spettatrice muta. Ma gli aveva mentalmente scritto e mentalmente aveva deciso.
Appena usciti, messa la mano nella borsa, ne aveva estratto delle chiavi. E le aveva consegnate a Enrico.
«Perché mi dai le chiavi di Maggianico?»
«Non sono quelle di Maggianico. Ti ridò le chiavi di san Pietro. Le chiavi del paradiso».
Enrico l’aveva guardata allibito. Senza parole. Le avrebbe trovate, sicuramente, delle parole se solo Nina gli avesse dato tempo.
Ma Nina era forte. Aveva i suoi figli. Poi anche il vecchio marito. E non tornava sulle decisioni prese. Mai.
Avrebbe potuto andare a piedi, ma con un taxi sarebbe stata a casa prima.
Disse la via all’autista. Poi non poté fare a meno di fargli la domanda:
«San Pietro o san Paolo?»
«Mi ero scordato del giorno! San Paolo, san Paolo con il cavallo, la caduta… Un giuinot. Minga un vegett cume san Peder. Ci sono già io con i miei acciacchi… ».
Nina pensò che i taxisti milanesi erano proprio simpatici. Sempre pronti a chiacchierare. Sempre allegri.
Giunse in via Sant’Eufemia in pochi minuti. Il taxi si fermò al 17. Lei aveva già i soldi pronti e le chiavi in mano. Aprì il portone. Salì senza ascensore al terzo piano. Sul pianerottolo, mentre infilava le chiavi nella porta, capì che quelle (e solo quelle) erano le chiavi di san Pietro, quelle che aprivano il suo piccolissimo ma autentico paradiso, in cui ad aspettarla avrebbe trovato i suoi ragazzi più giovani, Rocco e Sebastiano. Ugualmente sapeva che non appena dentro avrebbe sbirciato anche nella stanza del figlio parigino, per immaginarlo, per sentirlo più vicino.
Madre. Madre era quello che si sentiva di essere fino nelle viscere. Madre dei suoi figli e… sì, anche del vecchio marito.
Avrebbe di certo ripensato a Enrico, alla casa di Maggianico, ai loro viaggi di lavoro, agli anni del loro amore.
Non era possibile cancellarli così, di punto in bianco.
Ma anche Enrico, come gli uomini che prima di lui l’avevano distratta, un certo giorno non sarebbe esistito più.

…..

Definitivo più triste epilogo

Più tardi mentre si preparava a fare le orecchiette alla pugliese – piatto amatissimo dai suoi ragazzi – pensò con tenerezza a quell’uomo con cui tanto aveva condiviso… quell’uomo che forse ora si trovava in casa con una moglie mal sopportata e senza figli.
Mentre lei…
Ma perché Enrico non aveva voluto figli? Per paura della vita come quando la chiudeva fuori dalle finestre di Maggianico?
No, non poteva essere così.
Una volta le aveva in effetti raccontato di un suo amore giovanile. Di una ragazza incinta. Di genitori perbenisti da entrambe le parti. Di un’interruzione di gravidanza.
Un figlio non nato per decisioni prese da altri.
Ma lei, Nina, aveva mai cercato di saperne di più? Aveva mai cercato di rompere quel muro di silenzio che lui sembrava volerle imporre al riguardo? Aveva mai cercato di entrare veramente nell’anima di Enrico, di capire l’origine di quella che lei definiva – banalmente – aridità?
E come avrebbe potuto presa solo dal pensiero di essere ascoltata? Concentrata solo sul piacere di essere il “suo fiume di parole”?
Poi la moglie scema… Avrebbero potuto separarsi, divorziare… tutto più facile senza figli… E se lei, invece, lo avesse amato veramente?
Nina si sentì odiosa. Odiosa a se stessa con quei suoi giudizi così tranchants. Odiosa con la sua fissazione per l’estetica. Ma certo! La moglie lo amava e lui non voleva farla soffrire come già aveva fatto, giovanissimo, con la madre del suo bambino.
Ripensò alla casa “bomboniera”. Immaginò divani a rose e tappezzerie a fiori. Sentì profondo il dolore che quella parvenza zuccherosa nascondeva: una donna che per amore rinunciava ad avere figli per uno che era stato, in passato, rifiutato.
Un dolore esistenziale si impossessò allora di lei, un dolore che, quasi inconsciamente, le fece bisbigliare: «Sunt lacrimae rerum et mentem mortalia tangunt».
Sebastiano che le era accanto e la stava aiutando a pulire gli spicchi d’aglio udì qualcosa.
«Come hai detto?»
«Niente, niente».
Fece di tutto per trattenerle. Ugualmente alcune lacrime le scesero sulle guance.
Il suo narcisismo. Per quello aveva lasciato Enrico. Per la paura di non essere sempre al centro dei suoi pensieri e per la sua incapacità a entrare in quelli degli altri.
E se fosse stata lei, apparenze a parte, la vera arida? Probabilmente era così. Nina, dolorosamente, iniziava a rendersene conto.
Aveva giocato con la vita, con quella degli altri, in modo spregiudicato. Senza rinunciare a nulla.
Si sentì svuotata. Invidiò la moglie scema. La immaginò con Enrico. Li vide insieme. Ora sapeva che a lei di Enrico non sarebbe rimasto che il rimpianto.
«Mamma, stai piangendo!»
«Saranno le cipolle… ».
«Ma se abbiamo usato l’aglio!».
«Allora sarà l’aglio… Su, ora va a dire a Rocco che la smetta con la musica e venga ad apparecchiare la tavola. Poi va da papà e digli che tra mezz’ora la cena sarà in tavola».

Fiumetto, 6 luglio 2011

La foto di apertura è di Nicola Dal Falco

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